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Richard Levins, una scienza per il popolo

Le conquiste della tecnica sembrano ottenute a prezzo della loro stessa natura. Sembra che l’uomo nella misura in cui assoggetta la natura, si assoggetti ad altri uomini o alla propria abiezione. Perfino la pura luce della scienza sembra poter risplendere solo sullo sfondo tenebroso dell’ignoranza. Tutte le nostre scoperte e i nostri progressi sembrano infondere una vita spirituale alle forze materiali e al tempo stesso istupidire la vita umana, riducendola a una forza materiale.
Karl Marx

La settimana scorsa, il 19 Gennaio, è morto a 85 anni Richard Levins, contadino, rivoluzionario, biologo, matematico, filosofo della scienza. Negli Stati Uniti, dove è nato e ha vissuto la maggior parte della sua vita, la notizia circola grazie a qualche articolo e all’annuncio di morte sulla sua pagina web di Harvard, l’università dove ha insegnato nel dipartimento di Ecologia e Sanità Pubblica per quasi 50 anni. In Italia il suo nome lo può aver incontrato chi si sia imbattuto in un qualsiasi manuale di Ecologia, ma la sua scomparsa rischia di passare del tutto inosservata. E sarebbe un vero peccato.
Non tanto perché sia importante ricordare i notevoli risultati e la sua vita straordinaria da scienziato eccezionale e militante infaticabile, ma perché rischieremmo di perdere il suo prezioso insegnamento sulla sintesi dei due aspetti. Perché per Richard Levins era impossibile tenerli separati: per lui che veniva da un ambiente familiare proletario ma colto -di quel tipo cultura che è uno dei più bei frutti dell’impegno politico-, in cui “era scontato che il mondo fosse ricco, complesso, interconnesso e soprattutto pieno di cose interessanti”; un ambiente in cui “la realizzazione personale coincideva con il contributo che si dava per migliorarlo”; per lui, appunto, era facile, addirittura “inevitabile”, come sapeva già da ragazzino, crescere da “scienziato e comunista”.

Così, a stimolare molte delle questioni che affronterà nel suo lavoro scientifico saranno i problemi pratici e politici del lavoro agricolo, della povertà, dello sviluppo economico incontrati negli anni vissuti da contadino a Puerto Rico. Fuggito lì giovanissimo per sottrarsi al pesante clima anticomunista del maccartismo che gli impediva anche di continuare gli studi appena conclusi, assisterà insieme alla moglie da poco sposata (e che rimarrà per sempre sua compagna) alle rivolte indipendentiste e parteciperà alle lotte del movimento contadino, finendo per scrivere insieme a lei la piattaforma agraria del Partito Comunista portoricano. Ma a stimolare e sviluppare le sue riflessioni saranno anche i problemi dell’agricoltura Cubana, affrontati per tutta la durata della sua vita in qualità di collaboratore delle istituzioni governative ed accademiche (che gli sono valse anche la laurea ad honorem all’università dell’Havana); così come saranno anche le attività con i comitati territoriali per la salute e contro l’inquinamento, portate avanti insieme al collettivo “Science for the People”; la guerra in Vietnam, che lo spinse a rifiutare, in virtù di una decisione collettiva, l’affiliazione alla prestigiosissima National Academy of Science per il suo appoggio alla politica imperialista del governo statunitense e a recarsi nei luoghi del conflitto per indagare gli effetti teratogeni e cancerogeni degli erbicidi utilizzati dalle truppe americane.

Più in generale è stato mantenere sempre “un piede dentro l’accademia e un piede fuori”, un piede nelle lotte e nei bisogni della “comunità”, a coltivare uno sguardo che non poteva non vedere come alcuni caratteri di molta ricerca scientifica fossero strutturati attorno ad altre priorità, quelle delle classi dominanti. E’ il caso della tendenza, ancora egemone, a sviluppare modelli che sacrificano la generalità o il realismo sull’altare della precisione. Modelli matematici anche molto sofisticati in grado di fornire risposte univoche e specifiche, ma solo al prezzo di assunzioni irrealiste. Caratteristiche che li rendono a uso e consumo di chi ha le risorse da investire per misurare con l’accuratezza necessaria i parametri in gioco e di chi ha sufficientemente potere da non doversi preoccupare troppo delle eventuali nefaste conseguenze, che lo vedranno nella stessa posizione a rimediare all’“errore” commesso. Riflette quindi la posizione, e così il punto di vista, di chi crede di avere abbastanza controllo sul mondo da potersi concentrare sul particolare e sulla possibilità di manipolarlo piuttosto che sull’essenziale e sulla necessità di comprenderlo – e quindi modificarlo. Per chi è dall’altra parte, per chi non ha altrettante risorse è prioritario però innanzitutto capire come i sistemi funzionino nel loro complesso e come esercitare le pressioni adeguate su alcune delle loro componenti. In questo senso il ruolo della matematica, dalla cui applicazione nel campo della biologia ed ecologia Levins è stato un pioniere, è prioritariamente quello di “educare l’intuito, rendere chiaro ciò che oscuro e promuovere la comprensione più che la predizione”.

Perché qualsiasi conclusione la scienza raggiunga, essa si rivela prima o poi sbagliata.
Viviamo, infatti, nel pieno di una contraddizione: l’unico modo in cui possiamo avere a che fare con ciò che non conosciamo è aspettarci che sia come ciò che già conosciamo. Poiché lo sconosciuto è simile al conosciuto, la scienza è possibile; poiché lo sconosciuto è diverso dal conosciuto, la scienza è necessaria. Come sosteneva un altro grande biologo marxista, J. B. S. Haldane, “il mondo non è solo più strano di come ce lo immaginiamo, ma è anche più strano di quanto possiamo immaginare”. Il punto allora non è quello di raggiungere verità ultime, ma trovare gli strumenti concettuali che ci permettano di confrontarci con i problemi del presente, partendo dalla nostra posizione limitata biologicamente e, soprattutto, storicamente. “La verità è l’Intero” dice Levins, riprendendo Hegel. Le astrazioni ci permettono di cogliere alcune sue parti e diventare così a nostra volta parte più attiva e consapevole della realtà. L’arte della ricerca è allora quella di individuare quando una certa semplificazione sia feconda e utile e quando invece questa smetta di essere legittima e cominci a nascondere più di quanto non sia in grado di svelare. Ma quest’arte richiede la giusta sensibilità, richiede che si formulino le domande giuste prima di pretendere risposte precise, richiede una vera e propria empatia con il proprio oggetto di studio, come il caso di quell’ornitologo che rifiuta un progetto di ricerca di sei mesi in un luogo che non conosce perché non ci sarebbe stato il tempo di “entrare in sintonia con gli uccelli”. Fatti e valori sono quindi opposti ma dialetticamente uniti: i fatti sono infarciti di teoria, senza la quale non potremmo neanche “vederli”, mentre la teoria si forgia nel confronto con i fatti, in una pratica mossa e animata da senso estetico, impegno etico, aspirazioni politiche. E quindi dagli strumenti materiali e ideologici offerti dal proprio tempo.

E nel nostro tempo domina un’ideologia meccanicista e riduzionista secondo cui ogni sistema sarebbe composto di un insieme di parti nettamente distinte e internamente omogenee. Parti che esistono a prescindere dal “tutto” che compongono; un tutto univocamente determinato dalle loro interazioni reciproche. Questo mondo in cui le parti sono isolate dal tutto e considerate cose in se stesse, in cui le cause sono separate rigidamente dagli effetti così come i soggetti dagli oggetti, è un mondo fisico che riflette il mondo sociale alienato che l’ha prodotto, un mondo ridotto a insieme di enti isolati pronti a essere scambiati sul mercato come merci. Ed è una rappresentazione utile a fabbricare teorie e pratiche scientifiche che possano produrre merci o essere merci esse stesse. Il materialismo meccanicista allora non è solo un modo di strutturare il sapere, ma anche un modo per intervenire sul mondo. Come la rappresentazione borghese della società, che da una parte è ideologica, in quanto pretende di derivare dagli uomini isolati e dalle loro inclinazioni le leggi del sistema che produce il loro stesso isolamento, e dall’altra ha effetti reali, poiché descrive e permette di intervenire in un mondo in cui gli uomini sono realmente separati dal prodotto del loro lavoro e messi in relazione attraverso il mercato e le sue “leggi”.
A questo mondo alienato, Levins, insieme al suo collega di Harvard e compagno Richard Lewontin, straordinario genetista comunista, contrappone una visione dialettica in cui le cose vengono sin dall’inizio pensate come internamente eterogenee a ogni livello. Anziché cercare i costituenti ultimi della realtà a partire dai quali ricostruire l’intero mondo fenomenico, è più fecondo pensare che il fondamento non ci sia, che ogni supposta “unità di base” possa essere a sua volta scomposta aprendo nuove interessanti strade di ricerca, come mostra la storia della chimica e della fisica, una storia costellata della loro presunta scoperta e poi confutazione (dagli atomi, che per definizione dovevano essere indivisibili, alle ultime e costanti evoluzioni della fisica delle particelle).

Nella loro interazione e compenetrazione le parti decidono l’andamento dello stesso sistema che le definisce in quanto parti, a prescindere dal quale non sarebbero neanche pensabili. Privilegiando invece le cose nel loro isolamento ai processi, e i singoli fattori alle condizioni che li fanno emergere, la rappresentazione dominante del mondo naturale orienta e allo stesso tempo razionalizza una prassi che fa interessi specifici. Quale sia il fattore, in un’infinita serie di relazioni causali, che viene identificato come causa di un particolare effetto, dipende in parte dalla pratica sociale. Ad esempio, quando si definisce causa di una data malattia infettiva il rispettivo bacillo, magari complicando il quadro imputando alla malnutrizione e alla povertà la causa della sua letalità e morbilità. In tal modo si fa certo qualcosa di necessario e si dice qualcosa di vero, ma la prospettiva andrebbe ribaltata: il bacillo è l’agente, il tramite attraverso cui le condizioni individuali (stress immunitario, ecc.) e collettive (scarsa igiene, ecc.) dettate dalla malnutrizione e dalla povertà esercitano i loro effetti. Pensare le cose in modo inverso permette sicuramente lo sviluppo di antibiotici commercializzabili, ma aiuta poco affinché, estinta una malattia, non se ne presenti subito un’altra – per la gioia delle case farmaceutiche che avranno un nuovo mercato su cui investire. Riflessioni da tenere a mente in questi ultimi tempi in cui, dopo decenni di considerazioni su una supposta transizione epidemiologica che avrebbe dovuto segnare la sostituzione progressiva delle malattie infettive con quelle croniche, quasi ogni anno si presenta nel panico generale una nuova possibile drammatica pandemia globale. E in cui, schizofrenicamente, mentre si investe nella ricerca di potenziali cure e vaccini, la crisi porta all’aumento della povertà assoluta, a quello dei carichi di lavoro, al peggioramento delle condizioni igieniche e a tagli nelle spese sanitarie, esasperando condizioni di stress e vulnerabilità.

L’inevitabile reazione agli effetti e all’ideologia di questo mondo alienato è il proliferare di “olismi” di vario tipo – dalla New Age alle caricature della filosofia orientale – o l’esaltazione reazionaria e oscurantista della percezione immediata dell’“uomo comune” e del sentimento religioso. Mentre cresce esponenzialmente la potenza e il raggio delle forze produttive e tecnologiche, milioni (miliardi!) di persone condannate a una tragica impotenza si gettano tra le braccia di fedi antiche e business moderni. Vecchie idee si ammantano di novità e nuove mode si rivestono di vecchie tradizioni, smerciando soluzioni che diano senso a un mondo sempre più frammentato e privo di umanità e ristabiliscano la “naturale armonia” del corpo, dello spirito e del pianeta. Vecchi e nuovi olismi hanno quindi paradossalmente interiorizzato il cardine dell’ideologia meccanicista a cui si contrappongono: quello per cui le cose tenderebbero ad uno stato naturale di equilibrio a meno che non siano perturbate dall’esterno. Il dialettico invece nella singola “cosa” vede una sintesi temporanea di forze opposte, nei processi l’intima realtà delle cose. La rappresentazione dominante va ribaltata e la stabilità pensata come un caso particolare del cambiamento, la norma come il caso eccezionale, come nell’evoluzione biologica, in cui è la variazione, l’imperfezione, la permanente mutevolezza a forgiare la stabilità dei “tipi” e delle specie, nel loro straordinario adattamento e nella loro perfezione apparente.
La scienza può e deve venire incontro e mettersi al servizio delle persone e dei loro bisogni. Può e deve sostituire alla paura dell’ignoto la meraviglia di fronte al reale e alle sue inesauribili novità. Il miglior modo per difendere la scienza dagli attacchi reazionari è allora pretendere una “scienza per il popolo”.

Una scienza che rinunci alla smania del controllo tecnocratico di una natura intimamente indomabile e si concentri piuttosto nell’elaborazione di strategie razionali, lungimiranti, delicate (“gentle” dice Levins) al fine di attrezzarsi all’imprevedibile, per prepararsi al non preparabile. Perché conoscere è il modo migliore per riconoscere ciò che non si conosce. Una scienza che si chieda sempre perché le cose sono così e non piuttosto un po’ diverse, o piuttosto non radicalmente diverse, e quanto sia rilevante e da dove possa rientrare il resto del mondo che abbiamo trascurato. Che combatta l’irrazionalità mostrando quanto la vita si arricchisca ogni volta che la comprensione del nostro rapporto con la natura e con gli altri esseri umani si chiarisce e approfondisce. Una scienza per cui la realtà possa essere indagata legittimamente a ogni livello e in cui l’isolamento e la divisione dei fenomeni siano solo un modo, utile e straordinario, per comprendere più a fondo la natura del loro intimo legame. In cui le differenze non siano dissolte nella totalità indifferenziata del misticismo, ma sviscerate, approfondite e quindi ricomprese in un’unità più ricca. Una scienza che impari a combinare la conoscenza dettagliata e intima che le persone hanno di ciò che incontrano nel proprio lavoro e nella propria esperienza di vita con il tipo di conoscenza astratta e comparativa che è propria del sapere scientifico, il quale deve essere libero di sottrarsi alle urgenze immediate della pratica. Perché d’altronde se l’apparenza delle cose coincidesse con la loro essenza ogni scienza sarebbe superflua, come diceva il vecchio Marx. Per questo una scienza che serva le persone deve anche imparare a comunicare bene i suoi risultati, facendo leva proprio su quello che l’esperienza già le insegna ogni giorno, riuscendo a dare ad essa generalità e coscienza dei propri limiti.
Ai milioni di proletari che di fronte a una realtà materiale che si fa sempre più misera e degradante si rifugiano nei sogni e nella superstizione, dobbiamo mostrare quanta vita, quanto “spirito” ci sia e ci possa essere nella materia. Al materialismo meccanico e individualista che non ha niente da offrir loro dobbiamo contrapporre un materialismo sempre più dialettico.

Questo programma di una scienza per il popolo è un progetto ancora tutto da costruire. Le possibilità del suo affermarsi non dipendono solo dalle dinamiche interne alla comunità scientifica, ma sono legate alle dinamiche più generali della lotta tra le classi. E gli stessi soggetti che in questa lotta premono verso un cambiamento radicale dello status quo hanno bisogno di una scienza adeguata ai propri scopi, perché chi vuole cambiare il mondo deve sapere cosa sta facendo.
Nessuno ci assicura della riuscita di questo progetto, e i tanti errori e le tante tragedie che sono parte della storia del comunismo solo lì a ricordarcelo. E molti nostri errori sono e saranno inevitabili, perché il nuovo non possiamo che costruirlo con il materiale vecchio, da cui solo può sorgere. Perché, da materialisti, non possiamo che “costruire il futuro a partire dagli atteggiamenti, dalle convinzioni e dalle ambizioni del presente e del passato”. Tenere sempre a mente queste parole di Rosa Luxemburg è stato uno degli ingredienti che hanno permesso a Levins di rimanere saldo nella sua fede politica nonostante tutte le frustrazioni e le disillusioni che la militanza inevitabilmente porta con sé. La coscienza che la lotta sia permanente e sempre imperfetta è quello che ha incoraggiato Dick – così lo chiamavano i suoi amici e compagni – a “cercare sempre nuove strade per essere un buon comunista”. Ora che lui non c’è più questo compito spetta a noi che viviamo in questi tempi disarmanti e quasi di disperazione nella sinistra, dove la necessità di rimpiazzare il capitalismo con una società più umana e cooperativa si fa ancora più urgente, ma la strada sembra meno chiara e la vittoria ancor più lontana.

In questa difficile impresa abbiamo dalla nostra parte la sua inesauribile eredità scientifica, il suo esempio umano, i tanti progetti ancora in corso che ha avviato e ispirato. A noi fare il meglio di tutto questo: non abbiamo niente da perdere e un mondo ricco, complesso e pieno di cose interessanti da conquistare.

 

da clashcityworkers

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