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Samir Amin: eurocentrismo, malattia congenita del capitalismo

Nel 1988 usciva Eurocentrismo, di Samir Amin. La casa editrice La città del sole ha reso disponibile in italiano la seconda edizione dell’opera – Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di Giorgio Riolo, traduzione di Nunzia Augeri, Napoli/Potenza, 2022) – uscita in francese nel 2008 con una Prefazione e un capitolo conclusivo che aggiornano la versione originale.

 di Monica Quirico (*), da La Bottega del Barbieri

Trentacinque anni fa (1988) usciva Eurocentrismo di Samir Amin (1931-2018) che, sfidando la rappresentazione dominante della storia e della cultura occidentali (introiettata anche da una parte del marxismo), contribuiva a innovare radicalmente le categorie interpretative del capitalismo. In un’epoca contrassegnata da movimenti e partiti identitari (in Occidente come altrove), bene ha fatto la casa editrice La città del sole a rendere disponibile in italiano la seconda edizione dell’opera (Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di Giorgio Riolo, traduzione di Nunzia Augeri, Napoli/Potenza, 2022), uscita in francese nel 2008 con una Prefazione e un Capitolo conclusivo che aggiornano la versione originale. Tra la prima e la seconda edizione la storia è sembrata prima “finire”, con il crollo del socialismo reale, e poi regredire verso la barbarie generalizzata, con l’attentato alle torri gemelle preso a pretesto dagli USA per imporre il loro controllo militare sull’intero pianeta; un’involuzione che per Amin non è affatto una sorpresa: “l’ideologia borghese, che in origine avanzava ambizioni universalistiche, vi ha rinunciato per sostituirvi il discorso postmodernista delle ‘specificità culturali’ irriducibili (e, in forma volgare, lo scontro inevitabile delle culture)” (p. 32).

Nella sua Introduzione, Riolo ripercorre la vita di Amin dalla nascita in Egitto agli studi in Francia, suo paese di adozione. Il giovane ricercatore, che a Parigi si iscrive al PCF, si trova a lavorare alla sua tesi di dottorato in una fase in cui la Conferenza di Bandung (1955) e successivamente la Conferenza di Belgrado (1961) pongono all’ordine del giorno il processo di decolonizzazione e insieme l’emergere del movimento dei paesi non-allineati. Diventa così urgente un confronto sulle cause dell’”arretratezza” (nella terminologia occidentale) del Sud del mondo. Amin figura, insieme con Giovanni Arrighi, Andre Gunter Frank e Immanuel Wallerstein, tra i fondatori della scuola che guarda al capitalismo come sistema globale, il cui centro (l’Occidente) prospera impedendo lo sviluppo dei paesi periferici, per poter estrarre valore dalla loro forza-lavoro e depredarne le risorse naturali. Tuttavia, rispetto agli altri capostipiti di questo filone di studi Amin è quello che più si mantiene ancorato agli strumenti concettuali coniati da Marx (in particolare, quelli di modo di produzione e formazione sociale), pur ricollocandoli in una dimensione globale. Inoltre, diversamente da Wallerstein rifiuta di considerare la periferia del mondo come una mera variabile dipendente del centro: il capitalismo ingloba infatti formazioni sociali che, pur soggette alle leggi del mercato mondiale, vedono la sopravvivenza di modi di produzione precapitalistici.

In opere come L’accumulazione su scala mondiale. Critica del sottosviluppo (1970) e Lo sviluppo ineguale (1973), l’economista franco-egiziano sviluppa la tesi che il divario tra l’Occidente e i paesi periferici non sia affatto imputabile a un ritardo di questi ultimi, bensì costituisca la condizione necessaria dell’esistenza stessa dell’ordine fondato sul mercato. Proporre di colmare lo squilibrio con l’adozione, nel Sud del mondo, di politiche modellate sul percorso dei paesi occidentali è dunque mistificatorio. L’approccio di Amin, che nei primi anni Settanta fece scalpore, oggi potrebbe suonare scontato, essendo stato acquisito da un ampio spettro di studi (sociologici, femministi, economici). Lo è davvero? Le politiche finanziarie degli organismi transnazionali e perfino gli aiuti umanitari rimangono modellati (in termini economico-sociali, culturali e “morali”) sui punti più alti, in termini di profitto, del sistema capitalista. I risultati ben li conosciamo.

Nel Capitolo I di Eurocentrismo, dedicato a Modernità e interpretazioni religiose, Amin discute il concetto di modernità così come emerso dall’Illuminismo, che, a differenza delle culture precedenti, riconosce all’uomo la capacità di fare la propria storia; tale libertà tuttavia è viziata dalla subordinazione alle esigenze del capitalismo. La “ragione emancipatrice” è infatti una ragione borghese, con precise determinazioni temporali e geografiche; essa identifica la libertà con il mercato e, sul piano politico, con la democrazia, che – a dispetto della retorica trionfalistica – è sic et simpliciter un sistema in cui lo Stato ha una funzione ancillare rispetto agli imperativi dell’economia. Nella deriva rappresentata dall’”ideologia libertaria di destra” (Hayek) scompare ogni finzione: gli esseri umani rimangono artefici della propria storia, ma il teatro in cui si muovono è una giungla. È l’epoca dell’americanizzazione del mondo. Si impone una ragione degenerata e distruttiva, che non solo rinuncia a ogni parvenza di emancipazione, ma assume la funzione – scrive Amin con formula incisiva – di “impresa di demolizione dell’umanità” (p. 43) e del pianeta tutto.

Il marxismo è lo strumento per comprendere il mondo e trasformarlo, a patto – sul punto l’autore insiste – di partire da Marx, anziché riproporne meccanicamente le analisi. Da Marx nondimeno Amin riprende la centralità del binomio struttura-sovrastruttura, depurandolo dalle tentazioni deterministiche che ne hanno segnato l’utilizzo e facendone la bussola dello studio non del mero modo di produzione, ma delle formazioni sociali nella loro totalità, risultato del rapporto dinamico tra l’istanza economica, quella politica e quella culturale-religiosa. Forte di una robusta conoscenza della storia delle religioni e della filosofia (e naturalmente di storia africana), Amin indaga il ruolo che le diverse religioni e culture hanno svolto in relazione allo sviluppo del capitalismo. Un’operazione decisamente sui generis, nella storia del marxismo, che porta l’autore a smontare il mito del cristianesimo in generale o di una sua specifica declinazione (la Riforma protestante) come fucina della modernità capitalistica, in virtù di peculiarità – assenti in altre religioni – che avrebbero partorito il “miracolo europeo”. È vero semmai il contrario, osserva l’autore: le religioni, tutte, si sono conformate alle esigenze del modo di produzione capitalistico, ma lo hanno fatto in modo diverso, come Amin illustra nella ricostruzione del rapporto fra le tre religioni monoteiste e il contesto politico-economico dell’epoca.

Perché l’Europa ha rotto con il modo di produzione tributario e il mondo musulmano no? A questa domanda, gli occidentali rispondono puntando il dito contro le specificità della : un tema agitato anche da quello che Amin chiama islam politico, espressione che raggruppa tanto i moderati quanto i fondamentalisti; tra i due gruppi l’autore non scorge distinzioni sostanziali, imputando a entrambi una forma di “eurocentrismo rovesciato”. Il motivo per cui la modernità (capitalistica) non si è realizzata nei paesi musulmani, come nelle altre aree del sud del mondo, è che il capitalismo esige l’esistenza di un centro e di periferie subordinate. Manovrati da borghesie nazionali complici, e succubi, delle classi dominanti europee e nordamericane, i fondamentalisti (inclusa la Repubblica islamica dell’Iran) addebitano il degrado dei loro paesi all’Occidente, senza mettere mai in discussione la vera causa della loro subalternità, il capitalismo.

Quanto al cristianesimo, esso non ha creato la società borghese; piuttosto, si è rivelato più adattabile, in virtù di due assenze, rispetto alle altre due religioni: la rinuncia a costruire il regno di Dio sulla terra e la mancanza di una traduzione giuridica dei principi del Vangelo.

In breve, “i due discorsi del capitalismo mondializzato e dell’islam politico non sono in conflitto, ma perfettamente complementari” (p. 95). Entrambi neutralizzano le contraddizioni di classe spostando il piano dello scontro sull’incompatibilità di presunte “identità” collettive. L’élite occidentale e in particolare quella statunitense hanno quindi tutto l’interesse a fomentare il fondamentalismo islamico (come si è ben visto in Afghanistan): esso non solo garantisce che i popoli periferici rimangano subalterni al capitalismo mondiale, ma può sempre essere addotto come pretesto per legittimare interventi militari all’estero e pugno di ferro contro i musulmani in casa.

Nel Capitolo II, Per una teoria della cultura. Critica dell’eurocentrismo, l’autore presenta la sua innovativa lettura della storia globale. Occorre ripercorrere la storia, anzi, le storie, delle diverse aree geografiche per capire con quali tempi, modalità e peculiarità vi si sia affermato il capitalismo, anziché liquidare la questione con il presunto primato culturale dell’Occidente, che ne spiegherebbe lo sviluppo precoce. Amin prende di mira le due declinazioni della storiografia eurocentrica, che, nel loro apparente antagonismo, condividono un approccio teleologico, sia pure con approdi diversi. La prima è quella liberale, che istituisce una continuità fra l’età classica (il mondo greco-romano, arbitrariamente identificato con l’Occidente e contrapposto all’Oriente), l’età feudale (cristiana) e l’avvento del capitalismo. La seconda è quella di matrice marxista, nota come teoria degli stadi, presente negli scritti giovanili di Marx ed Engels (successivamente attenti ad analisi storiche più articolate) e poi canonizzata dai partiti comunisti e da teorici marxisti non solo ortodossi. Benché Amin non sia certo l’unico a prendere le distanze dall’idea che la storia dell’umanità parta da forme di comunismo primitivo, per passare poi attraverso lo schiavismo e il feudalesimo e infine approdare al capitalismo, la ricostruzione alternativa della storia globale che offre in Eurocentrismo racchiude una sfida non solo al dogmatismo della vulgata marxista, ma alla storiografia tout-court.

Se già la nozione di comunismo primitivo scompare per lasciare il posto a quella di comunitarismo (una rete di piccole comunità cementate dalla parentela), l’operazione più dirompente è la marginalizzazione geografica e cronologica del feudalesimo, inserito nel più ampio modo di produzione tributario, i cui elementi caratterizzanti sono una struttura politica centralizzata che estrae surplus economico da un’area agraria e il ruolo ideologico legittimante delle grandi religioni. Nella categoria coniata da Amin sono ricompresi tanto il marxiano modo di produzione asiatico (Egitto, India, Cina), che ne costituisce il nucleo centrale, quanto il feudalesimo europeo, che del modo di produzione tributario appare come un capitolo tutto sommato marginale rispetto alla longevità dei sistemi tributari africani e asiatici. Se Marx si è limitato ad abbozzare il modo di produzione asiatico, in Eurocentrismo esso è alla base, come cuore del sistema tributario, della rottura operata con la periodizzazione tradizionale: la cesura fra antichità e medioevo (collocata dalla storiografia eurocentrica alla fine dell’impero romano d’occidente) viene retrodatata all’epoca dell’unificazione ellenistica dell’Oriente (300 a.C. circa).

Pur mantenendo la centralità della struttura economica nell’interpretazione dei processi storici e sociali, Amin propone una tipologia dualistica dei modi di produzione che muove da un concetto di totalità a dominante: mentre nei sistemi precapitalistici lo sfruttamento delle classi subalterne è diretto, immediatamente visibile e l’istanza dominante è quella politico-ideologica, nel capitalismo lo sfruttamento è, per così dire, mascherato dal contratto fra datore di lavoro e proletario e dall’impalpabilità del plusvalore. In esso è l’istanza economica a governare direttamente le società, attraverso una mercificazione universale che ingloba perfino la forza-lavoro.

Dopo aver analizzato l’evoluzione di cultura e religione (strettamente intrecciate) nelle società tributarie delle diverse aree del mondo, nel Capitolo III, La cultura del capitalismo, Amin ripercorre l’unificazione forzata del globo a opera del capitalismo, cui corrisponde una Weltanschauung (la Ragione) solo formalmente universalistica. La globalizzazione infatti non implica affatto l’omogeneizzazione: un mondo in cui nove miliardi di persone godano del tenore di vita degli occidentali è semplicemente inconcepibile; il sistema pretende anzi la polarizzazione fra centro e periferia e l’eliminazione (manu militari o tramite ricatti del Fondo Monetario Internazionale) di quei paesi che resistono alla (finta) globalizzazione. “L’ideologia dominante legittima così sia il capitalismo come sistema sociale sia la diseguaglianza su scala mondiale che lo accompagna. […] Il mito filocristiano, quello dell’antenato greco, la costruzione antitetica e artificiale dell’orientalismo connotano il nuovo culturalismo europeo ed eurocentrico, condannandolo irrimediabilmente ad accettarne l’anima dannata: il razzismo ineliminabile” (p. 165, corsivo mio). Amin si spinge oltre: il nazismo, lungi dal rappresentare un’aberrazione della storia, è una possibilità sempre attuale. Al fallimento di un’autentica globalizzazione, che per sua stessa natura il capitalismo non può realizzare, pena il suo tracollo, gli esseri umani reagiscono con salti nel vuoto identitari, in conflitto fra loro, mentre la natura viene irrimediabilmente distrutta.

Quale contributo possono offrire Marx ed Engels a un’analisi del capitalismo realmente esistente, ossia globale ma polarizzato? In questo capitolo il giudizio di Amin è più severo di quello espresso nel Capitolo I, in cui a Marx viene riconosciuto di aver colto in alcuni scritti come la polarizzazione tra centro e periferia sia intrinseca al capitalismo, dunque non superabile. Qui prevale invece l’opinione che Marx non si sia affrancato dall’ottimismo evoluzionistico di matrice illuministica della sua epoca, il che spiega la sua fiducia nella tendenza all’omogeneizzazione (cioè europeizzazione) del mondo, con i paesi “arretrati” che recuperano il loro ritardo, lungo una traiettoria lineare. Sarà questa l’interpretazione prevalente nella II Internazionale. Per andare oltre Marx Amin propone di convertire la sua legge del valore (ritagliata sul punto più alto del sistema capitalista, quello occidentale) nella “legge del valore mondializzata”, che darebbe conto di una doppia polarizzazione: quella fra centro e periferie e quella all’interno delle periferie; mentre nei paesi centrali il consenso alla democrazia borghese è “comprato” con un aumento costante dei salari, nelle periferie solo le borghesie vassalle del centro vedono aumentare il proprio tenore di vita, ricorrendo a regimi autocratici per soffocare il malcontento della popolazione.

Che fare? Il capitalismo non è il destino dell’umanità, bensì una parentesi. Da esso ci si può affrancare soltanto con un’operazione che l’autore felicemente definisce come “sganciamento” dal centro del sistema dei popoli delle periferie mondiali. La proposta di Amin è lo sbocco naturale di una teoria imperniata sui concetti di sviluppo ineguale e di imperialismo (mutuato da Lenin). Le rivoluzioni nazionali delle periferie, con la formazione di Stati realmente autonomi, è solo il primo passo di una transizione dal capitalismo globale a un socialismo inevitabilmente altrettanto mondiale (è evidente qui la presa di distanza dallo stalinismo, del resto costantemente criticato nella produzione di Amin, e dall’operaismo tout court); una transizione che sarà inevitabilmente lunga e non programmabile ex-ante. D’altra parte, l’alternativa è la “barbarie capitalistica eurocentrica” (p. 215).

Amin non è stato solo un teorico; ha partecipato attivamente, come racconta Riolo, alla fondazione e alle attività del Forum mondiale per le alternative, dove ha sollevato con forza i problemi posti dallo sviluppo ineguale, a partire dalla questione contadina, inseparabile da quella ambientale; ha altresì combattuto il fuoco amico, l’eurocentrismo delle influenti ONG occidentali che al Forum avevano aderito: una deriva che lo condotto a invocare il lancio di una V Internazionale. È con quell’esperienza che si chiude il Capitolo V, Per una visione non eurocentrica della storia, in cui l’autore sintetizza il suo contributo al dibattito globale sul capitalismo, affinando ulteriormente l’analisi storica dei diversi modi di produzione (e del ruolo dello Stato nazionale), rispondendo al contempo alle critiche mossegli da esponenti del marxismo occidentale.

Eurocentrismo è un saggio di non facile lettura sia per lo stile sia per il modo di affrontare i temi, che tornano più volte nei diversi capitoli ma da angolazioni diverse. Chi legge non troverà la genealogia dei concetti che Amin impiega (evidenti, ma non esplicitati, sono i debiti verso Gramsci, Althusser e Poulantzas, tra gli altri): il suo è un testo militante, non di marxologia, cui l’autore indirizza qualche frecciata. Oggi saltano all’occhio alcune lacune del suo approccio. Pur condannando a più riprese la condizione in cui versano le donne nell’islam, l’autore non fa del patriarcato un elemento costitutivo dello sfruttamento capitalistico. Un certo spaesamento (per chi conosce la passione politica di Amin) suscita il tono per certi versi asettico della scrittura: manca la vita quotidiana, la concretezza delle lotte, gli esseri umani sembrano agiti da forze economico-sociali trascendenti. Va poi rimarcato che fenomeni epocali come la finanziarizzazione estrema dell’economia e l’impatto sociale e antropologico di digitalizzazione e automazione sono assenti, nelle parti aggiunte per la seconda edizione (benché Amin sia ben consapevole che finanza e tecnologia sono due degli strumenti di cui il centro si avvale per tenere soggiogate le periferie).

Pur con questi limiti, Eurocentrismo lascia il segno per la capacità dell’autore di cogliere, già nel 1988, fenomeni che si sarebbero dispiegati pienamente solo nei decenni successivi, come la formazione di un mondo multipolare (condizione necessaria, per Amin, di una transizione al socialismo) e la resistenza che a esso avrebbero opposto gli Stati Uniti nonché la drammatica rilevanza della questione contadina, di quella frattura metabolica fra umanità e natura che Marx trattava nel suo opus magnum, Il Capitale come potenzialmente foriera della distruzione della vita sul pianeta. Inoltre, chi ancora riconosce il valore euristico, e politico, del materialismo storico non può non apprezzare una ridefinizione delle categorie marxiane che, depurate dal vizio eurocentrico, diventano pienamente spendibili per studiare il “capitalismo realmente esistente” oggi. La richiesta di Amin di essere sepolto al Père Lachaise di Parigi, accanto a comunardi e combattenti delle Brigate internazionali nella guerra civile spagnola, rappresenta l’ultimo atto del suo imperituro internazionalismo, che sta a noi raccogliere, scrollandoci di dosso quella sinistra che si strappa i capelli per il ritorno del fascismo in Europa dimenticando che per la maggior parte dei popoli del pianeta oppressione, discriminazione e povertà sono da secoli la norma della loro storia.

(*) Questo testo è la versione integrale di un contributo che, in forma abbreviata, apparirà sul numero di gennaio 2024 della rivista “Materialismo Storico”.

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