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Spionaggio e abusi tecnologici: Il caso Paragon e il pericolo della sorveglianza invisibile

Nel cuore di un’Italia già scossa dalle incertezze politiche e sociali, un nuovo scandalo sta scuotendo le fondamenta della nostra privacy e libertà individuale. Si tratta del caso Paragon, un’inquietante vicenda che ha rivelato l’utilizzo di sofisticati strumenti di spionaggio informatico per sorvegliare attivisti, giornalisti e comunissimi cittadini. Una storia che, seppur legata all’uso di tecnologie avanzate, rimanda a questioni ben più profonde: la crescente erosione della privacy, l’uso distorto della tecnologia da parte dei governi e il pericolo di un controllo sociale invisibile e onnipresente.

Paragon Solutions, una compagnia israeliana nota nel settore della sorveglianza tecnologica, è al centro di un’indagine che ha portato alla luce l’impiego del suo sistema spyware Graphite in Italia. Questo software, in grado di accedere in modo “invisibile” ai dispositivi mobili, è stato utilizzato per spiare un numero non precisato di soggetti in diversi Paesi, tra cui per quanto riguarda l’Italia, il direttore del giornale Fanpage Francesco Cancellato e l’attivista Luca Casarini, noto per il suo impegno nel movimento Mediterranea. Quello che sembra stia emergendo da questa indagine e’ un panorama di sorveglianza globale che risulta difficile da ignorare.

Graphite, come altri strumenti simili, funziona sfruttando vulnerabilità del software, note come zero-day, che restano sconosciute agli sviluppatori di quel software fino a quando non vengono sfruttate da chi le scova. Queste falle di sicurezza permettono a chi le utilizza di infettare i dispositivi senza che l’utente abbia alcuna possibilità di difesa. L’attacco avviene in modalità zero-click, senza che la vittima debba cliccare su un link o aprire un file, nel caso di Graphite, basta rispondere ad una telefonata o visualizzare un messaggio tramite whatsapp per essere infettati.

La connivenza dei governi e la violazione della privacy

La questione diventa ancora più allarmante quando si scopre che Paragon, come altre aziende di sorveglianza, lavora esclusivamente con i governi e le agenzie di intelligence. Si giustifica l’utilizzo di tali tecnologie in nome della sicurezza nazionale, come se la violazione della privacy fosse il prezzo da pagare per la protezione da minacce come il terrorismo. Ma dietro questa giustificazione si nasconde una realtà più inquietante: l’uso distorto di strumenti di sorveglianza per monitorare giornalisti, attivisti e membri della società civile, di fatto colpendo chi si oppone al sistema o denuncia abusi di potere.

Nel caso italiano, infatti, è emerso che il governo non aveva formalmente autorizzato l’uso di Graphite, ma non è riuscito a spiegare in maniera convincente chi e per quali motivi aveva dato l’ordine di spiare le persone coinvolte. Le prime reazioni ufficiali sono state vaghe, con il governo italiano che ha minimizzato l’accaduto, troppo abituato a tacere su abusi simili, da parte delle forze dell’ordine o di altre istituzioni. È proprio questa ambiguità e mancanza di trasparenza che alimentano i sospetti su un possibile utilizzo illegittimo di strumenti tecnologici per fini politici.

Il controllo invisibile: una nuova forma di oppressione

Il caso Paragon non è un episodio isolato. Si inserisce in un contesto globale dove la sorveglianza di massa e l’infiltrazione nelle vite private di ogni singolo individuo sono diventati strumenti di controllo pervasivo. Il confine tra sicurezza e libertà è diventato sempre più labile, con il rischio che la privacy, diritto fondamentale di ogni persona, venga sacrificata sull’altare della “protezione”. Si tratta di una minaccia che colpisce non solo chi è sotto osservazione diretta, ma l’intera società.

Lo sviluppo di tecnologie come Graphite e la loro diffusione tra i governi solleva interrogativi fondamentali sulla direzione che sta prendendo il nostro sistema politico e sociale. Le persone spiabili non sono più solo i sospetti criminali o i terroristi, ma attivisti politici, giornalisti, avvocati, ecologisti, migranti, sindacalisti, chiunque non si allinei perfettamente alla visione di un ordine mondiale sempre più autoritario.

Questa vicenda ci ricorda che l’uso indiscriminato delle tecnologie può minare le basi stesse della liberta’ di dissenso.
Quando le persone perdono il controllo sui propri dati, la capacità di esprimere liberamente le proprie opinioni e di fare attivismo si riduce drasticamente. Non siamo più in grado di proteggere le nostre comunicazioni da occhi indiscreti, e le nostre conversazioni più intime possono diventare materia di spionaggio.

Il caso Paragon ci invita a riflettere sull’importanza della privacy e della libertà di espressione, che non possono essere sacrificate per una sicurezza che troppo spesso sfocia nell’oppressione. È necessario un impegno collettivo per fermare il crescente controllo delle nostre vite da parte dei governi. Non possiamo permettere che la nostra libertà venga monitorata sotto il silenzio complice di chi dovrebbe proteggerla – che fine ha fatto il garante della privacy in questi giorni? forse era troppo concentrato sulle violazioni della privacy di DeepSeek per occuparsi di quelle del nostro governo – . La lotta per la privacy e per una società libera è, oggi più che mai, una lotta contro la sorveglianza tecnologica.

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