15 ottobre e repressione. Una riflessione
Per continuare il dibattito sulla sentenza relativa al 15 ottobre riproduciamo questo contributo pubblicato oggi dai/le compagn* di Militant.
Ritorniamo, con un ragionamento più strutturato, sulle sei condanne di qualche giorno fa per il 15 ottobre, allargando il discorso in generale alle forme repressive che hanno preso corpo per quella giornata. Queste sei condanne non sono le prime: già nove persone, infatti, sono state condannate – tutte con rito abbreviato – a pene che vanno dai 2 ai 5 anni per il reato di resistenza – aggravata o pluriaggravata – a pubblico ufficiale. Le ultime sei condanne – tutte a sei anni, senza distinguere le condotte dei singoli imputati –, invece, sono state per il reato di «devastazione e saccheggio»: e non faremo finta di sorprenderci che i compagni siano ancora condannati con reati previsti dal codice fascista o che non sia stato tenuto conto della gestione della piazza (una piazza autorizzata) messa in pratica delle forze dell’ordine.
La macchina repressiva dello Stato, dunque, continua a fare alacremente il suo lavoro, sostenuta da una parte dell’opinione pubblica che, all’indomani del 15 ottobre, partecipò alla campagna delatoria messa in piedi da «Repubblica» e da altri quotidiani e contribuì a rafforzare e a legittimare la retorica dei «buoni» contro i «cattivi», dei «black bloc» violenti infiltratisi per rovinare il corteo ai manifestanti pacifici. In prima linea, questi ultimi, nella collaborazione con la polizia per identificare e consegnare quanti gli sembravano vestiti un po’ troppo di nero…
Si tratta, però, di una retorica poco aderente alla realtà. Il 15 ottobre la radicalità della piazza ha scavalcato le strutture che avevano contribuito a costruire quella giornata e le assemblee e i passaggi politici che l’avevano preparata. Abbiamo scritto, fin dalle ore immediatamente successive, che a piazza San Giovanni aveva preso parola – in modo indubbiamene rabbioso e, in alcuni aspetti, pre-politico – una parte del “nuovo proletariato” emerso dalle trasformazioni del mondo del lavoro degli ultimi trent’anni (vedi). Si trattava di una massa di persone in gran parte priva di riferimenti politici – teorici e organizzativi – precisi, che ha scavalcato gruppi, strutture, movimenti, sindacati e partiti: una parte consistente del nuovo proletariato metropolitano che si è resa disponibile alla lotta e al conflitto radicale e senza mediazioni. E il movimento, inadeguato nel canalizzare questa rabbia e questa determinazione, si è mostrato tanto più inadeguato nel gestire la repressione di quelle giornate, che ha colpito già alcune decine di persone.
Davanti a condanne enormi – e lo diciamo senza sorpresa: al di là di ogni provocazione ironica, infatti, sappiamo lo Stato non processa se stesso e, dunque, poco ci stupisce che le condanne per l’uccisione di Federico Aldrovandi siano inferiori a quelle per l’incendio di un blindato – possiamo dire quasi spropositate anche per un regime liberal-democratico, la presa di parola dei compagni e dei movimenti appare insufficiente.
Non lanciamo comodi anatemi: noi per primi facciamo autocritica e avvertiamo la nostra insufficienza e inconsistenza. Eccetto poche eccezioni – a cui rendiamo merito, se ha senso rendere merito per qualcosa che dovrebbe essere patrimonio condiviso per i compagni –, come ad esempio la Rete Evasioni, eccetto alcuni compagni che si sono impegnati con presidi, comunicati, raccolte di fondi per i denunciati del 15 ottobre, ci sembra che questi processi siano molto poco sentiti dalla maggior parte del movimento. Forse molti compagni non hanno ancora una lettura adeguata della repressione, abituati a pensare che le sue forme più dure riguardino solo alcune aree. Del resto, la repressione di quella giornata ha mirato finora a punire con condanne esemplari persone e compagni non strutturati o appartenenti a realtà piccole o periferiche: lo scopo era evidentemente quello di frazionare la solidarietà e, in parte, è stato raggiunto.
Il silenzio dei compagni sembra andare nella direzione che le istituzioni si pongono, quella di considerare la repressione come un «giusto monito» – come ha detto Alemanno a commento delle pene inflitte ai 5 compagni di Teramo – diretto a chi intende ribellarsi. Quanti compagni e quante compagne, infatti, continueranno ad assumersi la responsabilità di compiere azioni che potrebbero comportare gravi condanne se sapranno di non avere dietro un movimento solidale, complice e partecipe?
Il nuovo proletariato metropolitano, composto in gran parte di giovanissimi, che ha preso parola il 15 ottobre, è un soggetto non destinato a sparire e che, anzi, sarà probabilmente sempre più presente sulla scena pubblica di tutto il mondo: le città – soprattutto quelle grandi – sono infatti destinate a diventare sempre più lo scenario privilegiato dei sommovimenti e degli scontri sociali. Si calcola, infatti, che entro il 2020 il 70% della popolazione mondiale vivrà in una città: la repressione, come messo in luce in un bell’articolo di Elisabetta Teghil di questi giorni, si rivolge e si rivolgerà sempre più spesso proprio al contesto urbano. E, in questo ambito, sempre più frequentemente si assisterà al protagonismo rabbioso di questa nuova massa di proletari metropolitani insoddisfatti e frustrati per la precarietà delle loro esistenze, acutizzata nei momenti di endemica crisi economica del sistema capitalista: reprimere queste prese di parola con condanne durissime significa spaventare anche quanti agiscono spinti più dalla rabbia che dall’analisi politica. Essi mettono in gioco loro stessi ma se, poi, tornano a casa non solo senza aver migliorato la loro condizione esistenziale – fatto del resto prevedibile – e con qualche livido in più ma anche con la consapevolezza che i fermati e gli identificati saranno condannati a pene durissime nel silenzio e nella solitudine pressoché totali, probabilmente non torneranno in piazza all’appuntamento successivo. Penseranno che non ne vale la pena.
Ed ecco che così la repressione raggiunge il suo scopo principale: non tanto quello di punire chi ha commesso azioni ritenute illegali, quanto quello di incutere timore, evitare che il fronte si estenda e la lotta si generalizzi, costruendo percorsi che possano davvero mettere in discussione questo sistema economico e sociale. “Normalizzazione” economica e repressione politica e sociale vanno a braccetto: in tempi di governo tecnico, nessuna forma di dissenso può essere tollerata e, quindi, ciascuna di esse viene perseguitata e pesantemente punita.
Il silenzio che circonda queste condanne, del resto, non è che l’ovvio riflesso delle difficoltà di gestione di quella giornata: il fatto che non sia stata assunta dal movimento nella sua interezza, infatti, ha fatto avvertire fin dalle prime ore che la repressione sarebbe stata facile e non avrebbe trovato alcuna risposta da parte dei compagni. I denunciati si sono trovati – eccetto le eccezioni di cui sopra – a dover gestire i processi quasi da soli, come se fossero questioni private e senza far emergere, quindi, che si tratta di processi politici, che riguardano tutti e tutte. Del resto, quella della riduzione dei processi e delle pene alla sfera privata sembra essere una delle nuove tendenze delle politiche repressive, su cui probabilmente dovremmo riflettere: sia sufficiente pensare che negli ultimi mesi, in tutta Italia, sono state notificate a compagni e compagne numerose multe – anche del valore di diverse migliaia di euro – per blocchi stradali e manifestazioni non autorizzate. Si tratta di procedimenti amministrativi, accertati dalla Polizia stradale, che riguardano personalmente i compagni che le ricevano e che frazionano la solidarietà: far diventare una multa una questione politica diventa molto difficile.
Ovvio riflesso di questa solitudine, è stata anche la scelta di tutti i condannati finora di scegliere il rito abbreviato: una scelta che non critichiamo sotto il profilo personale, ma che avvertiamo come perdente non solo dal punto di vista politico ma anche da quello più strettamente processuale. Le pene sono state, finora, infatti pesantissime. Non ci dilunghiamo si questo: siamo infatti d’accordo con l’articolo uscito ieri su infoaut. Pensiamo, però, che una più adeguata assunzione di responsabilità collettiva e una più capillare campagna contro la repressione aiuterebbe a far diventare patrimonio condiviso tra i compagni che non ci si può fidare della giustizia e dei suoi sconti né si può pensare che la propria innocenza possa aiutare in un processo con un valore politico.
Ed è anche per questo che, invece, pensiamo che sia necessaria un’assunzione di responsabilità collettiva e compatta da parte dei compagni per giornate come il 15 ottobre: un fronte unito contro la repressione che significhi non solo solidarietà attiva verso i compagni denunciati ma anche continuazione delle lotte e dello scontro sociale.
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