_a cura di Infoaut torino_
Fascisti camuffati, piccolo-borghesi incattiviti, qualunquisti con l’acqua alla gola, eversivi prezzolati, evasori traditi, passioni tristi ed egoismi di corto respiro… La “sinistra” ha mostrato di avere la propria bella lettura preconfezionata e lineare di un fenomeno che a noi è invece apparso ben più corposo e articolato.
Il grande malinteso su cui si è imbastito in Rete un dibattito zeppo di preconcetti è consistito nel voler forzatamente vedere una piazza omogenea nelle presenze e nelle forme che ha assunto, laddove pullulavano invece grumi di aggregazione che procedevano per appartenenze professionali, affinità amicali e vissuti di quartiere. L’errore più grande è stato quello di voler schiacciare un’eterogeneità di soggetti sulla dimensione organizzativa originaria del “coordinamento 9 dicembre”. Si è voluto vedere un soggetto politico definito laddove c’era invece un’insorgenza sociale ancorché non di massa o con le medesime caratteristiche a scala nazionale.
Un secondo errore è consistito nell’ostinato rifiuto di andare a vedere di persona, accontentandosi perlopiù delle rappresentazioni fornite dal media mainstream. Qui a Torino, l’atteggiamento di tanti uomini e donne di sinistra si è limitato alla formulazione di un giudizio secco e inappellabile, non suffragato spesso da nessuna testimonianza diretta. Chi è andato a gettare un’occhiata e a scambiare quattro chiacchiere, ha tendenzialmente visto e sentito qualcosa di diverso, o perlomeno di più contraddittorio. Per molti/e è bastato invece lo sventolio di qualche bandiera tricolore per tenersi igienicamente alla larga: “li ho visti da lontano e non mi sono piaciuti”.
Primo appunto sulle critiche mosseci: in pochi hanno osservato la precauzione che avevamo avanzato nei giorni precedenti le mobilitazioni, quando precisammo che le nostre osservazioni si riferivano allo specifico torinese (non è allora un caso se qui la quasi totalità delle forze antagoniste e autorganizzate abbiano espresso, nella varietà di sfumature e gradi, una lettura sostanzialmente convergente del fenomeno, senza mancare di coglierne le ambiguità di fondo). A saperla guardare, Torino ha mostrato in quei giorni le proprie viscere, quelle di una città che non è più quella dell’operaio-massa della Fiat ma che nemmeno può riassumersi nella proiezione luminosa della Smart City, soprattutto dopo che l’indebitamento olimpico e in derivati ereditato dall’amministrazione Chiamparino ha lasciato dietro di sé un cumulo di macerie.
E però, se qui ci soffermeremo soprattutto a ripercorrere le giornate torinesi, non crediamo ci si possa accontentare di una lettura calibrata su una riduttiva scala locale, parlando magari di “anomalia torinese”. Non solo perché frammenti di quel che abbiamo visto qui, li abbiamo ritrovati anche in alcune cronache e riflessioni di alcuni compagn* di Rho (9/10/11 Dicembre: contraddizioni e composizione viste da dentro), nel reportage di un compagno ligure (#9dicembre, blocco totale di Imperia) ma anche in un articolo per Il Manifesto di Luca Fazio su Milano (il Cortocircuito di Piazzale Loreto). Una studentessa fuori sede di Monfalcone (provincia di Trieste) riportava che ai blocchi avrebbero partecipato numerosi operai rimasti disoccupati e non pochi immigrati. Descrizioni che collimano in parte con quanto scritto da altri compagn* di Bergamo (Due settimane tra i “forconi”. Uno sguardo “a freddo”). Si dovrebbe allora avanzare un’ipotesi interpretativa valida almeno per il nord-ovest, dove la crisi sta pesando più che altrove, nel venir meno della città-fabbrica e del suo sistema di governo/amministrazione del territorio.
Ma c’è qualcosa di più profondo. Sul Sole24Ore, Aldo Bonomi ha parlato di “uno strano conflitto. Senza luoghi idealtipici, la fabbrica, il quartiere, senza un mestiere, una professione, una classe egemone. Senza rappresentanze codificate e riconosciute. Molecolare, diffuso […] ad alta intensità interrogante per la crisi della politica e della rappresentanza. Sono i forconi. Io li definisco il popolo dei “non più”. Che non ce la fa più”[1]. E una trentina di anni fa, un insospettabile come André Gorz (in un libro[2] che nonostante il titolo era, a ben vedere, una dichiarazione d’amore per la classe operaia) parlava delle insorgenze a venire come opera della “non-classe dei non-lavoratori”. Non pretendiamo di far aderire il pulviscolo del 9 dicembre a questa raffigurazione ma certo di non-lavoro, come altra faccia della “crisi” del lavoro salariato, e “superfluità umana” (per il Capitale) in queste proteste – soprattutto a Torino – ce n’è stata tanta.
La tesi di fondo che qui avanziamo è che sul condensato organizzativo originario del 9D si sia innestata questa dimensione metropolitana profonda che ha sopravanzato le istanze, i contenuti e le forme di protesta elaborate in partenza (il “codice di comportamento”), mettendo in campo altre aspettative (grazie anche al circolarità tra social network e passa parola di quartiere), differenti modalità di partecipazione e una radicalità imprevista. Dopo anni di inutili scioperi generali – anche degli stessi sindacati di base, incapaci di concepire altre forme che non siano quelle della sfilata inconcludente o del presidio lamentoso sotto il Comune – abbiamo assistito a un blocco effettivo della città e a un’inedita capacità di far paura a chi la governa. Lo “sciopero”, per quanto anomalo e agito da soggetti non conformi alla rappresentazione classica della classe lavoratrice, ha prodotto una massiccia astensione dal lavoro del corpo sociale di riferimento, attuando al contempo un blocco dei flussi di trasporto umano e di circolazione delle merci, e uno scontro di piazza sotto le sedi istituzionali. Si sono quindi agiti tre differenti livelli di quello che potrebbe domani configurarsi come sciopero metropolitano. Al tempo stesso, sono emersi contenuti politici ineludibili anche per una risposta antagonista alla crisi.
L’incapacità della sinistra di cogliere il contenuto duro di questa inedita forma di lotta di classe – significative differenze di reddito e collocazione produttiva convivono dentro una sostanziale omogeneità culturale dettata dai mondi delle periferie – ha legittimato una lettura confortante e ipostatizzata. Con molto snobismo si è arrivati a stigmatizzare tutti i soggetti presenti nelle iniziative di protesta, liquidandoli con una lettura pregiudiziale. Si è così potuto assistere all’agire conservativo di una sinistra che, di fronte all’irruenza di tanti working poors, ha preferito difendere le istituzioni e gli assetti di potere esistenti o le vecchie lenti, rischiando di regalare alla destra la rappresentanza degli interessi di chi sta pagando la crisi. Significativo, a questo proposito, quanto osservato da un compagno che ha incrociato uno dei tanti cortei che hanno attraversato il centro cittadino tra lunedì e mercoledì:
«Un corteo numeroso di giovani della periferia con una striscione tricolore. Da alcune finestre di via Po un paio di abitanti hanno cominciato a lanciare bottiglie o secchiate d’acqua gridando “fascisti!” (Le parole sono un po’ nascoste dal trambusto). Dal corteo sono partiti insulti: “stronzo”, “pezzo di merda; qualcuno è andato a suonare insistentemente il citofono del palazzo. Una ragazza che avevo conosciuto la mattina (ex-lavoratrice di Eataly) mi dice “Sai perché ci tirano le cose? Perché quelli sono ricchi, non stanno male come noi. E hanno paura che se facciamo cadere il governo anche loro vadano dal culo. Perché il governo aiuta solo i ricchi». (J.)
Comunque, tra le tante critiche che hanno fatto seguito ai nostri contributi “a caldo” (tralasciamo le strumentalizzazioni volute e i rancori mal sopiti) alcune obiezioni ci sono sembrate degne di nota:
1- Va bene la curiosità ma in fondo c’è poco d’interessante da scorgere, dal momento che mancano “i nostri” soggetti di riferimento (identificati nel solo lavoro salariato dipendente).
2- Non ci si può accontentare di sguazzare in un sociale “neutro” e non veder che c’è dietro un disegno politico chiaro e individuabile.
Da queste consegue l’osservazione critica principale:
3- Quel che sta avvenendo è un primo consolidarsi di un blocco sociale di destra incardinato su rivolta anti-tasse, nazionalismo, anti-europeismo.
Questo contributo – scritto per necessità di approfondimento collettivo oltreché restituzione pubblica di un dibattito interno – crediamo possa servire a dipanare alcune delle questioni sopra riportate. Per chi non si accontenta e ha voglia di capire, accettando e concedendoci(si) almeno il beneficio del dubbio, offriamo queste pagine, senza la pretesa di dire l’ultima parola su un fenomeno tanto spurio e contraddittorio, ma ostinati nel sottolineare i nodi di fondo che questa sollevazione “anomala” ha messo sul tavolo. Esse sono il frutto di un confronto collettivo, un piccolo tentativo di inchiesta dentro un corpo sociale che per qualche giorno ha turbato il normale funzionamento della nostra città.
Essendo anche un collage di interviste e impressioni a caldo il testo avrà un carattere difforme ed eterogeneo. Soprattutto nella prima parte, cercheremo di riportare una molteplicità di sguardi sulle forme e la composizione della protesta. Si cercherà di rispondere a queste domande: Cosa è successo? Chi c’era?
Nella parti successive e nelle conclusioni, ci s’interroga su quanto sta sotto la dimensione esplicita, ipotizzando sviluppi possibili. Le domande si fanno più difficili: cosa c’è dietro? Quanto avvenuto a Torino è stato anticipazione di qualcosa? E soprattutto, è finita qui?
Nella discussione che ha accompagnato la stesura del testo, dopo la partecipazione alle giornate di protesta, restano sul fondo domande meno visibili ma più urgenti: Come si contende un territorio politicamente non ancora connotato a fascisti e soggetti reazionari? Con l’aggravarsi della crisi, scenari simili si ripeteranno in Italia? Come prepararci? E soprattutto, qual è il nostro ruolo di militanti?
[1] Aldo Bonomi, I forconi metafora di un popolo creato dalla crisi sociale, in «Il Sole 24 Ore», 22-12-2013
1 – TORINO, FISIONOMIA DI UNA RIVOLTA
1.1 – tempi e luoghi
La rivolta ha avuto una topografia e una temporalità precise, cui sono corrisposti un mutare ed articolarsi delle differenti composizioni che si sono succedute, sovrapposte, condividendo talvolta i medesimi spazi, talaltra scegliendosi quelli più congeniali. Il grado di radicalità del blocco era variabile, a seconda dei contesti e del peso che riuscivano ad avere gli organizzatori del coordinamento 9 dicembre. Ciò ha influenzato la geografia dei presidi e delle piazza, dinamizzandola, dato che in generale i soggetti più incazzati, di fronte ad un’eccessiva moderazione o disciplinamento delle forme di protesta, si spostavano cercando un nuovo e più proficuo contesto. Il primo giorno abbiamo tendenzialmente osservato questo: dopo infinite discussioni sulla legittimità o meno di un vero e proprio blocco della circolazione, molti hanno preferito spostarsi subito verso il centro cittadino, percepito come il luogo della precipitazione politica degli eventi del giorno. Altri si spostavano di qualche incrocio per produrre un nuovo blocco, reale ed efficace, fuori dal controllo degli organizzatori e della supervisione complice degli agenti della digos.
La protesta ha dunque avuto i suoi luoghi propri, vissuti e attraversati in maniera differente, ora come contesto in cui ricavare il consenso di una maggioranza più ampia mantenendo l’efficacia dell’azione, ora come territori estranei in cui sono condensati obiettivi da colpire o rappresentanze istituzionali su cui fare pressione. Possiamo suddividerli in quattro grandi fasce:
Periferia: Piazza Derna, Piazza Pitagora, piazza Rebaudengo, piazza Bernini, ecc.
Centro: Piazza Castello (Regione), le stazioni Porta Susa e Porta Nuova, la sede di Equitalia, la piazza del Comune, piazza Statuto.
Prima cintura: Nichelino, Settimo Torinese, Grugliasco ecc.
Seconda cintura e oltre: Chieri, Carmagnola, Pinerolese, Alpignano, Avigliana… ecc.
A ciò va almeno aggiunta una fascia potremmo dire extra-territoriale della grande distribuzione e della logistica. Questi, assieme al centro cittadino, erano luoghi maggiormente investiti da unsentimento medio di alterità e inimicizia; nei grandi blocchi periferici c’era invece una maggiore attenzione a mantenere un rapporto cordiale col contesto (frequenti gli attestati di solidarietà).
Incubatasi per diverse settimane nel tessuto organizzativo dei mercati, la protesta ha infatti covato attesa e ansia di partecipazione in questi quartieri. Per tutto il corso di queste giornate essi hanno svolto un ruolo di presidio territoriale fondamentale non solo per l’attuazione del blocco e la partenza dei cortei, ma anche per momenti di ritrovo e vita comune seppur nel contesto di un ambiente metropolitano squallido, quasi allucinante (spesso i presidi si davano al centro di rotonde tra strade estremamente trafficate dove non addirittura svincoli autostradali).
«Il montare dell’adesione alla protesta si è collocato, nelle settimane precedenti il 9, negli epicentri della socialità metropolitana socialmente oppressa: lo stadio da un lato, le periferie dall’altro. Le curve sono da decenni luogo di sedimentazione di amicizie, relazioni, culture e pratiche organizzative […] e il loro ruolo è echeggiato anche nella ritmica e nello stile dei cori contro i politici che hanno animato le piazze. Il quartiere, soprattutto periferico, un tempo roccaforte di una sinistra che da molti anni ha preferito trasferirsi tra le banche e i palazzi, è il luogo dove variegati frammenti di “popolo” condividono l’orizzonte quotidiano e, nella percezione diffusa, sopravvive la veracità e la sincerità dei rapporti umani, improntati al bene come al male. Il quartiere è uno dei luoghi, puro e semplice, dove ancora si pensa di potersi fidare di qualcuno; e il luogo di condensazione delle relazioni sociali del quartiere è proprio il piccolo commercio: bar, panetterie, centri commerciali, negozi» (D.G.)
Quasi tutti questi luoghi, dove è concentrata un’ampia quota della popolazione cittadina, sono stati investiti dalla lunga restaurazione produttiva degli ultimi trent’anni, trasformandosi da dormitori operai a dormitori della città post-fordista, dove la frantumazione della precedentemente omogenea forza-lavoro operaia si è compiutamente consumata. Come ha notato con precisione Marco Revelli, in un’intervista a Radio onda d’Urto:
«alcuni dei luoghi dei blocchi, in particolare a Torino sud, nell’area di Mirafiori, sono gli stessi in cui si era manifestata l’ultima fiammata di rivolta operaia nel 1979, in occasione del contratto dei metalmeccanici, quando gli operai che non avevano più la forza che avevano avuto un tempo in fabbrica si riversarono nelle strade e bloccarono gli incroci della Fiat, quelli che ora sono le grandi rotonde… I luoghi sono gli stessi, le facce sono le stesse, più impoverite […] le forme di lotta sono le stesse: si ferma, si discute, si danno i volantini ai camionisti e ai passanti… La composizione è diversa, è un altro pezzo del mondo del lavoro, quello che il post-fordismo penoso italiano ha prodotto: un blocco sociale eterogeneo […] che mette insieme tanti atomi, tante cartelle di Equitalia, tante tasse che non si riescono a pagare, tanti debiti, tante morosità negli affitti».
I tempi della rivolta hanno scandito il mutare di questi luoghi in un succedersi di spinte ora centripete (dalla periferia al centro), ora più tortuose: “Tutta una ortogonalità estranea, spesso respingente, svuotata e riscritta da una congestione che viene da più lontano, da Mirafiori, Lingotto, Grugliasco. La meta è un passaparola che si rimodula ad ogni tratto. Oppure un’indicazione orecchiata in piazza da qualche intervento, sempre a rischio d’incontrare spinte centrifughe sul cammino”. (G.) Se il primo giorno sono i presidi e i blocchi di periferia e nella prima cintura a riversarsi nel centro cittadino, dal giorno successivo la protesta sfonderà nelle zone di provincia, intersecando controcorrente il flusso degli studenti medi della periferia. Proviamo a ricostruire brevemente le tappe cronologiche di queste dinamiche:
La Prima giornata ha visto blocchi consistenti in tutte le piazze indicate dal coordinamento ma anche in altri punti della città. Gran parte confluisce nel centro di Torino dove raggruppamenti consistenti bloccano la stazione di Porta Nuova, si sfiorano momenti di tensione con la Guardia di Finanza; la situazione si fa più dura con momenti di cariche e impiego di lacrimogeni nei pressi della sede di Equitalia. La rabbia si scarica infine in piazza Castello davanti alla sede della Regione. Qui la partecipazione è consistente assistiamo al coagularsi delle differenti componenti presenti nei diversi luoghi e momenti della mattinata. Si assiste ad una forte tenuta della piazza, la partecipazione è larga e trasversale, diverse generazioni prendono parte all’assalto del “palazzo”. Tutti i mercati sono deserti e la maggioranza assoluta dei piccoli esercizi commerciali chiude per adesione, consenso formale o minaccia. Fin dalla mattina il traffico risulta bloccato nel chierese mentre a Nichelino viene occupato il Municipio e s’impone la chiusura di molti esercizi commerciali e della grande distribuzione.
Nei giorni successivi tengono i blocchi, soprattutto per la rinnovata presenza giovanile ma la polizia interviene più capillarmente e con molta minore disponibilità al lasciar correre. Si assiste soprattutto all’attivazione e tenuta degli studenti medi. I negozi iniziano a riaprire ma l’astensione nei mercati resta totale. Decisa estensione della protesta ai territori della prima e della seconda cintura. Blocchi vengono imposti con la forza a tanti punti della grande distribuzione. Blocchi autorganizzati, spesso da studenti minorenni, proliferano in diversi punti, sull’asse di corso Francia, in piazza Statuto o al rondò della Forca.
Dal mercoledì pomeriggio la protesta inizia a scemare, anche per l’annuncio della riapertura dei mercati l’indomani mattina e il profilarsi delle prime incrinature tra la “dirigenza”. Il giovedì mattina in piazza restano solo gli studenti medi, che la polizia avrà buon gioco nel controllare, dividere e reprimere. Permane, come situazione particolarmente conflittuale, l’attivazione nel comune di Nichelino.
Un aspetto peculiare e da evidenziare anche in relazione alla capillarità territoriale delle proteste è il carattere largamente spontaneo delle pratiche messe in campo. Più che di originalità, bisognerebbe parlare di un riprodursi autonomo delle stesse, sganciato dalle volontà dei soggetti organizzatori. In questo senso, abbiamo assistito ad una vera e propria rivolta urbana, nella misura in cui anche numeri esigui ma sparsi diffusamente sul territorio hanno creato seri problemi di gestione della viabilità e del normale funzionamento della mega-macchina urbana. Era palpabile una diffusa impressione di caos sistemico, rinvenibile nel proliferare di iniziative improvvisate, nella palese assenza di una qualche autorità politica, nell’affannarsi della digos per riuscire a gestire gli schizzati cortei studenteschi senza meta, senza interlocutori riconosciuti.
1.2 – Composizione
La paura suscitata da questo magma sociale in ebollizione ha trovato espressione sia in un editoriale di Torino Cronaca (quotidiano xenofobo e scandalistico, inizialmente vicino alle ragioni della protesta) in cui il direttore Beppe Fossati palesava la paura borghese per l’apparire di nuovi fantasmi senza storia e collocazione; sia nelle inquietudini di una certa sinistra, sorpresa dal prodursi di situazioni inedite agite da soggetti non collocabili. In un’assemblea che si è tenuta a Palazzo Nuovo – una sorta di auto-coscienza collettiva della sinistra cittadina – un ragazzo ha tradotto pubblicamente queste paure, ammettendo di aver riscontrato tra le proprie conoscenze:
«Un’impressione preoccupata, di chi non capisce cosa sta succedendo […] Quello che a me ha preoccupato è il sovvertimento di equilibri, la rottura dei normali rapporti sociali che siamo abituati ad avere; il sollevarsi di questo pulviscolo… con cui non si può avere un dialogo, secondo i normali schemi con cui siamo abituati a confrontarci, avere uno scambio […] La sensazione è che non si sapesse bene cosa fare, che si fosse alle prese con qualcosa di nuovo, qualcosa di sconosciuto […]».
Questa paura, per l’apparire di un qualcosa di imprevisto e non compatibile con precedenti e ben riconosciute fisionomie, trova eco nelle difficoltà d’inquadramento di questi soggetti da parte della questura cittadina. In un reportage curato da un giornalista della Stampa, in cui si traccia l’eterogeneo identikit dei fermati per “violenza” (Il fanatico dei rave party, il barista e il cassintegrato. Ecco l’identikit della piazza [3]), ecco cosa racconta un preoccupato “investigatore di primissimo piano” impegnato nel monitoraggio di quelle giornate:
«Per le strade ci sono soggetti molto diversi: la manifestazione era nata dagli autotrasportatori, ma sono rimaste poche sigle minoritarie. Il midollo spinale è costituito dagli ambulanti. A loro modo, presidiano il territorio: incarnano il malessere di chi non vende più e conoscono i problemi di chi non può comprare. A questo si aggiunge: un sottobosco da stadio, ragazzi di periferia, alcuni pregiudicati, curiosi vari. L’area politica è principalmente di destra, ma conta poco».
L’accenno al ruolo degli ambulanti nella protesta è prezioso. Conta qui soprattutto quest’annotazione sul loro essere presenza “di frontiera”, a stretto contatto con l’impoverimento diffuso che attraversa questa città: «noi siamo la prima linea, vediamo aumentare mese dopo mese il numero di quelli che aspettano lo smontaggio delle bancarelle per prelevare la merce abbandonata, la necessità di contrattare anche sui 20/30 centesimi» (R.) ci ha detto un amico che fa l’ambulante da qualche anno (con un passato nelle case occupate e nello stadio).
In effetti, entro la massa dei partecipanti ai diversi momenti della protesta – un coacervo variegato che non ha probabilmente avuto il tempo di arricchirsi e articolarsi ulteriormente – possiamo individuare, fra figure meno facilmente definibili, almeno tre componenti fondamentali:
a) il piccolo commerciante che si rappresenta – soprattutto il nucleo degli ambulanti – come imprenditore di se stesso (o di impresa “familiare”), in grado di farcela se non fosse per i vincoli esterni, individuati principalmente nel peso fiscale e, sempre più, nella voracità della finanza, voracità di cui la casta politica è in certo senso sintesi visibile e sfacciata – minore, ma non insignificante, la presenza di immigrati con piccoli negozi o banchi dei mercati rionali (soprattutto a Porta Palazzo). Se quella che si tratteggia qui è la figura, composita ma ben definita antropologicamente e politicamente, del “bottegaio”, la componente più interna e specifica degli ambulanti ha giocato un ruolo di primaria importanza, come segmento interno e “più avanzato” di questa composizione. Un redattore di Radio Blackout che ha effettuato molte dirette dai blocchi (e che ha una discreta conoscenza di quel mondo) ci propone queste considerazioni:
«La mia impressione è che il successo di questo singolare appuntamento, che nelle periferie torinesi nel frattempo si colorava di caratteri tipici dell’attesa messianica, sia dipeso in larga misura dal radicamento dei mercatari nei quartieri di periferia. L’impegno, la rabbia, l’organizzazione della gente dei mercati è stata la conditio sine qua non della riuscita. Questo non perché i mercatari fossero particolarmente abili nel fare propaganda e proselitismo ma perché questi soggetti, che nascondono in realtà condizioni diversissime al loro interno, vivono e abitano le nostre periferie, fanno i mercati nelle nostre periferie, mandano i figli a scuola nelle nostre periferie e hanno lì tutto il loro mondo relazionale. Avanzo l’idea che senza l’attivazione di questi soggetti dentro quel fumoso e reazionario coordinamento nazionale che aveva indetto la giornata, anche Torino avrebbe attraversato la rivoluzione del 9 dicembre senza quasi accorgersene». (M.M.)
La primazia politica di questa componente non è casuale ma frutto della particolare densità numerica di questa forza-lavoro e della sua capillare diffusione sul territorio torinese. Un amico ambulante, da sempre residente nella periferia e con alle spalle una famiglia di stretta origine operaia, spiega bene il contesto in cui è potuta emergere questa soggettività particolare:
«A Torino ci sono molti più mercatari e mercati in rapporto alle altre città, ogni giorno… e questo per un disegno ben preciso, un disegno che è stato fatto nei primi anni ’80 dopo i licenziamenti Fiat, quando i mercati sono stati spinti e visti come una sorta di “ammortizzatore sociale” … sono nati così i mercati rionali giornalieri mentre nelle altre città, Milano, Roma non è così… i mercati rionali sono settimanali, il che moltiplica per 5 il numero degli addetti… abbiamo quindi dai 6 ai 7000 il numero dei mercatari in città […] Ultimamente, con la liberalizzazione delle licenze c’è stato un nuovo boom, portato dalla nuova immigrazione, dai nuovi disoccupati: chi perdeva il lavoro nelle fabbriche, come prima cosa, la più economica, comprandoti un furgone la licenza ti viene data gratis e avevi così l’opportunità di provarci… Senonché questo ammortizzatore sociale non è stato accompagnato da politiche sociali di sostegno e dall’altra parte è stata avvantaggiata sistematicamente la grande distribuzione».(R.)
In sintesi, se i numeri non sono stati da mobilitazione di massa, le minoranze che si sono messe in movimento col 9D sono significative nel senso che rappresentano una avanguardia di settori sociali che, nel loro insieme, rimangono tuttora ai margini della mobilitazione e, nella maggioranza, finanche ostili ad essa. A mettersi in movimento non sono stati i “ceti medi” nella loro interezza o nella loro maggioranza ma solo coloro che hanno già perso quella condizione o ne vedono come ormai inevitabile la perdita. Si tratta di soggetti che, a parte gli ambulanti, vanno in piazza per la prima volta, con il correlato disagio, una crescente rabbia che trova alimento nella crescente paura di perdere la condizione economico-sociale conquistata e nel terrore che le condizioni per riconquistare quanto perso non si daranno più.
b) Gli/le impoveriti/e, “margine” crescente di settori disparati, proletari o in via di proletarizzazione. Espulsi dalla produzione, troppo “anziani” per rientrarvi oggi nella crisi e/o senza “competenze” qualificate per continuare a competere in un gioco che si è fatto troppo duro e dove il numero dei perdenti inizia ad approssimare non solo i vincenti ma anche a chi semplicemente resta a galla. Il proletario classico, dipendente, è spesso passato attraverso forme minori di autoimprenditorialità, più costretto (dal decentramento produttivo o dalla secca chiusura di piccole aziende della filiera del subappalto) che non. (Non sembra invece presente l’operaio delle piccole-medie aziende in cig, ordinaria o in deroga, probabilmente ancora speranzoso in un “rientro” in fabbrica, oppure occupato in vertenze puramente aziendali sotto l’accorta regia dei sindacati, che lavorano su quella speranza ancora presente). Insieme a queste figure, pensionati con la minima o quasi, inquilini delle case popolari, madri sole con figli a carico. Figure insomma tipiche di un immaginario popolare (e stereotipato) quasi più da sottoproletariato, finora trattenute dal precipizio, seppur sempre più ai margini, grazie alla regolazione politica di enti locali dal discreto funzionamento sabaudo. Oggi sempre meno così. Ne dà una buona sintesi Guido Viale sulle pagine del Manifesto:
«[…] a venire in primo piano è la loro identità di poveri o di impoveriti: la manifestazione nuova e dilagante […] di persone che non ce la fanno più. E non solo perché sono esasperati […] ma proprio perché non sanno più come campare: non hanno più lavoro né impresa (ambulanti, autotrasportatori e agricoltori sono il cuore della rivolta); né reddito, né possibilità di studiare, né pensioni sufficienti, né casa; né, soprattutto, possibilità di intravedere un qualsiasi futuro diverso dal protrarsi all’infinito di questa loro condizione. Sono il prodotto maturo della finanziarizzazione e della globalizzazione dell’economia»[4].
c) I giovani. Anche qui, solo in parte quelli che si ritrovano nei cortei studenteschi, e comunque più dei professionali e tecnici che dei licei (che al massimo si sono affacciati a “vedere” cosa stava succedendo, con un sottofondo di diffidenza non celato, soprattutto nelle soggettività che si collocano a “sinistra”). Diversi professori/esse che lavorano nella scuola secondaria hanno testimoniato di questo attivarsi degli istituti di periferia, o comunque di una maggiore attenzione per la protesta da parte di quegli studenti normalmente assenti dalle mobilitazioni. Una compagna riporta queste osservazioni sul suo profilo facebook:
«Due parole sugli studenti: alcuni dei miei “lumpen” sono stati più volte alle manifestazioni presidi blocchi di questi tre giorni. Oggi un’intera classe non è entrata e facevano picchetti fuori da scuola. Rabbia delusione paura per il futuro e cazzeggio erano componenti dello stesso misciun… ma sono cmq stati capaci di entrare nel merito delle questioni e di spiegare le loro ragioni. Sufficienza per tutti!» (S.F.)
Accanto a questi studenti, forte e visibile la presenza del giovane, a cavallo tra scuola spesso non conclusa e diploma inutile, di “periferia”, relegato nei modi di una socialità che gira intorno a consumi sempre più alienati e sempre più difficili, in “bolle metropolitane” – i quartieri delle zone nord e sud della città e dell’area metropolitana – i cui unici momenti di aggregazione sono i bar sotto casa, la strada, per gruppi di amici che insieme si presentano ai blocchi. Una realtà che spesso si sovrappone a quella degli ultras, che ha però in più l’organizzazione di piazza nello scontro con la polizia e un’identità apparentemente più forte, sicuramente più coinvolgente.Un compagno dell’università che abita a Mirafiori ha riconosciuto volti e fisionomie del suo quartiere di provenienza:
«Cosa ho visto nelle piazze di questi giorni a Torino? Ho visto in prima istanza una quantità di giovani e giovanissimi provenienti per lo più dalle periferie e dalla cintura torinese, senza lavoro, spesso senza aver completato i cicli di formazione della scuola superiore, spesso mantenuti dalla famiglia o impiegati in lavoretti saltuari e precari. Giovani che vivono in questo momento un processo di marginalizzazione non completamente compiuto, che vengono spinti fuori dal circuito del lavoro classicamente inteso e da quello del welfare e degli ammortizzatori sociali. Questi sono stati in gran parte i protagonisti degli scontri sotto il consiglio regionale insieme agli ultras e nei giorni a seguire invece sono tornati in gran parte nelle periferie ad organizzare blocchi stradali, cortei nelle cittadine della cintura e altre forme variegate di protesta. Ho visto gli studenti degli istituti tecnici e professionali che dall’anno successivo all’Onda non attraversavano più le piazze e che proprio in quell’anno avevano rappresentato un sostanziale salto di qualità in termini di conflitto, di disponibilità e anche di capacità organizzative e di massificazione della lotta. Molti sono stati i cortei che tra martedì e oggi hanno attraversato le strade di Torino. Lo slogan che più veniva urlato da queste due composizioni che spesso si compenetrano, ma che oggi non sono completamente ricomposte è “ci stanno rubando il futuro”, o “il futuro ce lo riprendiamo” a seconda dell’ottimismo. Tra questi, moltissimi migranti di seconda generazione». (V.M.)
«Ho parlato con un sacco di gente, e molti erano li pur non sapendo un beato cazzo della carta d’intenti del coordinamento rivoluzione 9 dicembre. Mi hanno raccontato la vita di merda che si fanno “lavoro all’autogrill, ho il contratto di apprendista, ma sono sempre solo, mai visto il mio tutor, ho a che fare con la peggio gente del mondo e devo fare il bravo se no mi licenziano, faccio il turno di notte e per contratto non dovrei farlo e non mi pagano la maggiorazione notturna perché non è prevista nel contratto, sono dei pezzi di merda” Antonio 23 anni, ragazzo di Mirafiori, invece il suo amico di cui non ricordo il nome lo avevano licenziato da una officina meccanica perché si era lamentato che da 3 mesi non riceveva lo stipendio». (V.K.)
Come si ritrovano insieme questi soggetti frammentati? Per l’innesco della componente di Porta Palazzo, il mercato all’aperto più grande a scala europea, che è il nucleo duro e organizzato della mobilitazione (con già alle spalle altri momenti di protesta, anche relativamente dura, negli ultimi due anni, contro la direttiva Bolkenstein), con presenza di elementi destrorsi e/o già ammanicati con le varie lobby di categoria (però in forte crisi di rappresentanza sul territorio), ma anche una consistente componente “apolitica”. Ma poi a partire dai blocchi del lunedì in avanti, si dà una significativa ancorché parziale “eccedenza”, come si è visto.
2 – QUALE POLITICITÀ INTRINSECA?
Proviamo a distinguere più dimensioni della mobilitazione per valutarne l’intrinseca politicità al di là di parole d’ordine vaghe, contenitori organizzativi (destrorsi) presenti ma non in grado di determinare la risposta della piazza rivelatasi largamente “spontanea”, e una direzione di marcia ancora non definita: comportamenti e umori di pancia come (confusa) prefigurazione di contenuti politici.
2.1 – Comportamenti
Tra le differenti componenti si evidenziano anche comportamenti diversi, a volte contraddittori, a volte figli di pulsioni relativamente contrastanti e di spinte diverse. Nota un compagno:
«Non c’è una capacità di indirizzamento collettivo, se non nei termini sommari, degli organizzatori […] nei comportamenti sorgono delle contraddizioni: chi tira pietre alla polizia, due minuti dopo li applaude perché tolgono il casco, ma in gran parte rappresenta alcune caratteristiche delle folle senza una connotazione ben delimitata per cui vengono influenzate da umori e informazioni che arrivano spesso dall’esterno in maniera più netta» (V.M)
In particolare la percezione è che i mercatari sono stati particolarmente duri nell’organizzazione dello sciopero dei negozi, meno nei blocchi (dove a seconda della consistenza numerica hanno prevalso le modalità dei giovani e la tendenza a bloccare realmente la circolazione cittadina), hanno cercato, spesso non riuscendoci, a porsi come freno ai momenti di conflitto più alti, in particolare in piazza davanti al palazzo regionale e in generale coi poliziotti concepiti da questa componente come interlocutori più che come tutori della controparte. Nonostante ciò è emersa tra di loro la volontà di una contrattazione dura, che deve necessariamente scavalcare le organizzazioni di categoria e i soliti canali clientelari (almeno in una prima fase), ma ha bisogno, per riuscire ad essere efficace, di un blocco di tutto il commercio. Sia nelle modalità di organizzazione sia nel tentativo espresso dal secondo giorno di mobilitazione in poi di rivolgersi contro la grande distribuzione (in maniera organizzata e quasi militare, o più spontaneamente con assembramenti di qualche decina di persone che “resistono” per qualche ora e poi sono facilmente allontanati dalla polizia) traspare un programma di difesa della piccola impresa tradizionale dalle grinfie del grande commercio inserito in un quadro, generico, di rivendicazioni anti-europeiste. Un’esperienza già ben sedimentata dalle precedenti mobilitazioni di questi settori contro la Bolkenstein. Mobilitazioni che tuttavia testimoniavano l’attivazione di una componente privilegiata, rispetto al mondo ben più ampio e frastagliato dei mercati che, stando a quanto ci dice ancora il nostro amico, se la passa mediamente peggio:
«Ci sono innumerevoli fasce, una mitosi continua, è un mondo estremamente polverizzato […] ci sono però due grosse fasce: i proprietari e gli affittuari […] in città la stragrande maggioranza è in affitto, le licenze sono nelle mani di pochi e spesso ne hanno tante, diventa una rendita. […] Le prime mobilitazioni sono state sulla Bolkenstein ma hanno avuto poca partecipazione, soprattutto dei proprietari […] Il 9 dicembre e seguenti questi non hanno partecipato o meglio, hanno partecipato loro malgrado… fosse stato per loro avrebbero piazzato i banchi. Sono stati obbligati da ronde – definite “fasciste… ecc.”, in realtà erano tamarre, fatte da quelli che si sono stufati dei “grandi” dei mercati – composte soprattutto da affittuari incazzati che hanno detto: “oggi scioperate anche voi!» (R.)
La componente più dispersa, quella vittima di un processo di marginalizzazione all’interno della crisi più netto, giovane e meno giovane, ha espresso la necessità di uscire dall’invisibilità, ritrovandosi a condividere i problemi di sopravvivenza all’interno dei blocchi e dei momenti più collettivi di incontro, rivendicando spesso una dignità quand’anche di una modesta attività e della possibilità d’accesso a una vita altrettanto modesta, spesso rifacendosi a forme di ideologia lavorista residuali. Anche qui però le istanze si sono espresse in termini molto diversificati a seconda delle particolari condizioni di vita, e hanno attestato diverse modalità di lotta e organizzazione e reazioni agli umori specifici e all’agire della controparte. Per esempio gli inquilini delle case popolari a Nichelino hanno mostrato un alto tasso di disponibilità allo scontro, lanciando bombe carta contro il Comune e le forze dell’ordine, irrompendo nella sede, mischiando la protesta contro l’assenza di prospettive lavorative alla questione della casa e della mancata erogazione dei servizi. Qui la protesta – trans-generazionale ma con una spiccata presenza soprattutto di giovani e anziani – ha fatto proprie le forme “dure” di chiusura imposta agli esercizi (soprattutto della grande distribuzione), declinata però in una forma sociale, dove l’imposizione si accompagnava al confronto, all’esposizione delle ragioni, cercando la comprensione e il consenso dell’utente bloccato o del semplice dipendente salariato. (Cfr. i video-reportage di Servizio Pubblico: “Chiudete quel negozio!”).
I giovani e gli ultras probabilmente si sono mobilitati attratti dalle voci di quartiere, dalla percezione che qualcosa di grosso stava per succedere, ma esprimendo necessità e comportamenti differenziati dal resto del coacervo. La sensazione è che il livello di attivazione più preponderante sia stato quello di provare ad uscire dalla “bolla” di una vita tra promesse mancate (in termini di possibilità di mobilità sociale, accesso alla ricchezza e all’indipendenza dai genitori) e riti consumistici insoddisfacenti o non più accessibili per molti versi, riconoscendosi sempre di più come “generazione no future”. Due ragazze che abbiamo intervistato a Radio Blackout raccontano cosa li ha spinti alla partecipazione a partire dalla loro condizione individuale e dalla percezione di far parte di una condizione insostenibile più generale:
«Io ho saputo di questa mobilitazione attraverso facebook. Prima non avevo mai partecipato se non ai cortei studenteschi dove si sa che uno scende in piazza giusto per far casino… Questa volta invece ci credevo. L’occasione per scendere tutti in piazza e farsi sentire l’ho voluta cogliere subito”. Aggiunge la sua amica, di Nichelino – “Anch’io avevo partecipato contro i tagli della scuola, l’avevo fatto anche per quel ragazzo, Vito, cui era crollato il tetto in testa. Anch’io ho letto su facebook e ho detto “Basta! Si partecipa”, perché siamo arrivati ad una situazione davvero disastrosa. Io sono disoccupata da giugno ma non sono messa solo io in questa situazione, siamo tantissimi: c’è chi lavora e non ha più diritti, ci sono adulti che hanno perso il lavoro e dormono in macchina con i figli, perché gli hanno pignorato tutto» (F. & L.).
Questa parte ha espresso la ricerca di una certa socialità-contro (già strutturata nel mondo ultras) che di fatto esprime il tentativo di mettere in discussione le forme di vita date senza sapere come e verso dove indirizzare queste pulsioni. Questa componente insieme a quella degli studenti ha espresso i livelli più alti di conflitto, tenendo la piazza di fronte ai lacrimogeni e alle cariche della polizia il primo giorno, e nei giorni successivi organizzando ed agendo molti blocchi spontanei che si sono articolati nella periferia. Da questa componente si è espressa spesso una contestazione evidente non solo verso le istituzioni e la burocrazia dello Stato, ma anche verso gli organizzatori della mobilitazione che cercavano di smorzare la tensione in piazza o nei blocchi del traffico.
«Buona parte della gente che attraversa le piazze individua come necessità quella di bloccare flussi di merce e persone per inceppare la macchina dello Stato individuato come nemico e della grande finanza […]. Altri obbiettivi? La regione di Cota e il comune di Torino, Equitalia, Agenzia dell’Entrate, ecc. A questo però si affiancano anche momenti piuttosto festosi, situazioni estremamente confuse di iniziative singolari (comunque quasi sempre all’interno di un sentire comune), e una difficoltà vistosa a stare nei canoni della protesta classica, con striscione avanti, furgoncino e microfono, piuttosto invece un continuo partire di cortei e presidi spontanei nati dall’iniziativa di gruppi di amici, di compagni di scuola o altri piccoli gruppi che si trascinano dietro pezzi interi di manifestazione» (V. M.)
«Contenuti politici e forme del contenimento, variamente sperimentate dal comitato organizzatore sulle differenti composizioni scese in piazza, si scontrano qui con un’indifferenza proporzionale al grado di entropia interna che col passare dei giorni produce propri embrioni di organizzazione e indirizzo. Quanti oggi lanciano cori, quanti esprimono mete o proposte, domani vorran camminare davanti allo striscione, si litigheranno l’unico megafono in piazza, discuteranno accanitamente il percorso ad ogni crocevia. Giorno per giorno una forma litigiosa e surriscaldata di coordinamento prende forma fra quanti esprimono autonomamente la pulsione a tracciare il cammino, si intesse gradualmente di fiducia, disegna geografie mobili di intese e contrasti. Ma non cristallizza: al vaglio dello sguardo di tutti ogni comportamento resta esposto, revocabile, parziale. Si fa presto a isolare il piccolo aspirante capofila che si fa prendere a braccetto dalla digos. […]. La digos inocula fra le fila il virus di uno sconforto. Alzando la posta in palio. La rabbia immunizza. Riconoscersi incisività è esigenza disperante. Domani dobbiamo fargli male sul serio. Si scorre verso piazza Castello, si scorre verso casa. Se a ora di pranzo non ci sono, i miei scopriranno che non sono entrato. “Ma finisce qua? Così? Io voglio andare a sfondare da Footlocker!» (G.)
Per quanto una certa dose di nichilismo fosse presente, la dimensione della emersa nell’organizzazione dei blocchi, nella condivisione di saperi, sentimenti e frustrazioni ha espresso i primi indizi/le prime manifestazioni/ha manifestato i prodromi di una dimensione collettiva agente e di un’intelligenza altrettanto collettiva nella misura in cui ha posto/perché capace di porre il problema dell’efficacia, non in termini individuali, ma in forme di relazione ampia. Anche gli studenti dei tecnici e professionali hanno espresso alcuni di questi caratteri, ma in parte sono stati più succubi in una prima fase delle inibizioni degli organizzatori. Dopo poco però hanno iniziato ad esprimere una certa necessità di autonomia nell’agire e nell’identificarsi. Le forme del corteo studentesco classico sono apparse come limitanti e sono state superate con diversi cortei selvaggi senza un inquadramento specifico, nati dalla spontaneità del protagonismo di alcuni studenti con l’obbiettivo di bloccare la circolazione, individuando in maniera più netta di altre componenti il nemico, tra cui anche gli istituti del debito. Per molti l’agire-contro si è manifestato anche nel riversarsi nel centro cittadino, spesso sconosciuto ai più se non per le vie dello shopping, a differenza di altre componenti che invece hanno privilegiato il ritorno nei territori di provenienza e la diffusione delle modalità del blocco.
2.2 – Umori di pancia
Il vero filo unificante della mobilitazione è stato l’odio per la casta. Una sorta di “grillismo plebeo”, con tutte le sfumature (non molte, in verità) che sono oramai nell’ordine del discorso italiano. Particolarmente questa rabbia si è articolata contro la Regione per i recenti scandali della giunta Cota e contro il comune per la mala gestione riconosciuta che Fassino ha fatto della cosa pubblica. Non è stata indignazione generale e etica propria dei movimenti Occupy, ovviamente, ma rabbia e disprezzo viscerali. Il nodo della cosa pubblica, di chi decide e gestisce il denaro, appare in questi termini reattivi senza idee specifiche su possibili alternative.
Sono gli unici obiettivi? Pare di no: soprattutto tra i giovani, nei cortei spontanei, si è espressa una notevole rabbia contro le banche. Nei blocchi stradali, poi, un certo accanimento e risentimento verso chi è stato individuato come “ricco” (i Suv, le macchine costose, sono state fermate più di altre ai blocchi ad esempio).
Per contrasto, in positivo, rispetto all’odio per la casta si è dato un sentimento di appartenenza al “popolo italiano”, e dunque il riconoscersi nell’inno e, soprattutto, nella bandiera nazionale. Diverse le modalità di questo auto-riconoscimento nelle diverse componenti o singole soggettività presenti nelle piazze. Per alcuni è stata espressione di un senso dello Stato da giocare contro la politica corrotta, per altri semplicemente un momento di identificazione collettiva. Comune è la ricerca di un’identità e forse qualcosa di più, una comunità “impossibile” dentro il deserto dell’esistente. Anche questo nulla di nuovo, c’era anche tra i viola e altro.
Sotto traccia, insieme a questo spontaneo “nazionalismo” (non protezionista, o esplicitamente razzista) dal basso, è forse possibile intravedere un sentimento di dignità come “lavoratori”, se non proprio produttori in senso classico, che si contrappone al senso di spossessamento evidente oltre che alla casta politica parassitaria. Questo è un tratto in prospettiva importante perché palesa il nodo (scivolosissimo) del rapporto tra popolo (nazione) e produzione, importante dentro i processi di espropriazione e privatizzazione in corso ben al di là dei soggetti mobilitatisi.
Queste istanze sono cementate da rabbia e risentimento. C’è anche chiara una richiesta d’aiuto. A chi? Allo Stato ripulito dell’attuale classe politica. E una buona dose di disperazione, del sentirsi con l’acqua alla gola, appunto. (Anche questo pone un bel problema: non è che ci siamo un po’ troppo abituati a contrapporre semplicemente passioni fredde e calde, risentimento e rabbia da un lato e indignazione etica e gioia dall’altro? Ciò non toglie che è importante, anche a livello di umori, se emergono elementi di cooperazione inclusivi o al contrario escludenti).
Rispetto al sentimento nei confronti delle forze dell’ordine nulla di particolarmente nuovo quando a muoversi è la massa profonda. All’inizio c’è sempre l’aspettativa che le forze dell’ordine si comportino correttamente, anzi riconoscano le ragioni di chi manifesta e si schierino dalla parte del “popolo”, vera base dello stato. Anche tra i No Tav all’inizio, e non solo all’inizio, c’erano queste posizioni. Solo per i giovani il discorso è stato da subito differente. Da alcuni è stata assunta a fatica la dimensione di dialogo/confronto delle forze dell’ordine, ma con l’avanzare delle mobilitazioni, e con i divieti posti dalla questura a certe pratiche, si è disvelato un odio chiaro verso la polizia, in alcuni momenti con espressioni schizofreniche tra queste due tendenze nei medesimi individui.
Ovviamente questo non nega le collusioni di certi personaggi con le forze dell’ordine, così come i diversi atteggiamenti, probabilmente su direttiva del ministero di Alfano, di queste ultime. Resta il fatto che il questore di Torino ha dovuto ammettere che non si aspettavano l’eccedenza che c’è stata, impreparazione per cui in un primo momento ha anche offerto le dimissioni (cfr. La Stampa: Forconi, il prefetto di Torino: “Volevo dimettermi, il ministro mi ha fermata”).
3 – COSA (NON CHI) CI STA DIETRO
Proviamo a questo punto una prima riflessione d’insieme.
Oggettivamente cosa accomuna tutte queste figure, finora per lo più disperse, frammentate, soprattutto “invisibilizzate”, o su un altro versante reduci da corporativismi e peggio? Sono componenti eterogenee, e ovviamente parziali, di una composizione metropolitana reale (non di quella che spesso aleggia nelle discussioni di “movimento”). Tutte colpite, seppur in maniera differenziata, dalla crisi profondissima di un tessuto produttivo tardo-fordista, diciamo così, riarticolato negli anni passati su filiere lunghe e che ancora faceva ruotare intorno a sé reddito, seppur prevalentemente per figure precarie non qualificate ma non senza una presenza del terziario avanzato che si pensava proiettata in avanti. Di tutto questo resta non molto, ai vari livelli, soprattutto sta svanendo completamente la speranza in una possibile transizione torinese alla costituzione di un polo metropolitano produttivo post-fordista, nella configurazione di una smart city di cui effettivamente si vedono però solo i processi di espropriazione dei residui beni comuni locali, i tagli ai servizi collettivi, le privatizzazioni messe in opera da una governance fin qui “vincente” (dalle Olimpiadi in poi) che oggi si presenta sempre più nelle vesti di ufficiale giudiziario per il pagamento dei debiti accumulati dal comune e dalle varie aziende partecipate.
Ma, ripetiamo e qui riprendiamo, si sbaglierebbe a farne una questione meramente torinese. C’è qualcosa di più profondo e generale. C’è la ricaduta catastrofica, nel contesto suddetto con le sue “peculiarità”, dei processi di finanziarizzazione e lavorizzazione che hanno caratterizzato la fase ascendente della globalizzazione.
Finanziarizzazione (in salsa italica)
Sul primo versante, la presa di meccanismi finanziari privati (dal consumo in leasing all’amato “mattone”, agli investimenti facili scaricabili grazie a un fisco volutamente compiacente) e pubblici (quanti hanno pensato che con Bot e Cct il ritorno era garantito e, soprattutto, scaricabile su altri?) su piccoli produttori, commercianti, autonomi, ecc. (ma, notare, anche sugli strati finora “garantiti” del lavoro dipendente pubblico e privato) è stata fino alle soglie della crisi globale forte e inaggirabile. Salvo che ad oggi quella fiducia o è scossa dalla svalutazione dei patrimoni (immobili e risparmi) oltretutto a rischio sempre incombente di una stretta fiscale secca pro risanamento del debito statale, o sta portando via indebitamento divenuto illiquido e chiusura dei rubinetti del credito bancario al fallimento di una miriade di piccole e medie attività cui spesso dà il colpo finale il mancato o semplicemente ritardato pagamento di servizi, forniture e consulenze da parte delle amministrazioni pubbliche. Le riserve, per chi ne ha accumulato (attenzione: non solo per partecipare al “banchetto” delle vacche grasse, ma anche per tutelarsi come lavoro non dipendente -non parliamo dei veri professionisti dai lauti compensi- da eventuali rischi, malattia ecc., compensando anche con evasione ed elusione fiscale un welfare familistico e ritagliato sulle figure fordiste come quello italico), quelle riserve iniziano dunque a svanire. Per chi invece non ha avuto modo di avvicinarsi al banchetto non c’è neanche, o si è esaurito, l’ammortizzatore tradizionale del piccolo risparmio. Senza contare che la sensazione che in caso di tracollo delle banche a pagare saranno i “risparmiatori” non è affatto una fisima di circoli complottistici.
La proletarizzazione temuta sembra quasi inevitabile. L’impoverimento, infatti, a sei anni dall’inizio della crisi non può più essere considerato momentaneo, ma preludio di un definitivo declassamento. L’impoverimento è ufficialmente iniziato con la crisi del 2007, in realtà era cominciato molto tempo prima, ma la perdita di ricchezza reale era stata occultata dall’aumento della ricchezza fittizia sotto forma di indebitamento facile, meccanismo sconvolto dalla crisi e dalle politiche implementate per “uscirne”. Che tutto ciò sta alla base del crescente anti-europeismo va da sé, ma non senza atteggiamenti contraddittori da parte di questi stessi soggetti, p. es., verso l’euro: se è vero che è visto (semplicisticamente: ci torniamo sotto) sempre più come la fonte dei mali, è anche vero che nessuno vorrebbe vedere svalutati di colpo le residue riserve finanziarie e soprattutto mandare a catafascio l’intero sistema. Non a caso a mettersi in movimento non sono stati i ceti medi nel loro insieme, ma solo coloro che hanno già perso quella condizione o ne vedono come ormai inevitabile la perdita. Il resto non vive più nelle antiche certezze di futuro ma avendo conservato la propria condizione, preferisce augurarsi che l’orizzonte si schiarisca, che si esca dalla crisi senza ulteriori danni per sé sia pure con una diminuzione definitiva di status e di consumo. Analoga speranza alligna nel grosso del lavoro dipendente che ha conservato il posto di lavoro accettando i peggioramenti ed evitando di protestare energicamente per paura di rendere più problematica la sperata uscita dal tunnel della crisi.
Lavorizzazione
Sul secondo versante, quello del lavoro o, meglio, di cosa è divenuta la società come trama di relazioni produttive e riproduttive, assistiamo ai primi segnali di confluenza spuria, in mobilitazioni spurie, di soggetti eterogenei sì ma investiti tutti da dinamiche non dissimili trasversali ai diversi settori, produttivi e sociali. Da un lato molto del lavoro indipendente, estesosi a ritmi vertiginosi negli ultimi decenni, imposto dalle ristrutturazioni o cercato dalle nuove generazioni, risulta solo formalmente tale, in realtà è sottoposto – oggi in tutta evidenza – a vincoli di mercato se possibile ancora più stringenti che lo spingono verso la precarietà, l’autosfruttamento, l’informalità come onere piuttosto che come opportunità, l’assunzione individuale del rischio, fino alla stessa prestazione gratuita in attesa di non si sa che cosa. Dall’altro, molte attività precedentemente “esterne” alla relazione diretta lavoro-moneta-capitale ne sono oggi interamente dentro, dal consumo alla socialità, alle varie dimensioni della riproduzione sociale. Con una battuta potremmo dire che la presunta “crisi” del lavoro salariato si è rovesciata nella lavorizzazione e tendenziale industrializzazione di ogni attività umana, al di là delle forme in cui ciò si dà. La finanziarizzazione è appunto l’altra faccia di questi processi, che sussumono l’intera vita al capitale. In altri termini, l’azione del grande capitale finanziario e delle multinazionali (che muove tutte le sue pedine, comprese le banche centrali Fed e Bce) è in grado di condizionare e mettere a valore per sé anche il più periferico servizio svolto da un qualsiasi individuo apparentemente autonomo sul piano economico.
Allora, mentre il salario “classico”, diretto e indiretto, sempre più si rivela insufficiente per una sopravvivenza dignitosa ed è sottoposto a tremende pressioni al ribasso, le forme non salarizzate di reddito compresi i lavori autonomi di prima generazione e tendenzialmente tutte le attività si riscoprono risucchiate nel vortice dei meccanismi di mercato, tutt’altro dalle aspettative di arricchimento facile o di fuga dalla dipendenza da un padrone o anche solo di compensazione economica.
Così, l’analogo del salariato dipendente che sale sui tetti e insegue disperatamente il padrone, alla ricerca di un manager “capace” di salvare l’azienda, è il “padroncino”, il negoziante, la partita Iva che con l’acqua alla gola implorano più credito e meno tasse per la salvezza dell’impresa e nell’interesse di “tutti”. Ci si è pensati “autonomi” – per tutta una fase con ritorni economici e di status parzialmente non illusori – ci si ritrova di fatto invischiati in ogni genere di dipendenze e, ancora di più, senza prospettive di uscirne in futuro con le proprie sole capacità. Il contraccolpo sulle identità così costruite, e non solo nelle tasche, deve essere tremendo.
Non solo, si fa strada la sensazione di risultare “superflui” per questa società e i suoi dispositivi economici, anzi il rischio superfluità qualcuno già lo vive sulla propria pelle. Questo spiega perché nel quadro attuale chi è sfruttato è contento di esserlo, e spera di esserlo per sempre, in modo da poter sopravvivere. Chi non è sfruttato desidera esserlo. Il lavoro, ci viene detto, è un diritto di chi lo merita! E il lavoro si merita -arrivando al paradosso del lavoro gratuito- solo se si è in grado di produrre guadagno per chi, possedendo capitale, lo mette in movimento per valorizzarlo.
Ora, anche questo non è affatto un aspetto contingente dell’attuale crisi globale. L’exit strategy del grande capitale in Occidente esige che sia rilanciata l’attività produttiva come rimedio indispensabile per ancorare a valori reali la sua stessa valorizzazione, ridurre per quanto possibile la dipendenza dalla droga finanziaria e/o salvare in parte la bolla del capitale fittizio. Anche con il cosiddetto reshoring, il ritorno in “patria” di attività produttive già delocalizzate. Questo rilancio può avvenire però alla sola condizione che siano garantiti margini di profitto decisamente maggiori di quelli ordinariamente realizzabili oggi, con una classe lavoratrice decisamente più parca di quella attuale. L’impoverimento dei ceti medi e del proletariato ha dunque una conseguenza precisa, analoga per certi versi a quella descritta da Marx a proposito della “cosiddetta accumulazione originaria” in quanto serve a produrre una massa di proletari immiseriti, disposti a farsi imprigionare, pur di sopravvivere, in officine della produzione molto più produttive di profitto di quelle attuali. Allora l’inizio del processo fu lo scioglimento dei “seguiti feudali” che “riempivano inutilmente casa e castello”, oggi il processo è iniziato prima col proletariato, ma raggiunge adesso anche i “seguiti moderni” per proseguire ulteriormente contro entrambi.
Con ciò non siamo di fronte a una massa ridiventata omogenea e in grado di riconoscersi in un discorso comune (tanto meno già antagonistico al capitale). Anzi per certi versi, con una paradossale identificazione con l’aggressore, più il mercato bastona più ci si aggrappa all’essere individuo-impresa, dunque ci si frammenta ulteriormente. (Ma, di nuovo, questo accade in altre forme anche per il lavoro dipendente). Né si vuol dire che scompaiono le oggettive differenze nei meccanismi di sfruttamento ed espropriazione. Eppure, se non si prende atto che quello che una volta si definiva il rapporto capitale-classe proletaria è materialmente cambiato, non si fa un passo avanti. E’ su questo sfondo oggettivo e pervasivo – che ridisegna ed estende i contorni di cosa sono sfruttamento e spossessamento di un soggetto iper-proletario diffuso – che si è data nello specifico del 9D una confusissima e variegata trama di atteggiamenti, sentimenti, passioni, idee che cerca a tentoni una qualche direzione in cui convergere. Ancora largamente reattiva alla situazione (a parte le componenti organizzate) ma non per questo “reazionaria” o, se vogliamo essere più cauti, già oggi tale (a prescindere che si tratterebbe oggi di ridefinire cosa indica quel termine). Il problema è appunto quale direzione potrà assumere. Per affrontare questo nodo si tratta di passare in rassegna i contenuti, per lo più impliciti, della protesta.
4 – CONTENUTI DELLA PROTESTA E NODI POLITICI
Alcune premesse di “metodo” forse non superflue.
Primo. Importante anche se problematico, e provvisorio, distinguere tra i contenuti presenti anche implicitamente nella massa, laddove questa si è vista, e i “programmi” dei contenitori che hanno preparato o innescato la protesta. Dalla pancia della mobilitazione del 9D traspaiono dei contenuti ma non ancora un programma, rivendicazioni vaghe e confuse. Si vuole abbattere il governo, ma non si ha in mente chi possa sostituirlo, né quale programma debba avere. Si è insoddisfatti della propria situazione, ma non si sa bene quale specifica rivendicazione si possa mettere sul tavolo per aprire, eventualmente, una trattativa con qualcuno. Questo non significa negare che tra l’orizzonte destrorso degli organizzatori della prima ora e chi è sceso in piazza non vi sia alcun rapporto. Al contrario, ma esso è in larga parte “spontaneo”, determinato dalla storia, dal background, dalla collocazione materiale dei settori e degli individui in via di impoverimento. Questo ci impone di prendere ancora più sul serio i contenuti emersi, sia perché sono diffusissimi nel paese reale – al di là di ogni artificiale distinzione tra lavoro dipendente e non e tra opposti blocchi sociali – sia perché è anche sulle diverse declinazioni e direzioni che essi assumeranno che si giocheranno la partita della risposta sociale di massa alla crisi e la direzione che essa imboccherà.
Secondo. Importante per gli sviluppi è però anche provare a definire lo scarto tra le forme della protesta con la loro capacità di attrazione e la coscienza immediata dei suoi fini nelle teste dei partecipanti, e tra questa e i problemi oggettivi in campo. Per quanto minimo e instabile possa dimostrarsi, questo doppio scarto indica che per lo meno i giochi non sono ancora fatti ma, ancor più, che siamo agli inizi di scosse telluriche nel sociale dalle caratteristiche assai più caotiche e confuse che non in passato.
Terzo. Il tutto dobbiamo sforzarci di calarlo nel più ampio contesto, dinamico e in continua evoluzione, dell’approfondirsi degli effetti sociali e politici della crisi globale con le conseguenti, probabili rotture.
Premesso ciò, ci fermiamo qui sui tre elementi che hanno dato il tono di fondo alla protesta dal punto di vista dei contenuti: tasse, rivendicazione di appartenenza alla comunità nazionale, anti-europeismo.
4.1 – La questione tasse
Il discorso anti-tasse e l’odio per Equitalia è l’aspetto che i media hanno messo più in risalto. Presente in particolar modo tra piccoli commercianti e lavoratori indipendenti, non è stato però il vero collante della mobilitazione che va più ricercato in un grido di protesta di “tutto il popolo” contro la casta dei politici che pensa solo a se stessa.
Tagliando con l’accetta, emergono sul tema tasse due spinte di fondo che la crisi va a sovrapporre. Da un lato, quella corporativo-categoriale imperniata prevalentemente sugli autonomi di prima generazione avvezzi a un favorevole “patto fiscale” con lo stato che si trascina tra alti e bassi dagli ultimi decenni democristiani ma oggi sta andando a pezzi. Dall’altra, l’istanza di mera sopravvivenza non solo delle microimprese ma di individui proletari che rischiano di essere definitivamente sommersi. A fare quasi da cerniera tra le due spinte, l’affastellarsi dei più diversi carichi fiscali, statali e locali, sui settori proletari più disagiati, dai pensionati ai precari, che faticano ad arrivare a fine mese, nel mentre i servizi collettivi costano sempre più o vengono privatizzati.
La tentazione per rinnovate spinte lobbistiche anti-tasse, che punteranno anche a giocare sulla rivalità dei due tronconi in cui si è diviso il centro-destra, non è per questo già esaurita in certi settori. Ma i margini per una contrattazione favorevole sono oramai risicatissimi stante la crisi irreversibile dei conti pubblici e le politiche rigoriste europee rovesciate sui settori medio-bassi. E stante la disparità di trattamento sempre più eclatante tra il grande capitale -vedi i salvataggi e le continue sovvenzioni alle banche- e i piccoli imprenditori, già insofferenti a causa del credit crunch messo in atto dalla finanza. Non che i salotti buoni della borghesia siano di per sé ostili alla rabbia del piccolo accumulatore, che nel recente passato ha anzi accarezzato se non supportato come è stato nel caso della Lega Nord, e alla possibilità di mettere lavoro autonomo contro lavoro dipendente. Solo che oggi risulta più difficile all’immediato usare e indirizzare queste spinte contro proletari già abbastanza spolpati e a favore di tagli alla spesa sociale che vanno a ricadere negativamente anche su questo stesso ceto medio. Manca poi, ripetiamo: all’immediato, la condizione fondamentale per una politica di accorpamento della “piccola borghesia” (categoria oggi quanto mai difettosa) impoverita in funzione anti-proletaria: la presenza o quanto meno segnali consistenti della costituzione del “partito unico” della borghesia capace di centralizzare le diverse spinte per il rilancio del capitale nazionale. Su questo versante, peraltro decisivo in prospettiva, a prevalere in Italia sembra essere piuttosto la disgregazione del quadro politico istituzionale. (Sotto torniamo sulla questione se la mobilitazione del 9D può essere letta se non altro come un tassello iniziale nella suddetta direzione).
Il “partito delle tasse”
In ogni caso, di fronte a queste dinamiche e ai loro possibili esiti, la “sinistra” politica e sindacale sa solo alzare la bandiera della denuncia della “rivolta anti-tasse a rischio di infiltrazioni fasciste e criminali” e ripetere il mantra della “lotta all’evasione fiscale” quasi misura risolutiva di ogni difficoltà. Un approccio questo che propone una lotta all’evasione senza distinzioni di… classe: perché nel variegato mondo dell’evasione rientra sia chi anche grazie a questa si arricchisce sia chi nonostante questa oggi si impoverisce. Vittime questi ultimi di un sistema che prima ha permesso col clientelismo ampia impunità all’evasione e oggi tassa indiscriminatamente e punisce chi capita sotto le sue grinfie con Equitalia a fare da aguzzino. Senza questa prima fondamentale distinzione si distrugge alla radice ogni possibilità di “alleanze” o anche solo di attenzione politica verso la massa crescente di lavoro salariato di fatto, lavoro autonomo di seconda ma anche di prima generazione (ovviamente non parliamo di ricchi professionisti, faccendieri, consulenti ammanicati con la politica, palazzinari ecc.) che si muove tra fidi bancari e scarsi o nulli ammortizzatori sociali, tra rancore individuale e però anche disillusione secca verso berlusconismo e leghismo. Un settore con cui comunque bisogna fare i conti anche solo per ampiezza e diffusione, da sottrarre alla destra e che invece la politica sindacale e il centrosinistra si preparano a regalare a una destra post-berlusconiana (?) ancora più incarognita.
A pagare dovrebbero essere non gli “evasori” genericamente intesi ma i “ricchi”, le grandi imprese, le banche, proprio quei soggetti a favore dei quali lo Stato storna ricchezze grazie ai compiacenti governi di centro-sinistra e a sindacati sempre più complici dell’andazzo generale che buttano acqua per spegnere qualunque fiammella di resistenza minimamente seria della propria base sociale di riferimento. Oltretutto, di riduzione delle tasse i sindacati parlano, ma in definitiva solo per le imprese in maniera consistente (v. i vari cunei fiscali). Ciliegina sulla torta, di fronte ai blocchi dei “forconi”, Camusso annuncia un ripensamento sull’arma dello sciopero generale…
Tasse, welfare, debito
C’è poi un’ulteriore fondamentale questione. La jacquerie anti-tasse, suona l’obiezione, non mette in forse la tenuta del welfare? L’obiezione se avanzata dal “partito delle tasse”, da Repubblica a Monti, da Napolitano-Letta alla trimurti sindacale, sfiora l’ipocrisia piena. Uno, perché a minare la spesa sociale in tutte le sue forme (spesso anche clientelari, va da sé, a oliare partiti, sindacati ecc.) sono processi strutturali del capitalismo che stanno ribaltando definitivamente il compromesso sociale stabilitosi in Occidente nei trenta gloriosi: globalizzazione, delocalizzazioni, privatizzazioni, finanziarizzazione, mercificazione totale delle attività, ecc. Tutto opera di “bottegai” e partite Iva? Suvvia… Due, perché il maggiore peso fiscale sulla società -si noti: nessuna seppur minima compensazione tra “padroncini” e operai è in atto e sarai mai attuata con questi chiari di luna- non va affatto a rimpolpare una spesa sociale intaccata da tutte le parti, ma serve esclusivamente a stornare risorse dal lavoro, di ogni tipo, verso la finanza. Pure ammesso che si tolga (selettivamente) agli evasori, lo si fa insomma per dare ai ricchissimi di Wall Street&c.
Non si tratta di negare che siamo in presenza di un terreno scivoloso né gli effetti perversi di ridistribuzione frutto (consapevole) del passato, che talaltro sono oggi usati dai governi per incentivare guerre tra i poveri. Il punto cruciale e discriminante è far emergere la questione: tasse pagate da chi, a chi, per che cosa? Da un lato abbiamo lo stato: vettore attivo e interessato (non passiva marionetta) della rapina sul lavoro e sulle risorse della società a favore della finanza e della grande impresa, strettamente intrecciate, e sempre meno in grado di rispondere ai bisogni sociali. Dall’altro, abbiamo la possibilità-necessità di un punto di vista di classe che si contrapponga al suicidio che il “partito delle tasse” chiede ai proletari in nome del pagamento del debito pubblico come “bene di tutti”. La possibilità-necessità di costituire un fronte ampio di resistenza immediata alla crisi e insieme di elaborare una prospettiva più generale che ragioni su come ripensare e praticare la lotta sul salario-reddito insieme alla lotta sulla rapina fiscale, la lotta al debito come sintesi suprema dell’espropriazione della vita insieme alla ricerca di un’alternativa di sistema.
4.2 – Nazionalismo?
Quello che abbiamo visto, là dove il 9D si è dato con le caratteristiche che abbiamo descritto, non si può definire un movimento nazionalista. Ma questa tesi necessita di essere contestualizzata a evitare esagerazioni in un senso o nell’altro, e sempre tenendo conto delle possibili dinamiche che restano a tutt’oggi aperte.
Il 9D non ha avuto, o non ha avuto come principale impulso, rivendicazioni specifiche ma una generica invocazione alla mobilitazione generale di tutto il “popolo” contro la casta dei politici che pensa solo a se stessa. La solidarietà nel popolo è invocata in nome dell’appartenenza alla comunità nazionale, e la principale accusa alla casta è proprio quella di non occuparsi del bene generale del paese. Per chi scende in piazza l’Italia è, dunque, quel legame comune collettivo in nome del quale chi ha bisogno invoca aiuto e che dovrebbe indurre gli altri a rispondere positivamente a questa richiesta di aiuto. Lo sventolio del tricolore -qua e là anche nelle mani di qualche immigrato- ha innanzitutto, ci pare, questa connotazione (non l’unica, certo). Italia, bandiera nazionale e inno non sono significanti vuoti, ma al tempo stesso neppure forti e ben definiti, segnalano piuttosto pulsioni, spinte alla ricerca di una qualche identità comune da far valere per un contro e per un insieme-con.
La mobilitazione, infatti, è nata sulla base del bisogno elementare che i settori mobilitati avvertono con maggiore urgenza: così non si può più andare avanti. La crisi morde, i governi spargono sale sulle ferite e non fanno nulla per fermare il declino, proprio e dell’Italia, non fanno nulla per sollevare dal precipizio intere fasce di popolazione immiserite e/o in via di immiserimento. Non si può andare avanti così, è la prima necessità. La seconda è che c’è bisogno di un cambio radicale, vero, che nessun soggetto politico esistente garantisce per davvero. Non c’è chi possa dare rappresentanza a questi bisogni. Per questo urge una mobilitazione generale, un popolo in movimento, che forse mobilitandosi saprà precisare rivendicazioni, programmi, progetto, strumenti per realizzarli. D’altronde i soggetti che una volta erano i naturali catalizzatori di ogni seria protesta sociale sono oggi del tutto incapaci non solo di rappresentare un’alternativa, ma anche solo di dare seguito alle proprie, per quanto blande, critiche alle politiche governative: non c’è più una “sinistra” in grado di accompagnare con serietà una seria protesta, né ci sono più sindacati in grado, a loro volta, di organizzarla.
Su questo sfondo comune, all’incrocio tra disperazione e bisogno di solidarietà e azione, compare una affermazione di dignità, confusa, dimessa, timida rivendicazione di sovranità contro la percezione di spossessamento generale. La paura di declassamento per alcuni, di vero e proprio impoverimento per altri lascia dunque lo spazio a molti, anche opposti, esiti.
Se il movimento spontaneo non è nazionalista, ma si limita a invocare l’appartenenza alla comune nazione allo scopo di mettere innanzi un vincolo comune sulla cui base invocare la solidarietà di tutti e di ciascuno, c’è ovviamente chi vi interviene per indirizzarlo decisamente in senso nazionalista. Su questo piano il discorso non può essere semplificato né ridotto a problema di contenitori organizzativi ambigui (o fin troppo chiari) ma va impostato nel quadro delle spurie e tortuose dinamiche sociali nella crisi, oggi e soprattutto domani. Il vero discrimine della destra è l’accorpamento popolare in senso corporativo dietro la bandiera del riscatto dell’orgoglio nazionale. (E non l’inquietante ma al momento risicata presenza di fascistelli: l’allarme “al fascista, al fascista” serve qui a confondere le questioni piuttosto che aiutare a chiarirle). Su questo nodo il rischio di scivolamento nazionalista vale per qualunque reazione sociale alla crisi nei marasmi a venire, e non solo per il 9D. E richiede pertanto una riflessione più generale.
4.3 – Anti-europeismo
Possiamo dire che uno dei punti cruciali, se non il punto cruciale, nella situazione data, sul quale si giocherà lo scivolamento nazionalista o meno non tanto del 9D in sé -di cui non ci aspettiamo alcuna linearità di sviluppo- ma delle più ampie dinamiche sociali sottostanti, è la questione dell’euro. Le pulsioni anti-moneta unica interne alla mobilitazione, quelle “programmatiche” degli organizzatori ma soprattutto quelle spontanee, sono sotto gli occhi di tutti. Non senza atteggiamenti contraddittori, dicevamo sopra, perché se è vero che si sta diffondendo trasversalmente ai diversi strati sociali l’idea che l’uscita dall’euro sia una possibile soluzione al declino produttivo e dei consumi, è anche vero che spesso nei medesimi soggetti convive la paura che i contraccolpi sarebbero troppo forti sui residui risparmi e patrimoni e soprattutto sulla tenuta complessiva del sistema italiano. Oltre alla percezione (correttissima) che, lasciata all’attuale classe politica e grande-imprenditoriale, l’uscita dall’euro gioverebbe di nuovo ai soliti noti. Non è un caso che nel 9D sia emersa in prima linea un’istanza, confusa quanto si vuole, anti-ceto politico e anti-governo, debole segnale di un nodo politico ineludibile (anche per i movimenti antagonisti) che rimanda alla questione di chi gestisce le “transizioni”, alla questione cioè del potere.
Ora, sul terreno dell’orientamento anti-euro si stanno posizionando quelle forze che fanno dell’accorpamento popolare dietro la bandiera del riscatto nazionale -che è, dicevamo, il vero discrimine di una politica di destra- il perno della risposta alla crisi. Lasciamo da parte, sul centro-destra, un malandato cavaliere, che al massimo può oggi blandire queste pulsioni ma solo per farne una merce di scambio nel gioco elettorale e nel timido tentativo di ricontrattare la politica di risanamento con la Ue.
Grillo e oltre
L’impostazione ad oggi più coerente e “attraente” di questo nazionalismo, con il tentativo di innervarlo nelle mobilitazioni “dal basso”, è quella di Grillo. Non ha caso è l’unico che ha in qualche modo interloquito col 9D di cui pure ha temuto l’eventuale radicalizzazione. Non da ora parliamo di ambivalenze, materialmente fondate, del suo movimento e più in generale delle pulsioni sociali ad esso sottese, e dell’inevitabilità che esse vengano in futuro sciolte distinguendosi e contrapponendosi tra l’opzione (Grillo) di rivitalizzazione “dal basso” della nazione e del capitalismo italico e la ridislocazione di soggetti, tematiche, prospettive su un terreno potenzialmente antagonistico al capitalismo, opzione che richiede un grande movimento di massa e “di classe” che rimetta all’ordine del giorno cosa si produce, in che modo, in quale prospettiva.
Nell’attuale frangente, i passaggi si sono fatti più stretti senza che per questo si siano già create le condizioni materiali generali per lo scioglimento di quelle ambivalenze. Da un lato, Grillo (v. ultimo V-day di Genova) non perde occasione per attaccare gli “altri”, in particolare Berlino -nelle immagini iperrealiste del suo sito Merkel appare stabilmente supportata dai panzer hitleriani- e ovviamente Bruxelles come i soggetti della “dittatura” che impedirebbe all’Italia di riprendere in mano i propri destini. Al tempo stesso, a questa denuncia fatta per la salvezza della nazione si affiancano non solo il que se vayan todos, ma anche le proposte del reddito di cittadinanza come argine contro un lavoro che è diventato la modalità principale di ricatto per far accettare alla gente tutto il peggio possibile, e di ricontrattazione del debito pubblico. Ambivalenze non ancora sciolte, dicevamo, che il politico genovese sta cercando sempre più di curvare in un senso determinato, nazionalista appunto. Non perché la sua denuncia non abbia appigli effettivi nella situazione reale e nelle politiche della Ue, ma perché prospetta una (illusoria) via d’uscita per un’Italietta in salsa green, tutta rete, politica cheap e piccole imprese, magari anche grazie al toccasana (!) della svalutazione competitiva di una riesumata liretta. Quanto al tema debito, anche solo per una sua ricontrattazione (non diciamo: cancellazione) lo scontro non sarebbe solo con gli “altri” ma dentro la benamata “patria”, contro gli speculatori “nostri” grandissimi grandi e medi, uno scontro… di classe.
Una volta imboccata la traiettoria nazionalista, difficile che possa essere Grillo a portare fino alle ultime conseguenze il discorso. Non solo perché teme la piazza, teme che lo scontro si faccia in tutti i sensi duro, ma perché entrerebbero inevitabilmente in gioco a quel punto player ben più consistenti, interni ed esterni. Il nazionalismo infatti si autocelebra come alternativo alla globalizzazione (nei gruppi di destra: “mondializzazione”) mentre ne è invece il naturale corollario in quanto è in grado di spingere oltre ogni limite la competizione, che è appunto il sale della globalizzazione, rivitalizzandola “dal basso”. Spinge dunque allo scontro esterno, cercando di evitare quello interno, proprio mentre pretende di “proteggere” la nazione. Un nazionalismo estremo dovrebbe allora cercare di chiudere rigidamente il capitale entro confini nazionali. Cosa che è oggi molto più difficile di ieri, ma anche ieri l’autarchia è stata possibile solo come preparazione, più o meno lunga, a un conflitto militare, cioè all’esplosione completa della dinamica della concorrenza tra stati. Se per il lavorio ai fianchi statunitense oltrechè per la miopia delle borghesie continentali dovesse fallire il progetto regionale europeo, assisteremo a un riaprirsi accelerato, in forme difficili oggi da prevedere, di una dinamica in qualche modo analoga. Avremo allora altri grilli per la testa…
Intanto a “sinistra” …
Il problema è che molti di questi temi sono in un certo qual modo propri anche di buona parte della “sinistra” (non parliamo qui ovviamente del centro-sinistra europeista fautore dell’austerity) che di conseguenza si trova e sempre più si troverà in difficoltà a contendere alla destra la direzione di certe mobilitazioni e, più in generale, a impostare la lotta alla crisi su un terreno adeguato.
Basta vedere la piega che hanno preso anche su questo versante la denuncia delle politiche di Bruxelles e le discussioni sulle colpe dell’euro e sul recupero della “sovranità monetaria nazionale” come presupposto di un’uscita dalla crisi che tenga conto delle necessità popolari. Come se fosse l’euro preso a sé responsabile dell’appropriazione delle ricchezze sociali da parte dei possessori di grandi capitali. Come se i possessori di grandi capitali fossero solo stranieri e non ci fosse una cospicua classe di italiani che partecipa a pieno titolo alla spartizione della rendita e dei profitti concentrati da tutto il mondo verso le piazze e le istituzioni finanziarie occidentali. Come se prima dell’euro il “popolo” avesse sovranità monetaria sulla lira al punto da farne una moneta utile a se stesso e non fosse invece utilizzata dal grande capitale nazionale via svalutazione competitiva (quella che economisti di “sinistra” propugnano anche sulle pagine del Manifesto) per migliorare la propria competitività anche a spese dei salari e del lavoro autonomo!
C’è poi un ulteriore dato che questa “sinistra” condivide bellamente con la destra. Queste spinte in senso nazionalistico sono, per lo più, anti-UE e anti-Germania piuttosto che anti-Usa. Quest’ultimo paese invece gode di un diffuso (e trasversale) apprezzamento perché starebbe adottando misure anti-crisi che tengono al riparo “ceti medi” e “ceti deboli” (!) ed evitando le politiche drastiche di riduzione del debito. Nessuno sembra vedere lo scontro titanico che si svolge nell’arena mondiale sulla predominanza del dollaro, moneta che rischia di essere trascinata nella crisi nordamericana (su tutti i piani enormemente più grave di quella europea), e sulle aggressioni ai danni di chiunque cerchi di creare alternative al dollaro. Nessuno vede come le politiche Usa di ulteriore aumento del debito pubblico e privato non provochino, all’immediato, conseguenze disastrose per il solo motivo che il dollaro continua a succhiare ricchezza a tutto il resto del mondo e solo fintanto che vi riesca. Nessuno vede come le avances all’Europa a non incaponirsi sull’austerity abbiano il nemmeno recondito scopo di indebolire l’euro impedendogli, appunto, di divenire un serio concorrente del dollaro.
Perché si preferisce non vedere? Perché toccherebbe prendere atto che l’avversario non è Merkel o Obama, ma che entrambi rappresentano la feroce istanza di uno stesso sistema economico, il capitalismo, che in Usa come Europa, Germania come Italia, ha una sola (e non certa) speranza di risollevarsi: innalzare sopra ogni limite fisico lo sfruttamento nelle officine di tutto il mondo, fordiste e postfordiste. Perché si preferisce illudere e autoilludersi sulla possibilità di un nuovo New Deal “dal basso”, di politiche sociali keynesiane e quant’altro. (Questa illusione vale anche per chi, pur partendo da una critica al sovranismo nazionalista, finisce col riproporre ricette analoghe, magari con etichette nuove come la “moneta del comune” (!), pensando che per il solo collocarle su un piano europeo – “a prescindere” da cosa può o non può essere l’Europa – esse acquisiscano un segno qualitativamente differente; e comunque anche qui si tifa per… ricette à la Fed contro Bundesbank).
Non si tratta, va da sé, di disertare il terreno della lotta ai poteri forti europei per una ricontrattazione dura sul nodo del debito. Solo che lo scontro sarebbe da subito anche e soprattutto con la finanza transnazionale e i suoi garanti politico-militari a stelle e strisce. E l’obiettivo non sarebbe quello di rimettere in sesto l’economia nazionale “reale” (come da proposte non del solo M5S), ma di intraprendere un percorso di riappropriazione effettiva dei modi in cui produciamo e riproduciamo le nostre condizioni di vita. Non per una semplice strategia di uscita dalla crisi, insomma, a favore in ultima istanza dei soliti noti, ma per una strada altra.
In mancanza di ciò, la “sinistra” sempre meno sarà in grado di contrastare le diverse varianti del nazionalismo per il semplice motivo che -a suo modo, coi suoi referenti sociali (effettivi o presunti), coi suoi “valori” – vi resterà immersa o vi sarà trascinata.
PROVVISORIE CONCLUSIONI
Qualcuno continuerà a pensare che facciamo “sociologismo d’accatto”, altri che pecchiamo di “programmismo”. Poco male.
Torniamo al 9D. È inevitabile che una mobilitazione, ma domani un movimento, originata da “ceti popolari” immiseriti diventi strumento di rilancio del nazionalismo? No, non c’è nessun automatismo in una tale possibile deriva, ma essa può determinarsi per assenza di una credibile alternativa antagonista. Quest’ultima è possibile solo se si innestano dinamiche sociali profonde, e un intervento soggettivo in e su di esse, che scompongano e ricompongano i soggetti lungo rinnovate linee “anti-sistemiche”. Partendo dai terreni che si danno e non da quelli che in astratto ci piacerebbero.
Oggi il 9D nelle sue apparizioni più significative e anticipatrici non rappresenta una “mobilitazione reazionaria di massa”, per i motivi che abbiamo cercato di illustrare. Più che rappresentare già oggi il ricompattamento di un blocco sociale di destra, segnala lo sgretolamento accelerato del blocco di destra che fu (berlusconiano, leghista, “meridionalista” ecc.) e un vuoto sociale e politico, vuoto che prima o poi verrà colmato. Per questo motivo, per il quadro complessivo della crisi, per le pulsioni all’opera, non si può escludere che domani qualcosa di simile al 9D possa diventare, insieme ad altri, un tassello di quel tipo di mobilitazione a supporto di un progetto chiaramente di destra, sul tipo di quello portato avanti in Francia da Marine Le Pen (più che sulla riedizione di vecchie formule fasciste, che svolgeranno comunque il loro ruolo di disturbatori e, scusate l’espressione, specchietto per le anime belle di sinistra). Così come non si può escludere, altra ipotesi, che si vada verso la disgregazione politica, al tutti contro tutti, niente affatto impensabile in un quadro in dissoluzione come quello italiano.
Lavorare per un’alternativa a queste derive è questione di forze, programmi e congiunzioni oggettive (economiche, sociali, anche geopolitiche).
Non possiamo nasconderci le debolezze al momento del nostro potenziale fronte e i limiti delle pur generose o promettenti risposte alla crisi a scala globale. Non sono dovuti in prima istanza a chi le guida (o, nella nuova versione in voga a sinistra, ai “tappi” che tratterrebbero il loro manifestarsi). Anche nei punti più alti – come in Egitto – i limiti si sono rivelati intrinseci alle dinamiche e potranno essere superati solo in un percorso che sarà tortuoso e spurio. In Occidente, la speranza che il passato di relativo benessere ritorni è forte, e cancella o sovrasta al momento ogni spinta anti-sistemica della massa. Dall’inizio della crisi abbiamo visto schiere di operai salire sui tetti per avere un “bravo manager” o chiedere educatamente considerazione a chi detiene le leve del potere; oggi vediamo settori di “ceto medio” affiancate da nuovi poveri iniziare a muoversi ma, nondimeno, limitarsi a chiedere più attenzione per sé stessi, o al più un radicale mutamento del potere politico, non ancora del sistema economico.
Per supportare le proprie rivendicazioni ognuno dei soggetti in movimento argomenta che la loro realizzazione gioverebbe a “tutti” e all’intero sistema: tenete aperta la “nostra” fabbrica perché è produttiva, avanzata, ecc., consentiteci di conservare la nostra attività produttiva o di servizi perché senza di essa ci sarà un impoverimento per tutti, ecc. C’è il sentore che le soluzioni alla situazione devono in qualche modo essere “comuni” ma si intende questo “comune”, simboleggiato non a caso dalla nazione, come tutto interno a questo sistema di vita e di produzione, ciò che lo rende illusorio e anzi terreno di rischiose contrapposizioni tra un “noi” e un “voi” con cui invece si tratterebbe di costruire una lotta, appunto, comune.
Il terreno, però, i nodi, le questioni sono proprio quelle che stanno emergendo pur in modo così spurio e confuso. Certo, solo se entrano in campo altre e più ampie forze sociali, e in primo luogo i soggetti giovanili, in grado di immettere nelle lotte elementi di cooperazione anche solo embrionalmente anti-sistemici, mobilitazioni come il 9D, e non solo, potranno evitare una certa deriva. Anche per questo era, e sarà, importante “sporcarsi le mani”.
Del resto con l’incedere della crisi momenti di rottura di questo clima di soggezione si sono cominciati a vedere anche in Italia. Le lotte nel settore della logistica, il #19ottobre, lo sciopero dei trasporti di Genova, le resistenze dei No Tav, No Muos e del movimento campano contro i veleni dei rifiuti: nessuna di queste lotte è in grado di produrre, di per sé, lo scatenarsi di una resistenza sociale più estesa, ma in ognuna di esse si è manifestato un aperto segno di classe, una separazione di “noi” e “voi” che non ha il carattere di “noi italiani” e “voi stranieri”, oppure di “noi onesti a-politici” e “voi disonesti politici”, ma “noi che viviamo” e “voi che vi arricchite fino a distruggere le nostre vite”. Ora, il punto cruciale che il 9D ha segnalato è che in quel “noi” ci può stare una amplissima varietà di soggetti accomunata da un’unica condizione sociale: forza-lavoro di fatto proletarizzata, rigidamente dipendente da chi muove le leve del capitale, anche quando ti fa credere che godi di autonomia economica o cognitiva, e vita espropriata. E comincia a starci anche una crescente umanità che per il sistema è irreparabilmente superflua, neanche più esercito industriale di riserva ma vera e propria eccedenza inutilizzabile anche come massa per ricattare chi lavora.
A “noi” non lasciarci sfuggire di mano, per minoritarismo inconsapevole o meno, le occasioni che verranno, e per quanto possibile lavorare a non contrapporre ma unificare chi è “più avanti” con chi è “più indietro” o, anche, rischia di andare da tutt’altra parte. La lotta NoTav ci ha insegnato anche questo.
InfoAut_Torino
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