Amazon: Quando la merce danza automatizzata sul lavoro-tapis roulant
Dossier di inchiesta su Amazon, la più grande compagnia del mondo di commercio elettronico (Internet-based retailer) e cloud computing.
Nata come negozio online di libri a Seattle nel 1994, Amazon si è progressivamente espansa sia aprendo numerose filiali in vari paesi che diversificando in maniera vertiginosa il suo parco-prodotti (oggi sono svariate decine di milioni le tipologie acquistabili). È stata una delle aziende simbolo della bolla speculativa delle cosiddette dot-com a fine anni Novanta, ma dopo il suo scoppio si è ripresa nel giro di pochi anni. Tanto che oggi Amazon è la quarta compagnia più importante al mondo, la prima tra quelle online, e l’ottava per numero di dipendenti negli USA.
Una delle variabili decisive dell’ultimo decennio è stata la torsione impressa al suo business. Amazon è infatti progressivamente passata da “semplice” Internet company a una complessa Logistics company. Non a caso due anni fa ha superato Walmart quale primo attore nella distribuzione negli Stati Uniti; ha iniziato a proporsi quali trasportatrice diretta di merci in traversate oceaniche per alcuni suoi prodotti; ha pochi mesi fa acquistato per quasi 15 miliardi di dollari Whole Foods Market, incrementando enormemente la propria potenza distributiva e compiendo un ulteriore passo di “materializzazione”. Amazon sta infatti usando la logistica per compiere un nuovo salto nella “rivoluzione della distribuzione” che da alcuni decenni sta cambiando volto alle economie capitalistiche. Sempre più infatti la distribuzione, una volta considerata come una semplice funzione subordinata al momento produttivo, tende a prendere le redini dell’intero processo (del ciclo del capitale, avrebbe detto Marx). Il momento produttivo infatti deve sempre più seguire in subordine i ritmi della distribuzione a scala globale e adeguarsi ai suoi standard. Non a caso Amazon si è sempre più specializzata e diversificata nelle sue attività, fin quasi a prefigurare forme monopolistiche.
Tutto ciò è reso possibile anche da una possente attività di lobbying (sul quale investe decine di milioni l’anno) e a una spregiudicata politica di uso delle legislazioni locali per sfuggire dalla tassazione – non a caso in Europa ha attualmente la propria sede principale in Irlanda, che consente la minor tassazione alle multinazionali, ed è stata da poco accusata di una maxi-evasione in Italia.
Amazon si è inoltre resa famosa per il suo ampio ricorso a robot e automazione (fino al suo “sogno” delle consegne via drone), alla digitalizzazione del lavoro, nonché alla capacità di organizzare le proprie infrastrutture con una specifica “intelligenza urbana” atta alla circolazione (ne abbiamo parlato qui) e per il saper mettere a valore conoscenze diffuse appoggiandosi alle istituzioni (emblematico l’Amazon Innovation Award, che ad esempio all’università di Torino ha proposto un concorso – con in palio un viaggio per andare a trovare i vertici aziendali a Seattle – per sviluppare un modello per la movimentazione merci il più veloce ed economico possibile tra Piacenza e Torino).
Il lavoro di Amazon
Il modello-Amazon è tuttavia ormai noto anche per le pessime condizioni i lavoro e per il suo impegno anti-sindacale che diffonde con la sua espansione globale. Il lavoro è infatti trattato come variabile che deve tendere ad essere eliminata, rendendolo dunque “brutale”, con svariati episodi ormai noti che vanno dal “ho visto piangere al loro desk quasi tutti i lavoratori” al fatto che i tempi di lavoro sono talmente contingentati che non si va nemmeno in bagno durante il lavoro o che i lavoratori, costantemente monitorati elettronicamente, sono costretti a “diventare maratoneti” all’interno dei magazzini. Ancora: «Se lasciate l’esercito, avete perlomeno queste qualità. E potete mettervi al servizio di Amazon» riporta il sito Amazon Carrière, dedicato alle assunzioni, considerando che il lavoro nei magazzini può comportare il percorrere 25 chilometri al giorno sollevando pesi, mansione più militare che operaia. Non solo. In giro per il mondo questa nomea di Amazon si è arricchita di episodi come l’uso di guardie neo-naziste per controllare i lavoratori migranti in Germania.
Tutto ciò ha prodotto anche una serie di resistenze e lotte: dalla stessa Germania in connessione con la Polonia, passando per l’Inghilterra – dove la BBC ha dedicato un significativo servizio al lavoro dentro Amazon) e la Francia (qui è possibile seguirne alcune, mentre sul contesto francese va segnalato il testo di Jean-Baptiste Malet, che si è “infiltrato” a lavorare per Amazon scrivendo quindi il testo “En Amazonie” (tradotto anche in italiano e, per i “paradossi” della nuova economia, ovviamente acquistabile su Amazon), sino ad arrivare a portare le proprie turbolenze in India e Cina. In definitiva, si può ben sostenere che più che la facciata di automazione e innovazione, la base sulla quale è costruita l’attuale fortuna di Amazon è lo sfruttamento sempre più intensivo del lavoro, che la rende a so modo emblematica del momento attuale (si veda The Amazonization of Everything). In questo senso l’immane flusso di merci movimentato globalmente da Amazon scorre su una miriade di lavoratori macchinizzati e schiacciati dal suo peso, ridotti a tapis roulant.
Tuttavia, proprio questo suo essere capifila dei nuovi modelli di sfruttamento e organizzatrice di molti di quelli che il linguaggio logistico definisce come choke point (ossia i punti di concentrazione e ingorgo per il quale devono transitare le merci), rende Amazon particolarmente interessante dal punto di vista delle lotte (in proposito si veda “Organizing the Choke Points. Workers in the rapidly transforming logistics industry have potentially enormous political and economic power”). Per questo motivo abbiamo sviluppato un approfondimento su Amazon Italia, tramite una visita al suo principale hub a Castel San Giovanni (Piacenza) – qui un pdf con le “note etnografiche” complete prese al suo interno – e attraverso l’intervista a un lavoratore che lavora per Amazon in Veneto – qui il pdf completo dell’intervista.
Ristrutturazioni logistiche
Prima di addentrarci nel discutere di questi due passaggi, è bene sin da subito esplicitare che entrambi paiono confermare alcune delle ipotesi che avevamo sviluppato mesi fa (si veda qui e qui) attorno alle linee di tendenza sullo sviluppo dell’attuale settore logistico italiano, in preda a una complessiva (seppur lenta e parziale) ristrutturazione anche a fronte del processo di lotta e organizzazione attivo da molti anni al suo interno. Ossia: più che nell’investimento tecnologico (solo limitato), pare si stia assistendo piuttosto a un uso tattico della “mobilità dei magazzini” in cerca di nuovi bacini di mano d’opera, di una nuova composizione lavorativa che, quantomeno nelle ditte più importanti, affianchi alla più consolidata forza-lavoro razzializzata un nuova componente autoctona. Quest’ultima, figlia della stagnazione e col cappio della disoccupazione, può infatti garantire maggiori livelli di accettazione rispetto al lavoro migrante, anche attratta da una nuova veste della logistica che tenta di presentarsi come cool e smart (e in questo Amazon è regina). Inoltre dall’osservazione nel magazzino e dall’intervista emerge una evidente continuità con una delle caratteristiche che stiamo rilevando come costanti nei vari Stralci di inchiesta (qui l’ultimo) sinora pubblicati a prescindere dal luogo di lavoro. Ovvero come il tempo di vita e di lavoro sia sempre più messo a totale servizio del datore di lavoro, che ne dispone a proprio piacimento con sempre meno vincoli, manifestando in ciò una delle più dure condizioni di comando politico sul lavoro. Ciò non va confuso con l’ormai lunga discussione sulla “vita messa a lavoro” che rimanda alla valorizzazione di capacità timiche, affettive, relazionali ecc… e allo sfasamento della giornata lavorativa. Si tratta piuttosto di indagare proprio come si sviluppa un comando che rende possibile utilizzare il lavoro “alla spina” (avevamo adottato qui tale metafora), ossia attivandolo a piacimento e quasi senza limiti orari.
Rispetto alla “mobilità dei magazzini” si assiste invece alla capacità delle aziende logistiche (localizzate soprattutto al nord Italia) di utilizzare a proprio vantaggio il tessuto urbano della megalopoli padana (si veda qui per il “disastro della pianura padana”). Decenni di sviluppo neoliberale del territorio hanno infatti punteggiato la valle del Po di una fitta trama di infrastrutture e di capannoni industriali oggi spesso in disuso, che consentono dunque alle aziende una fluidità nello spostarsi che consente loro grandi vantaggi.
Intervista a un lavoratore
Vediamo più nel concreto queste affermazioni. L. ci dice che
«ero venuto a conoscenza che proprio in provincia di Rovigo ci sarebbe stata questa nuova realtà di Amazon, che avrebbe “preso in gestione” questo super-mega-magazzino – costruito qualche anno fa per ospitare Ikea, cosa poi non andata a buon fine. […] mi sono quindi candidato tramite agenzia interinale portando il curriculum, e qualche mese dopo la messa in funzione del magazzino mi hanno chiamato per una settimana di prova. Siamo a settembre 2016 (il magazzino aveva aperto a pieno regime a giungo). I primi quattro mesi li ho fatto sotto l’agenzia interinale, che all’inizio mi rinnovava di settimana in settimana, poi di due in due, e a novembre-dicembre ho avuto un contratto di due mesi perché era il periodo subito antecedente al Black Friday e poi al periodo natalizio. Da gennaio 2017 mi hanno proposto un indeterminato per una cooperativa che si occupa di logistica e ha sede a Milano, e sono entrato a far parte della cooperativa che gestisce il personale all’interno del magazzino. Il magazzino è di proprietà di una ditta di logistica francese, Geodis, la quale l’ha concesso in affitto a una società terza, una sorta di start up, che ha preso l’appalto di Amazon per questa zona logistica dell’Italia: le Tre Venezie (Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino) e poi controllano anche le province limitrofe di Emilia Romagna e Lombardia».
Rispetto alla composizione del lavoro afferma: «tutti i dipendenti Amazon qui a Rovigo sono di nazionalità italiana. Loro per partito preso non assumono stranieri. L’età media è molto bassa […] Io sono uno dei pochi ad avere una laurea. Gli altri, non vorrei essere dispregiativo, chiamiamoli “campagnoli”, gente che non ha studiato, senza elevatissima cultura, quindi gente che ha una sorta di riverenza nei confronti del “padronato”. Quindi tutta gente che preferisce restare molto col paraocchi e la testa bassa, dire sempre sì. Non c’è molta coscienza di quelli che sono i tuoi diritti, o delle aspettative lavorative che potresti avere».
Mentre sul “perché” della scelta di Rovigo ci dice:
«Io sono di Rovigo, so bene cosa vuol dire abitare in questa provincia: non c’è lavoro. Perché Rovigo è una provincia sì del “Veneto ricco”, ma quella con la minor parte di lavoro… Non c’è lavoro, non ci sono aziende, non è una città viva. Secondo me il fatto che loro abbiano aperto il magazzino di Amazon proprio qui è perché appunto sapevano di poter trovare forza-lavoro che non si sarebbe mai lamentata del fatto che il lavoro era pesante, o degli orari, o della paga, o delle altre mille cose, proprio perché c’era bisogno di lavorare all’interno di questa provincia. E infatti, io l’ho anche visto sulla mia pelle, quando ho iniziato noi eravamo in 15, attualmente siamo rimasti in 2: chi ha mollato dopo il primo giorno, chi dopo una settimana, chi loro hanno lasciato ha casa perché hanno deciso che non andava bene… La settimana dopo ne arrivavano altri 15, la settimana dopo altri 15 ancora. Nel periodo natalizio lì dentro ci lavoravano 500 persone, poi finito il picco a gennaio ci siamo ritrovati 220, capisci quanti ne hanno lasciati a casa? Adesso per la prossima settimana di offerte hanno richiamato delle persone, e molti sono tornati perché nel frattempo non avevano trovato lavoro pur cercandolo. La gente non è che si accontenta, però insomma dice: “Questo ho e questo mi devo tenere”. […] La cooperativa e comunque l’azienda se ne stanno sbattendo però i coglioni, perché dicono: “Io intanto questi li sfrutto fino all’osso, poi un giorno magari faremo degli accordi sindacali quando succederà”».
Infine, rispetto alle condizioni di lavoro, queste alcune delle affermazioni di L.:
«Abbiamo un contratto da 39 ore settimanali e prendiamo netti 960 euro al mese. Per me è una miseria, ma proprio una miseria a livelli clamorosi… […] Riceviamo un salario non adeguato alle funzionalità che occupiamo all’interno della filiera produttiva. […] È un lavoro massacrante, non è giusto pagarlo così poco. Anche perché poi se pensiamo a quanti soldi fanno loro con qualche click su un computer per qualche ordine, non c’è proprio paragone. […] È fisico, stressante, non hai mai la sicurezza di che orari farai perché capitano spesso picchi di lavoro… Sempre straordinari, spesso il sabato e anche la domenica. Uno può anche dire di no, ma viene mal visto dai capoccia. Conviene sempre abbassare la testa e dire: “Ok vengo; ok faccio due ore di straordinario; ok, va bene, ci sono”. […] Noi non abbiamo la certezza però di sapere gli orari, ci vengono sempre comunicati il giorno prima per il giorno dopo. Non abbiamo mai una certezza sull’orario, sappiamo indicativamente le ore che andrà a ricoprire. […] Loro possono decidere arbitrariamente quando farti andare a lavorare. Che è una cosa che io non sopporto e che non sta né in cielo né in terra secondo me, però è così. […] Si vive quindi sempre con l’angoscia, non c’è mai certezza sul lavoro, non puoi organizzarti la tua vita al di fuori del lavoro».
Dentro Amazon: visita a Castel San Giovanni
Passando invece alla visita svolta al Fullfill Center (ossia il magazzino nella neo-lingua amazonese) di Castel San Giovanni. Il magazzino piacentino è il primo e più grande magazzino di logistica di Amazon, sul quale convergono tutte le merci per il mercato italiano. Amazon Italia viene fondata nel 2011, e il primo magazzino era in affitto e collocato all’interno dell’Interporto di Piacenza, con 150 dipendenti. Il nuovo edificio costruito direttamente da Amazon su una superficie di 100mila mq ha 1300 dipendenti (età media 31 anni) che organizzano e smistano una gamma enorme di categorie merceologiche (sul sito amazon.it sono attualmente disponibili 36 milioni di referenze, anche se i prodotti più venduti sono i libri e i giochi), che in sostanza escludono solo i prodotti troppo ingombranti (come ad esempio i frigoriferi) che renderebbero ardua la consegna e la gestione. Recentemente si stanno anche introducendo nuove categorie di prodotti, come ad esempio il cibo che, a partire da un nuovo servizio (Amazon Prime Now) per ora disponibile solo a Milano consente la consegna in un’ora, garantendo la possibilità di ordinare anche cibo fresco – la categoria più acquistata è l’acqua, a partire dal suo peso, ma sempre più persone usano il servizio per fare la spesa. Questo segnala un movimento mimetico tra lo sviluppo di Amazon e le trasformazioni quasi antropologiche di una società in cui il tempo di lavoro si dilata sempre più. Amazon è un perfetto supporto a questa estensione.
Sono attualmente in costruzione, e apriranno a breve, due nuovi magazzini: uno nel bassolese (Rieti), pensato per il mercato centro-meridionale, di 65mila mq e con la previsione di assumere 1200 persone nei primi tre anni; il secondo a Vercelli, di 100mila mq e con la previsione di 600 assunzioni (destinato a gestire prodotti più ingombranti, e necessitando dunque di meno forza lavoro). Inoltre vanno considerati i 600 dipendenti nell’Headquarter sito a Milano, vicino alla stazione Centrale, dove lavorano i Vendor Manager, ossia gli addetti alle strategie di mercato, alla gestione delle scorte, ai contatti con fornitori e corrieri e mansioni simili per i vari prodotti gestiti da Amazon. Si aggiunge il Costumer Service di Cagliari, ossia il call center con 350 dipendenti aperto nel 2013. Infine, a completare i circa 2000 dipendenti attuali, vi sono 3 centri di smistamento più piccoli. Usati per incrementare l’efficienza della consegna “di ultimo miglio” – situati a Milano, a Origgio (Varese) e Avigliana (Torino), servono anche per organizzare meglio il lavoro coi corrieri, che sono tutti esterni (non assunti né gestiti da Amazon) appartenenti a svariate aziende logistiche (come nel caso dell’intervista a L. sopra riportata). Per ora Amazon ha una propria flotta di fattorini solo negli Stati Uniti, dove lo scorso anno sono stati acquistati 20 aerei cargo per gestire il mercato sul semi-continente.
Il processo distributivo italiano è dunque al momento fortemente centrato su Piacenza, sede scelta per la sua posizione geografica centrale e per la preesistente infrastrutturazione logistica del territorio. Qui converge tutta la merce, arrivando esclusivamente su gomma, e viene organizzata durante la giornata per essere spedita nel pomeriggio/sera verso gli altri tre magazzini attualmente esistenti. Qui si procede, durante la notte, a una ulteriore suddivisione delle consegne, in modo tale che la mattina i corrieri possano prendere i prodotti già suddivisi per area. Sinora questo sistema ha avuto un picco di consegne nel cosiddetto Black Friday di novembre, con 1 milione e 200mila ordini in un solo giorno.
L’edificio di Amazon, proprio di fianco a un ingresso autostradale e davanti a un polo logistico, è un grosso parallelepipedo a quadri grigi con una linea gialla continua che lo cinge in alto. Si entra attraversando il grosso parcheggio e si viene accolti da una colonna con mani colorate e varie scritte a pennarello. Colpisce quella “Grazie Amazon per aver dato lavoro a mia madre”. Ci sono cartelli che ringraziano i dipendenti che hanno lavorato il 25 aprile e che lavoreranno il primo maggio. Ci sono alcuni dispenser con dei giornalini aziendali. Uno è chiamato “Notizie da MXP5” (che è il nome del magazzino), e all’interno (carta grossa e patinata, tutto a colori) si raccontano le storie di vita di alcuni dipendenti, si descrivono alcuni reparti meno visibili di Amazon, si narra di come Amazon ha festeggiato la festa della donna e si riporta di una iniziativa di solidarietà per Amatrice. Dai pannelli appesi con varie foto di dipendenti traspare subito l’idea di una gerarchia chiara ma calata all’interno della costruzione di una community di lavoratori. Sulle scale sono affisse varie foto di lavoratori in gruppo, e sono scritte varie frasi aziendali per motivare e sostenere la “comunità”. Su un ampio foglio appeso al muro è possibile scrivere problemi lavorativi e proposte di migliorie, con tanto di risposte scritte o prese in carico. Di sottofondo un suono continuo delle catene di prodotti che scorrono, mentre passano vari lavoratori che indossano una divisa fatta a catarifrangente.
Organizzazione del magazzino
Tutti i giorni i lavoratori cambiano mansione, spesso anche più volte al giorno. L’architettura e l’organizzazione del lavoro sono strutturate in modo che non si crei mai concentrazione di lavoratori. Nel magazzino piacentino ci sono 40 “baie” in entrata e in uscita, ossia dei bocchettoni nei quali entra il retro dei camion per poter esser scaricato e caricato. Dalle baie dalle quali entra la merce quest’ultima viene trasferita sui pallet, quindi su ogni collo viene applicato un codice a barre e si portano questi scatoloni verso la prima linea del magazzino, dove viene tolto il packaging. Tutto il magazzino è collegato tramite questo nastro, che ha una lunghezza complessiva di 20 chilometri.
Una delle parti più importanti dei magazzini Amazon alla quale si accede dopo il primo passaggio sono le immense sale con le cosiddette pick tower, ossia le fine su più piani di scaffalature all’interno delle quali vengono riposti i prodotti in maniera rapsodica. È uno spettacolo fantasmagorico delle merci. Oggetti di ogni tipo sono disposti in maniera random uno di fianco all’altro. La casualità della disposizione (si possono veder accostati simpaticamente una bibbia e un dvd pornografico, una padella, un cd, un orologio ecc…) è dovuta al fatto che per l’operaio è molto più difficile in questo modo sbagliare prodotto quando deve venire a prelevarlo. Ma lo stockaggio randomizzato è anche pensato perché, seguendo una teoria del caos dei giochi, la casualità dovrebbe consentire una maggiore probabilità che allo stesso piano della torre il singolo operatore possa più facilmente trovare più prodotti ravvicinati. In questa sezione del magazzino il lavoro consiste nel girare con grossi carrelli della spesa nei quali vengono inserite le stesse ceste nere e gialle che arrivano dal nastro. I lavoratori si muovono sui quattro piani della torre inserendo negli spazi che trovano vuoti, e in maniera appunto casuale, i prodotti che arrivano. Quindi tramite “la pistola” (strumento simile a quella che si usa alla cassa automatica dei supermercati) associano a ogni prodotto (che ha già il proprio codice) la location dove esso viene riposto. La seguente fase produttiva è quella di pick (prelievo prodotti). Il passaggio successivo della catena è un’altra immensa area dedicata all’imballaggio, organizzata su vari livelli e con numerose postazioni dalle quali partono i nastri. La linea arriva infatti a un sorter (nastro) con una fotocellula, che li smista automaticamente all’interno di grossi contenitori che corrispondono alle regioni nelle quali i pacchi dovranno essere recapitati o alle singole aziende di delivery che si assumeranno il trasporto. Vari scivoli dunque conducono a questi grossi contenitori i prodotti, e quando il contenitore è pieno esso viene prelevato e condotto verso le baie in uscita, dove vengono caricati sui camion.
Il lavoro è piuttosto frenetico, ripetitivo, il senso di alienazione è forte. Se la “propaganda” della ditta parla di un magazzino di soli giovani che lavorano a ritmo di rock, è vero che nel primo magazzino c’è musica di sottofondo, ma è decisamente coperta dai rumori della catena. Prima di uscire si nota una grossa scritta: “Amazon Fullfillment. Work hard, have fun, make history”. Su chi per Amazon debba lavorare duro, chi divertirsi, e chi fare la storia, non vi sono molti dubbi.
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