Anonymous, il ghigno virale dell’hacktivismo
L’azione diretta digitale e il supporto di alcuni gruppi hacker a favore dei movimenti sociali non sono certo una novità. Eppure Anonymous rispetto ad altre esperienze passate ha avuto un effetto dirompente, tanto da essere stato definito nel 2011 come un nuovo attore sullo scenario globale. Quali pensi siano le differenze che intercorrono tra le vecchie forme di hacktivism e quelle messe in campo da Anon?
Ci sono diversi motivi per cui Anonymous è profondamente diverso dalle esperienze storiche di hacking che lo hanno preceduto. Le prime forme di azione diretta digitale infatti erano messe in atto da collettivi ben definiti, orientati a sinistra e fondati da attivisti che si conoscevano personalmente. Anonymous, invece, si è diffuso in modo così ampio perché non si è mai preoccupato di difendere alcun tipo di purezza identitaria: al suo interno ci sono soggetti progressisti mentre altri non lo sono; ci sono persone alla loro prima esperienza politica e attivisti con 10 anni di esperienza alle spalle; ci sono hacker provenienti dal mondo dell’open source e black hat che amano violare siti web e sistemi informatici. Infine ci sono singoli individui che non possono essere incasellati in nessuna di queste categorie. Si tratta cioè di una sorta di melting pot dei geek, delle persone appassionate di tecnologia.
Non dimentichiamo poi che le origini della sua estetica sono numerose: una delle più importanti è 4Chan, la celebre image board da cui nasce l’idea di humor insita in Anonymous. Ma anche la maschera di Guy Fawkes e la sua iconografia hollywoodiana hanno un’importanza notevole perché rendono immediatamente riconoscibili e interpretabili le campagne condotte dagli Anon.
Anonymous nei suoi sei anni di vita ha mostrato una pluralità di volti. Inizialmente nelle sue azioni era ben tangibile l’idea del gioco, del «do it for fun», un concetto centrale nella cultura hacker.
Invece le campagne condotte negli ultimi anni sono all’insegna di un atteggiamento più «militaresco». Quali credi quindi siano state le differenti tappe dell’evoluzione di Anonymous?
Tra il 2008 ed il 2010 lo pseudonimo Anonymous era usato per fare trolling, ovvero elaborare e mettere in atto scherzi con cui far inferocire il proprio avversario. Dal 2010 il trolling targato Anonymous è scomparso e si è trasformato in un attivismo più serio: pensiamo alle campagne lanciate contro Israele in supporto alla causa palestinese, oppure a quelle che denunciavano la sistematica violazione dei diritti umani a Guantanamo. Questa è la ragione per cui i componenti di LulzSec – un gruppo di hacker che nel 2011 ha compiuto attacchi di alto livello contro Sony, Fox News e Cia, solo per citare alcuni dei suoi obbiettivi – hanno scelto di battezzare il loro team con un nome non riconducibile ad Anonymous: perché sapevano che si sarebbero dati all’hacking solo per divertirsi e non per sostenere una qualche causa politica.
Detto questo, se lo humor è possibile, Anonymous non rinuncerà a farvi ricorso per nessuna ragione al mondo! Il trolling infatti è una tattica comunicativa estrema che può sempre entrare nell’equazione, se la situazione lo rende possibile. Altrimenti viene usato solo in piccole dosi. Ritengo però che il lulz, il divertimento, sia ancora una componente essenziale del Dna di Anonymous.
Oggi le operazioni di Anonymous sono diminuite di numero rispetto al passato. Quali sono le cause di questa crisi? Oppure ritieni che siamo di fronte ad un momento di trasformazione?
Anonymous da pratica pubblica si sta trasformando in quella che io ho chiamato «storia nascosta». La mutazione in corso è stata provocata da diversi fattori. In Europa e Nord America gli arresti con-dotti contro numerosi hacker sono sicuramente riusciti a sortire un effetto nella comunità. Vedere Jeremy Hammond condannato a 10 anni di galera per le incursioni contro Stratfor o Lauri Love incriminato in Gran Bretagna e minacciato di estradizione negli Stati uniti, ha portato molti attivisti ad agire in modo più silenzioso, senza attirare l’attenzione.
In secondo luogo credo che molte crew di hacker siano andate in burn out. Alcune hanno compiuto azioni ininterrottamente per circa tre anni: un ritmo insostenibile alla lunga, tanto da richiedere una pausa. Torneranno? Quest’estate alcune di loro sono riapparse momentaneamente in occasione di #OpFerguson, campagna lanciata in supporto alla rivolta scoppiata a St. Louis, ma poi sono nuovamente scomparse.
È interessante però che il centro di gravità di Anonymous si sia spostato in America Latina, dove le attività di hacking non si sono mai fermate. E questo anche a causa del fatto che i paesi dell’area sono sprovvisti degli strumenti necessari per combattere il «cyber crime».
In che modo credi che Anonymous abbia influenzato le pratiche dei movimenti sociali contemporanei? Quale portato lascia loro in eredità?
Anonymous è riuscito a sfuggire al tentativo di governi ed istituzioni di rinchiuderlo nel frame media-tico del «cyber terrorismo». Nel febbraio 2012 è stato oggetto di un attacco violentissimo da parte di Keith Alexander, ex comandante in capo dell’Nsa: a suo dire gli hacktivisti avevano la capacità di provocare il black out della rete elettrica nazionale. Era vero? Certamente no. Ma il governo era pre-occupato, aveva capito che stava perdendo la battaglia della propaganda. Non dobbiamo dimenticare infatti che solo poche settimane prima trenta parlamentari polacchi avevano usato la maschera di Guy Fawkes come simbolo per protestare contro l’approvazione del trattato Acta. Le dichiarazioni di Alexander erano un tentativo disperato di porre rimedio a questa situazione. Fu una mossa inutile, dal momento che oggi Anonymous viene considerato come un supereroe mascherato, non certo un terrorista.
Questo è importante perché rende possibile la nascita di nuove generazioni di hacktivisti. Anonymous ha costruito un esempio potente per il futuro e la sua vicenda è espressione di un risveglio politico destinato a durare. Le azioni digitali dirette si moltiplicheranno, anche se saranno pubblicizzate in modo differente rispetto al passato. Esporsi pubblicamente serve per avere l’attenzione del mondo e contagiare positivamente quanti ti stanno intorno. Ma sta diventando troppo pericoloso e per questo motivo in molti scelgono di agire silenziosamente.
Aggiungerei poi che in un contesto come quello attuale, dove la privacy non esiste più e dove la sorveglianza elettronica è diffusissima, è importante la presenza di un movimento che contrasti frontalmente queste dinamiche. Sarà in grado di contagiarne altri? Lo spero, perché l’ideale anti-celebrità insito in Anonymous è importante per creare una cultura capace di opporsi a tutte quelle forze che ci spingono a praticare quotidianamente una recognition politics.
L’irrappresentabilità di Anonymous ricorda da vicino il concetto di moltitudine, sia per la sua potenza che per i suoi limiti. Senza rappresentazione infatti non c’è nessuna identità, senza identità niente unità, senza unità niente organizzazione. E senza organizzazione è difficile condurre una guerra, come invece Anonymous ha sempre sostenuto di fare.
Molte delle questioni inerenti al paradigma «moltitudinario» sono effettivamente rappresentative della realtà di Anonymous. E aggiungo anche che non credo si tratti di un movimento politico in grado di unire la gente per combattere l’austerità o le peggiori manifestazioni del capitalismo contemporaneo.
Allo stesso tempo però Anonymous ha creato una piattaforma contro tutte quelle forze sociali che inducono all’individualismo, e ha prodotto un’idea di collettivismo che non è basata su un’unica identità. È qualcosa di incredibilmente potente, ed è la prima volta che assistiamo a un fenomeno simile, nonostante molti movimenti di sinistra l’avessero teorizzato già in passato.
Non dimentichiamo infine che la ricerca e la pubblicazione di informazioni segrete può davvero essere d’aiuto per smuovere le coscienze. Pensiamo ai leak di Edward Snowden. Certo, sapevamo già della morsa di sorveglianza che attanaglia Internet! Ma avere delle prove tangibili significa creare un nuovo livello di verità agli occhi dell’uomo della strada. È difficile procurarsi documenti di quel tipo. E oggi gli unici attori in grado di farlo sono gli hacker.
di Daniele Pizio per Il Manifesto
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