Autonomia differenziata: rompere la solidarietà per liberare ancora la ferocia del mercato
Quando si parla di Autonomia Differenziata il rischio è quello di credere che dietro questa formulazione si nasconda nient’altro che il secessionismo leghista della prima ora agghindato in chiave “riformista”. In realtà quanto abbiamo di fronte è ben più complesso ed attuale.
Ancora una volta se ci si ferma alla discussione sui concetti astratti, come federalismo, autonomia, patria e stato non si può capire come possano stare insieme nel disegno del governo due riforme apparentemente in contraddizione come il presidenzialismo e l’autonomia differenziata. L’una in termini ideali dovrebbe portare ad un maggiore centralismo, l’altra invece in un decentramento dei poteri. A prima vista questo può sembrare uno strano pasticcio, ma se si inserisce la questione dello Stato nel quadro del capitalismo contemporaneo tutto diventa più nitido.
Ciò che sottolineano tutti giustamente è che questa riforma genererà ulteriore disuguaglianza su base geografica nel campo delle cure, dell’istruzione, del reddito più in generale, ma la riflessione spesso si ferma ai sintomi di qualcosa di più profondo.
Proviamo ad entrare nel merito. Il nodo della questione, aggirando le retoriche che si sono formate sul tema dell’autonomia differenziata, è che le regioni del Nord agganciate maggiormente alle catene del valore internazionali vogliono trattenere più risorse per investimenti senza dover disperdere questa concentrazione a favore della solidarietà nazionale. Non a caso le regioni che maggiormente hanno spinto (o hanno considerato l’idea di farlo) per questa riforma sono sovrapponibili alla mappa dei territori con la più grande densità di piccole e medie imprese a carattere distrettuale che dipendono da queste catene del valore: Veneto, Lombardia ed in un certo modo Emilia Romagna. In una fase in cui la competitività di queste aree è messa in discussione dalla crisi generale dell’economia europea, dalla guerra in Ucraina e dagli altri sconvolgimenti internazionali, per rimanere sul mercato queste aree necessitano di una maggiore intensità degli investimenti. Da sola l’economia distrettuale non è in grado di essere efficiente in questo quadro e dunque è necessario l’intervento del pubblico, qui nella forma delle regioni. Se andiamo a vedere le materie potenzialmente trasmissibili dallo Stato alle Regioni ci possiamo rendere conto più chiaramente di quanto stiamo dicendo, infatti oltre alla salute e all’istruzione di cui si è discusso ampiamente e su cui torneremo tra le materie vi sono: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni, commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro, istruzione, salvo l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione dell’istruzione e della formazione professionale, professioni, ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi, alimentazione, ordinamento sportivo, protezione civile, governo del territorio, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, ordinamento della comunicazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, previdenza complementare e integrativa, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali, casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Ciò significa sostanzialmente che in tendenza alcune aree del territorio italiano potranno diventare “zone economiche e produttive speciali” dove vigono norme e regolamenti atti ad attrarre investimenti.
Tornando un passo indietro: non bisogna pensare che la solidarietà nazionale fosse solo un bel ideale scritto in costituzione. Senza essere riduttivi, ma è necessario ricordare che nel quadro del capitalismo italiano delle grandi concentrazioni operaie durato fino alla fine degli anni ’70 il Sud era il principale serbatoio di manodopera del paese oltre che avere ancora un ruolo importante dal punto di vista agricolo ed alcune significative zone di sacrificio tra servitù militari, raffinerie ecc… Dunque “il triangolo industriale” si appropriava di questa manodopera a basso costo che fluiva dal Sud, ed aveva la necessità di garantire la riproduzione sociale di questo bacino di lavoratori potenziali. La solidarietà era in un certo grado sostanziante della produzione caratterizzata dalle grandi concentrazioni operaie.
L’investimento pubblico in istruzione, sanità, infrastrutture e trasporti universali che ha contraddittoriamente caratterizzato quell’epoca aveva tra le sue finalità la garanzia della continuità di questo flusso di manodopera e risorse.
Con le trasformazioni del modello industriale, delle catene del valore, la globalizzazione e le migrazioni internazionali il flusso di manodopera dal sud Italia per quanto sia ancora numericamente significativo è diventato meno importante e soprattutto meno competitivo in molti dei settori produttivi. Dunque a livello complessivo, secondo le leggi del mercato, in molti dalle parti dell’imprenditoria nostrana si saranno chiesti se l’investimento in riproduzione sociale vale la resa in forza lavoro.
In questa dinamica si aprono anche una serie di mercati sussidiari che invertono la prospettiva precedente. Se prima si investiva, almeno in parte, per la riproduzione della forza lavoro costruendo ospedali, scuole ed università al Sud, ora vediamo che è proprio la stessa riproduzione ad essere diventata una fonte di profitto. Pensiamo banalmente al numero di migranti sanitari che dal Sud (ma non solo, questa è una dinamica che si ritrova anche tra centri e province, tra città del Nord ed altre città del Nord) devono e dovranno sempre più pagare un alloggio, le cure e la permanenza in qualche centro specializzato magari privato o convenzionato in Emilia o in Lombardia. L’impatto di questa espropriazione non riguarderà solo i migranti sanitari stessi, ma anche i territori dove si trovano i centri specialistici, che assistono spesso già ora ad una lievitazione del mercato immobiliare.
Nonostante ciò non bisogna pensare che l’idea dietro l’Autonomia Differenziata sia semplicemente un Nord maggiormente competitivo sui mercati internazionali con un deserto tutto intorno. Il presidente leghista del Veneto Zaia durante un’intervista ha affermato che l’autonomia differenziata sarebbe qualcosa di positivo anche per il Sud perché sono proprio queste regioni ad avere il maggiore potenziale di sviluppo, una volta “affrancate” dalla dipendenza dallo Stato centrale si intende. Questa affermazione non è solo retorica paracula, ma va presa con le dovute attenzioni, sul serio. L’Autonomia Differenziata ha un piano anche per il mezzogiorno, o meglio facilita le tendenze che stiamo osservando sui territori del Sud e delle Isole.
Infatti se la solidarietà nazionale viene rotta ed il capitale “pubblico” si concentra al nord, le regioni del sud si troveranno sempre più costrette ad andare alla ricerca di capitali privati sul mercato internazionale che investano in questi territori per evitare di sprofondare nel burrone della totale desertificazione sociale. Ciò significherà l’intensificazione dell’estrattivismo, della predazione di risorse e della creazione di zone di sacrificio. L’autonomia differenziata va di pari passo alla speculazione energetica, alla turistificazione sempre più spietata e aprirà la porta ad altri fenomeni speculativi di cui ora possiamo solo intuire la natura. D’altronde questo “piano di sviluppo” non è un prodotto leghista, ma è scritto nero su bianco sulle carte dell’Unione Europea. Ecco che la “regionalizzazione” delle catene del valore in chiave europea ricade sull’Italia in delle forme estremamente brutali che da qualsiasi lato le si osservi sono atte ad intensificare lo sfruttamento, l’estrazione di risorse dai territori, la devastazione ambientale e la speculazione finanziaria. In poche parole l’autonomia differenziata è l’ennesimo tassello per liberare sempre di più la ferocia del mercato.
Questa ferocia colpirà in maniera diversa, ma all’interno dello stesso quadro in tutto lo stivale, ed è per questo che il dibattito non si può svolgere solo sul tema della dipendenza, sulla frattura che si amplierà tra Nord e Sud, ma bisogna riconoscere questa riforma come parte integrante di una transizione sistemica del capitalismo italiano che va affrontata e combattuta da ogni territorio in cui ci si trova. In questa transizione presidenzialismo e autonomia sono due facce della stessa medaglia, l’accentramento del comando per la facilitazione dell’economia di mercato.
Quindi no, questa non è una “secessione mascherata” è qualcosa di molto più profondo e potenzialmente più drammatico per le classi popolari di tutto il nostro paese.
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