Breaking the waves (II)
Composizione e destituzione nel recente ciclo di movimenti tra Stati Uniti e Francia
di Nicolò Molinari, da Machina
L’articolo di Nicolò Molinari si pone in dialogo con alcuni testi recenti intorno alla questione della composizione come problema strategico. Per riflettere sui limiti e sulle potenzialità di questa intuizione prende a riferimento il movimento delle pensioni in Francia, Soulevements de la Terre, la lotta contro i megabacini, e Stop Cop City ad Atlanta. Nell’evidenziare le impasse, il testo (originariamente pubblicato su «Ill Will») conclude riprendendo l’ipotesi della destituzione.
Qui la prima parte.
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Impasse
L’impasse di fronte a cui si trovano, questo tipo di lotte, in particolare di fronte a cui si è trovata dalla lotta contro i mega bacini a Sainte-Soline, al movimento No Tav in Val di Susa come in Val Maurienne, sembra essere molto simile a quella della mobilitazione delle pensioni: il cristallizzarsi di un antagonismo allo Stato che porta la lotta ad una sostanziale dialettica con esso, con il rischio di due situazioni di impasse. La prima è un recupero, depotenziamento o sconfitta del conflitto, includendo la possibilità di ottenere qualche concessione o parziale vittoria, come nel caso della Zad[1]; la seconda è invece un conflitto simmetrico, che può quindi tradursi, nell’immediato, in uno scontro diretto altamente militarizzato.
Volgendo lo sguardo verso noi stessi, verso la nostra soggettività, si affaccia il rischio di irrigidire la nostra partecipazione al movimento in una forma di militanza alienata che produce una separazione tra noi e quello che Bordiga chiamerebbe il partito storico[2], o che possiamo anche chiamare il movimento reale. Questa separazione, che potrebbe essere quella bolscevica, che vede un’avanguardia alla testa di un movimento e lo organizza, ha rappresentato una formula tattica e strategica rilevante nel Novecento e trova una riproposizione in quelle analisi strategiche dei movimenti direzionata alla costruzione di contropoteri o controsoggetti, non realizzando che il potere a cui si dovrebbe contrapporre non ha alcuna consistenza specifica ed è “anarchico”[3].
Inoltre, queste analisi si scontrano con un dato di fatto che tutte le sollevazioni della nostra epoca mostrano, l’assenza di un Soggetto politico di massa capace di centralizzare il conflitto (sempre che sia mai esistito), a cui subentra la frammentazione delle soggettività coinvolte, spesso mosse da una serie di tensioni etiche che non trovano alcun terreno comune ideologico o discorsivo e programmatico. Insomma, il noi rivoluzionario che da Hong Kong, ai Gilet Gialli, fino al Cile si compone e scompone è un noi esperienziale ed etico, non possiede linguaggio. Proprio per questo non può essere soggetto a recuperi di sorta da parte delle forme classiche della politica. Chiunque si interroghi su come può il conflitto essere rivoluzionario nella nostra epoca deve confrontarsi con questa realtà, abbandonando la nostalgia per le stagioni passate (anche perché spesso mistificate) in cui un soggetto di massa sarebbe stato motore delle lotte. Viviamo in un’epoca in cui la Classe non trova unità sociologica o politica, quanto piuttosto etica nel momento delle sollevazioni. La Classe è attraversata da una serie di vettori che la rendono socialmente frammentata, di cui sicuramente le «identity politics» costituiscono una forma piuttosto sintomatica.
Per questa ragione piuttosto che rievocare artificiosamente nuove unità sociali o politiche, ogni lotta rivoluzionaria deve fare i conti con questa frammentazione e allo stesso tempo con la natura anarchica del potere. Differentemente da quella costituente o di qualunque fantasia di contropotere, l’opzione destituente è l’unica capace di figurare una strategia rivoluzionaria in una realtà in cui le forme di rappresentazione politica sono collassate, si mantengono come poco più che simulacri[4]. Per questo un antagonismo interamente speculare a questi simulacri, non può che girare a vuoto.
Il capitale, nella sua autonomizzazione e nel suo farsi dominio reale, non si articola secondo una serie di principi astratti o egemonici. Non possiede altro principio regolativo al di fuori della sua sopravvivenza che avviene attraverso una forma di repressione violenta laddove questa si renda necessaria. Per questa ragione non ha alcun problema a mostrarsi terribilmente tragico nello schiacciare qualsiasi minaccia esso sia in grado di riconoscere. Il rapporto dialettico, caro a gran parte del marxismo, tra capitale e lavoro, è continuamente rotto dal capitale stesso, pensare di ricostituirlo in qualche forma di lotta, rievocando una nostalgia di qualche orizzonte democratico o riformista perduto, è perdente, come dimostrano le impasse in cui si sono scontrati i movimenti alter-globalizzazione e tutta la proposta post-operaista di Negri e Hardt. Come non vedere lo spettro di una guerra civile facilmente combattuta e vinta nella repressione poliziesca di Seattle 1999 o Genova 2001? Mentre le tute bianche combattevano dei simulacri su di un piano puramente simbolico, la controparte schiacciava nella violenza e nella paura il movimento.
Similmente si potrebbe leggere in questo modo la violenza omicida espressa dalla polizia contro i manifestanti a Sainte-Soline il 25 marzo. Ogni volta che una forza antagonista alza pubblicamente l’asticella del conflitto e lo direziona su un piano altamente simbolico, si rende chiara e leggibile dalla repressione, la quale non ha particolari difficoltà ad organizzarsi e mobilitare ogni mezzo necessario capace di schiacciarne le forze. La questione della violenza allora deve smarcarsi da due ingenuità speculari, da una parte il vittimismo non-violento che crede di poter scaturire un rapporto di forze intervenendo su un piano discorsivo o culturale, che quindi enfatizzerà una denuncia della violenza statale; dall’altro, però, una riappropriazione della violenza che prova a originare un rapporto di forze simmetrico con lo Stato rischia di incanalare le potenzialità generative e inventive del conflitto in un confronto tra due fronti consolidati, in cui uno è militarmente dominante.
Destituzione
La destituzione, differentemente da qualsiasi scontro simmetrico e dialettico che vorrebbe contrapporsi alle forme di governo (magari per proporne di alternative), è una forma di cospirazione che punta a disattivare i dispositivi di governo della vita: quelli del territorio come quelli governamentali o soggettivi, che generano le condotte della soggettività neoliberale. Per questo una soggettività rivoluzionaria (destituente) nell’epoca attuale nega il potere, mentre nega sé stessa, la propria identità o altre forme di soggettivazione.
La destituzione rappresenta una forma invisibile di ribaltamento dell’anarchia del potere, in direzione di una reale anarchia, di una vita che non ha bisogno di legittimazione, che possa essere libero gioco e scambio tra forme-di-vita. Un modo per fare ciò, secondo il Comitato Invisibile, può essere esporre l’anarchia del potere attraverso un agire che mostra la sua assenza di fondamento: ciò non significa denunciarne la violenza per suscitare lo scandalo democratico, ma piuttosto colpirlo in modo che mostri la sua vera natura priva di una qualsiasi legittimità astratta (un contratto sociale, la democrazia, l’uguaglianza, la nazione, l’ordine ecc.). Allo stesso modo un gesto destituente non ha bisogno di legittimità, si esprime intorno ad una verità e realtà sensibile ed evidente che non richiede una significazione discorsiva. Questo tipo di gesti obbliga la polizia a mostrarsi per quello che è: una banda criminale come altre, in lotta per il controllo di un territorio.
Se ad un gesto destituente che costringe il potere a materializzarsi «a scendere sulla terra» e mostrarsi nella sua materialità, si fa seguire un processo costituente (di una strategia e di un soggetto) si porterà la natura del conflitto a schiantarsi in una guerra tragica, che si giocherà su uno scontro simmetrico, in cui le forze controrivoluzionarie (la polizia) rivolgeranno tutta la loro schiacciante forza militare nel vincere la battaglia.[5] È ciò che avviene ad ogni movimento che, entrando in un’impasse di antagonismo allo Stato, o declina, oppure trova un nucleo motivato a rilanciare continuamente l’asticella dello scontro fino a renderlo tragicamente militare, chiudendo ogni spiraglio rivoluzionario, fossilizzando la guerra civile in due fronti consolidai, con un avversario che oltre al vantaggio militare ha spesso anche il privilegio di scegliere su quale terreno si debba consumare la battaglia.
Vediamo queste verità in mostra nell’attuale ciclo di lotte in Francia: da un lato, la capacità innovativa dell’irruzione di avviare una nuova soggettività compositiva, una capacità che, nella misura in cui riesce a sfuggire a una logica dialettica con lo Stato e a reinventarsi continuamente in termini pratici e ritmici (cioè, nella scelta temporale delle azioni), deve essere considerata essa stessa destituente. Allo stesso modo, se Soulevements de la Terre ha dimostrato una grande capacità di mettere in scacco e debordare la polizia, ciò è dovuto in gran parte alla forza innovativa che la nuova composizione è stata in grado di produrre.
Questa capacità di produrre nuove forme impreviste sembrerebbe essersi ridotta in occasione del 25 marzo, in cui la composizione si è piuttosto consolidata e la strategia adottata è stata simile a quella dell’appuntamento precedente. Il risultato è stato una serie di scelte ormai prevedibili da parte della polizia, che ha optato per attendere l’arrivo della manifestazione e avviare una dinamica di «assedio» che le permettesse di sferrare un attacco brutale alla folla. Le conseguenti analisi degli errori tattici in questo caso sono certamente valide[6], ma per poter uscire dall’impasse del 25 marzo sarà necessaria una riformulazione dell’ipotesi strategica generale che ha portato all’automatizzarsi e ad un irrigidimento della capacità organizzativa, impedendo al movimento di improvvisare e spiazzare la controparte come ad ottobre.
Un’ipotesi potrebbe essere che puntare ad un allargamento del processo compositivo: a questo proposito gli sforzi di estendere il bacino della lotta ad un piano internazionale ha portato, da una parte, ad alzare l’asticella dell’aspettativa dello scontro (occasione che la polizia non ha mancato di cogliere), dall’altra, a rendere difficile una riformulazione dell’organizzazione tattica della manifestazione. Guardando al passato, raramente gli appuntamenti internazionali, gli allargamenti quantitativi di una lotta, sono riusciti a determinarne un salto di qualità, molto spesso hanno rappresentato il naufragio e il declino di molte realtà e lotte. Allora viene da ipotizzare che un potenziamento di una lotta nasce piuttosto dall’intensificazione dei rapporti compositivi, o forse da una loro scomposizione e ricomposizione alternativa, tale da produrre nuove forme impreviste, improvvisate.
Fino a marzo 2023, il movimento ad Atlanta è stato in grado di mantenere l’iniziativa attraverso una serie di mosse che hanno colto quasi sempre alla sprovvista la polizia. Questo sicuramente perché le dinamiche interne del movimento sono estremamente opache, specialmente alla polizia, che ancora brancola nel buio alla ricerca di leadership radicali responsabili delle azioni più distruttive. Il vantaggio ha portato il movimento in occasione della quarta «week of action» ad alzare l’asticella ad un punto tale da rendere difficile immaginare forme di azione diretta più incisive[7], allo stesso tempo la polizia ha reagito attraverso un rastrellamento casuale di persone a cui è stata data la pesante accusa di terrorismo. Quando a quasi un mese di distanza la città di Atlanta ha deciso di accelerare il progetto, iniziando il taglio di una parte della foresta e militarizzando i dintorni, il movimento ha preferito non cadere nella trappola di reagire a questa offensiva dell’amministrazione cittadina (che avrebbe significato muovere un assedio al cantiere), ma allo stesso tempo i tentativi di attaccare altrove decentralizzando il conflitto non sembrano ancora aver trovato forme efficaci, nonostante la buona intuizione (numerose azioni di «sanzionamento» delle realtà coinvolte nel progetto CopCity si sono date in tutti gli Stati Uniti). Al momento l’unica strategia disponibile è quella di spingere per far esplodere le contraddizioni interne al governo della città, a guida democratica, attraverso una pressione sempre più forte sul sindaco, sfruttando il largo consenso di cui gode il movimento, il che però porta l’asse della lotta al di fuori delle capacità della lotta stessa. Come riconoscono alcune persone da tempo attive nella mobilitazione, ciò che potrebbe dare nuova linfa alla lotta è il coinvolgimento nel processo compositivo di nuove soggettività, come è timidamente accaduto nel caso degli studenti che hanno occupato alcune sedi delle Università ad Atlanta, oppure attraverso la sperimentazione di forme pratiche che siano in grado di portare ad un salto di qualità da supporto a ingaggio da parte dei «cittadini» ostili al progetto.
Quando un movimento non riesce più a difendersi (o ad attaccare), avendo esaurito le proprie risorse tattiche, rischia di scivolare in dinamiche politiche ostili. La strategia inizia a declinare in forme rappresentative della politica, le scelte tattiche ricadono sempre più in forme performative volte a intervenire a livello pubblico e mediatico. Quello che sta accadendo ad Atlanta, o in Francia (soprattutto quello che è successo recentemente in Val Maurienne), rischia di seguire traiettorie simili a quelle precedentemente osservate nel movimento No Tav italiano. Nel suo declino una lotta inizia a rifugiarsi nella politica rappresentativa, sia cercando di utilizzare la «democrazia», sia semplicemente ripiegando su un attivismo spettacolare alla ricerca di copertura mediatica. In questi momenti, la «strategia della composizione» non si apre più su una traiettoria destituente; al contrario, i gruppi ricadono in dinamiche sempre più identitarie, e quelli più politici iniziano a concentrarsi sulla costruzione del consenso e sul rafforzamento della propria posizione nell’opinione pubblica, «capitalizzando» la lotta. La tensione fortemente etico-politica alla base della lotta viene gradualmente sostituita da una dinamica pubblico-politica. Quando la politica diventa pubblica, il movimento si espone alla repressione, perde la capacità di improvvisare e di rimanere imprevedibile.
Una strategia della composizione può «aprire» delle possibilità rivoluzionarie di una lotta se rimane sempre aperta e segue una traiettoria destituente: il che significa, da una parte costruire una traiettoria di fuga dall’interno della dinamica dialettica con il potere, dall’altra sottoporre a continua ricombinazione e rottura le forme che la composizione può generare, infine, a partire dalla lezione dei gilet gialli, attraverso incontri imprevisti al posto di alleanze classiche (come le tipiche forze della «sinistra»). Una ricombinazione può avvenire attraverso l’irruzione di un nuovo protagonismo non del tutto decifrabile, oppure, nel caso in cui l’allargamento a nuove componenti in una lotta si renda difficile, nel cercare nuove configurazioni di incontro e contatto tra le soggettività che lo compongono, ricercare ulteriormente una loro desoggettivazione per evitare che un processo di soggettivazione possa cristallizzarsi. Una composizione destituente parte da gesti radicali, che non richiedono di essere catturati in forme rivendicative, in quanto esprimono una comunicabilità insita a loro stessi, impedendo che l’agire venga catturato nella virtualità performativa dell’attivismo politico. Una composizione dei gesti è sostanzialmente muta e autonoma, non cerca mediazioni o altre forme di dialogo con le forme statuali, ricadendo nel linguaggio politicista e nelle sue categorie di nominazione (doversi giustificare come ecologista, sociale o di una sinistra più o meno «radicale»).
Laddove non si trovino nuove forme o nuove ritmicità, nel caso in cui le capacità di sperimentazione si siano esaurite, allora bisogna riconoscere che essa ha già iniziato il suo declino, ogni tentativo volontaristico di rianimarla può solo tradursi in una forma di militantismo sacrificale, speculare al potere che cerca di combattere, da un punto di vista strategico più ampio una certa volontà sacrificale può portare anche ad una perdita di ciò che nella lotta si è potuto apprendere, le capacità logistiche, organizzative e pratiche che possono costituire un patrimonio fondamentale per una nuova fase del conflitto.
Si può quindi affermare che la possibilità rivoluzionaria di una lotta è quella di poter mantenere e creare continuamente una potenza destituente, in un processo di negazione, autonegazione che si rigenera in una sperimentazione e improvvisazione continua. La rivoluzione è un’arte alchemica: si tratta di fondere oro, acciaio e sangue, di generare nuove leghe, di combinare nuove strategie, in un’eterogenesi senza fine.
«l’ordine è il loro
perdono e pietà non gli imploro,
io fondo l’acciaio con l’oro,
sapendo chi farne un tesoro»
Lou X, Oro e Acciaio
Come il sale con la neve: chi scioglie chi?
Dj Gruff
Note [1] Si veda Considerazioni sulla vittoria, «Liaisons», n. 2, consultabile qui https://thenewinquiry.com/blog/victory-and-its-consequences-part-i/. [2]Gli studiosi di Bordiga mi perdoneranno questa grossa semplificazione della distinzione tra partito storico e partito formale. [3] Eredito l’espressione dal saggio di Katherine Nelson The Anarchy of Power, in Destituent Power – South Atlantic Quarterly. Nel testo l’autrice evidenzia come la matrice della nostra epoca è sostanzialmente nichilista e anarchica. La crisi della modernità porta con sé il declino di alcune intelaiature metafisiche su cui si sono costruite le forme del potere in epoca moderna. Il nichilismo ha portato allo scoperto queste intelaiature che, una volta svelate, non possono che iniziare un inesorabile declino. Di fronte a questo decadimento il potere non cerca più una serie di giustificazioni universali o totalizzanti, come ha provato a fare nella storia della modernità occidentale, ma si ridefinisci come pura forza, dominio violento. Come illustra Michele Garau nel suo lavoro su Jacques Camatte (https://illwill.com/the-community-of-capital). I diritti e tutte le forme dello Stato liberale entrano in crisi a metà Novecento. Le rappresentazioni di cui il Capitale si è dotato per colmare il vuoto creato dalla distruzione dei legami comunitari che lo precedevano, non rappresentano più un elemento coesivo, in quanto i rapporti economici hanno penetrato le relazioni sociali e il capitale si è fatto immanente alla società stessa, al «sociale», e non ha più bisogno di produrre una serie di esteriorizzazioni o trascendenze di tipo istituzionale o valoriale che fungano da collante dell’insieme di individui separati. Queste sono le tesi che sviluppa Jacques Camatte a fine anni Sessanta e inizio anni Settanta e che, come nota Michele, sono state riprese dallo stesso Negri nel noto testo Crisi dello Stato piano, del 1972, in cui l’autore definisce le libertà borghesi e lo Stato nazione non più parvenze, ma doppie parvenze. Il potere è ormai casuale e arbitrario, il denaro, fattasi rappresentazione totale, diventa la forma di dominio del mondo sociale e, perdendo ogni ragione sociale di essere, si fonda esclusivamente sulla violenza di classe. Lo Stato allora assume un ruolo che non è più di mediazione, ma di fornire la base politica del dominio al Capitale. [4] Contrariamente a quelli che credono che l’ipotesi destituente rappresenti semplicemente una proposta interpretativa delle rivolte e di quelle forme di sospensione del tempo storico, l’idea di una potenza destituente è stata formulata da Agamben e il Comitato Invisibile nella direzione di tracciare una traiettoria rivoluzionaria che non rimanga incagliata sugli stessi scogli che hanno trasformato le rivoluzioni moderne in controrivoluzioni. [5]Nel saggio The Anarchy of Power in Destituent power-South Atlantic Quarterly – Katherine Nelson nota alcuni limiti della destituzione che credo siano legati alla traduzione di una potenza destituente in un contropotere: «Una politica che rifiuta qualsiasi pretesa di legittimazione può infatti, come scrive il Comitato Invisibile, costringere il governo ad abbassarsi al livello degli insorti, che non possono più essere “mostri”, “criminali” o “terroristi”, ma semplicemente “nemici”, può “costringere la polizia a non essere altro che una banda e il sistema giudiziario un’associazione criminale”. In questo modo, però, si corre il rischio che la lotta che ne consegue diventi una battaglia “all’ultimo sangue” tra fazioni. In questi casi, una destituzione a cortocircuito diventa la metonimia spezzata di un’esistenza politica significativa, producendo le vittime di un’epoca anarchica. Per essere chiari, una tale identificazione mortale di ciò che si è o di ciò che si è con ciò che si deve fare, con l’essere e la prassi, non è affatto esemplificativa della destituzione, ma è il rischio che, a mio avviso, la politica destituente presenta in modo unico e intrinseco». [6] Si veda qui il loro comunicato autocritico: https://infoaut.org/crisi-climatica/a-tutti-e-tutte-coloro-che-hanno-marciato-a-sainte-soline. [7] Come si può osservare da queste foto, un’intera area di costruzione è stata data alle fiamme: https://twitter.com/illwilleditions/status/1633118200798801923.
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Nicolò Molinari vive a Torino ed è dottorando all’Università Iuav di Venezia in Pianificazione del territorio e politiche pubbliche. La sua ricerca si concentra sui territori delle nuove forme del conflitto muovendo dal concetto di «destituzione» e dal dibattito sulla categoria di «periferia». Ha avuto modo di scrivere di gilet gialli e del rapporto tra musica rap, periferia e rivolte.
Immagine di Roberto Gelini
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