Brevi annotazioni a caldo sul 10 febbraio a Piacenza
Considerazioni sul corteo antifascista contro la sede di Casa Pound.
Partiamo dalla fine. Un corteo dalla partecipazione sopra le aspettative sfila organizzato e selvaggio per le vie dello shopping cittadino, da dove la Questura ha tentato in tutti i modi di non farlo passare. Alcuni passanti sono esterrefatti. Altri, tanti, giovani, migranti, guardano, incuriositi e partecipi di un’energia insubordinata che quel serpentone di persone, sorridenti e determinate, sprigiona. Un cordone di carabinieri è appena stato sfondato e messo in fuga. A mani nude e a spinta, con quella modalità che, andando al di là del loop nel quale troppo spesso si incorre per paura della repressione, rende invece le piazze in grado di costruire partecipazione ampia e vincente al momento dello scontro. Il corteo era partito da appena un’ora e la polizia l’aveva chiuso su tutti i lati in una piazza pretendendo che lì si fermasse, prescrizione che la piazza non ha accettato.
Mentre il corteo sfila libero per le piazze centrali di Piacenza si sente un gruppo di ragazzi venuti a seguito della chiamata del SI Cobas cantare il coro che si sentiva anche ai tempi dei picchetti all’Ikea nel 2011-2012: “Anche qui piazza Tahrir!”. Tanti giovani delle scuole gridano “Casa Pound chiuderà!”. C’è una sensazione di forza nei frammenti di libertà che si conquistano nel conflitto, e il piagnisteo che in queste settimane si sente sempre più spesso sui fascisti che sarebbero un’orda invincibile e numerosissima lascia finalmente spazio alla capacità di guardare alla nostra forza, ai nostri di numeri (mentre arrivano dalle altre città le notizie delle decine e decine di migliaia di persone in piazza). Non è davvero il caso di diventare noi per primi vittime delle retoriche del PD, che su ogni cosa grida all’emergenza per poter creare ad hoc strumenti di governo. Quello che si è visto in piazza a Piacenza è la possibilità concreta di connettere lotte e percorsi di organizzazione in una pratica che sa fare male alle controparti, conquistare autonomamente la propria agibilità, costruire uno spazio di partecipazione che consenta di abbattere la dicotomia consenso/conflitto. Ieri chi stava dietro è rimasto fino alla fine, tanti giovani si sono interessati, la città è stata scomposta, e ora si apre uno spazio di possibilità per ricomporne alcuni segmenti in senso antagonista.
Parafrasando le parole di Furio Jesi, solo nel momento del conflitto «la città è sentita veramente come l’“haut–‐lieu” e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli “altri”; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto», e in quel momento non si è più soli nella città. Ecco, sabato Piacenza era la città di tutti e tutte, per le sue strade si muoveva l’Emilia-Romagna antifascista e antagonista in un corteo giovanile, operaio, logistico, e migrante, in cui le lotte territoriali quotidiane hanno trovato uno spazio di composizione ed espressione, di rifiuto e di attacco. Questo un punto importante. Non c’era ieri nessuna paura in piazza, quella paura che spesso viene introiettata come purtroppo era successo nella data antifa di Modena a dicembre, quando la prima fila si è accontentata del selfie da mettere su facebook, del comunicato da maestrini e di un pizzico di cielodurismo, ma non ha avuto il coraggio di fare un passo in più al momento giusto, esponendo il corteo a subire le dure cariche della polizia. Sabato invece era la polizia a correre a gambe levate…
Non ci sono mai piaciuti i maestrini e chi si pone dall’alto nel dare giudizi, né le autorità dell’ortodossia di questa o quella parrocchia. Crediamo piuttosto che si possa apprendere qualcosa non dalle iperboli teoriche ma dai fatti concreti. Ci pare evidente che la retorica antifa un po’ lagnosa sull’invasione fascista imminente possa produrre effetti perversi, così come l’immaginare l’antifascismo come bandierina per aggregare o da mettersi come spilletta. Ecco: l’antifascismo non è una nicchia militante nella quale rifugiarsi quando non si ha la voglia o la capacità di intervenire nel sociale, nella costruzione di lotte e piattaforme organizzative. L’antifascismo non è un brand del quale appropriarsi. Un’identità della quale astrattamente forgiarsi. Chi si muove così, lo si è visto, quando ci sono momenti di conflitto vero, semplicemente, è assente. Così è stato nell’ultimo periodo in Emilia-Romagna quantomeno. Era successo a Modena un anno fa, mentre migliaia di operai occupavano la stazione, si scontravano con la polizia e conquistavano il centro, o quando assediavano il carcere contro l’arresto di Aldo Milani; è successo di nuovo ieri a Piacenza. Si rischia di finire insomma a discettare in quattro gatti su libretti sulla militanza, nel mentre delle piazze piene riempiono le strade e se le conquistano con lo scontro. Si rischia di ridursi a vivere solo nella bolla mediatica e di piccole provocazioncine notturne per specchiare il proprio ego nelle slide su la Repubblica online.
Consci dei limiti che contraddistinguono i nostri percorsi in questa fase, crediamo tuttavia necessario guardare alle possibilità, alle potenzialità, e anche ai realizzabili momenti della nostra forza, come unica strada possibile per raggiungere nuovi salti, nuove rotture, nuovi passi in avanti collettivi. Con coraggio e determinazione, la giornata di Piacenza di ieri ci pare indichi cosa significa costruire una circolarità tra lotte sociali, radicamento, antifascismo militante, processi di soggettivazione. Un punto importante in una settimana che ha visto l’intero arco istituzionale di fatto rincorrere il vigliacco e codardo attentato di Macerata, che d’altro canto ha consapevolmente giocato sulla logica del primato nazionale adottata indifferentemente da tutti i partiti. Se il codardo Traini spara ai neri ne vanno capite le motivazioni, se gli antifa si prendono la piazza si parla solo di violenza. Bene così… Proprio di fronte a questo disgustoso teatrino si sono riempite e scaldate tante piazze. Marcando una importate distanza tra istituzioni e corpi sociali, uno spazio di inimicizia da approfondire, e dando un rafforzamento alla nostra parte, che sta uscendo dal gelo invernale con un bel febbraio di lotta che nelle prossime mobilitazioni romane “DefendAfrin – libertà per Ocalan e giustizia in Kurdistan” del 17 e in quella “contro sfruttamento, razzismo e repressione” indetta per il 24 dal SI Cobas troverà altri passaggi importanti.
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