#Buonascuola per chi? Prepariamoci al sabotaggio
Per ciò che concerne il primo punto, si tratta di disporre un minimo di 400 ore di stage aziendali, nell’ultimo triennio superiore, per istituti professionali e tecnici, e di 200 ore per i licei. Accanto a ciò, saranno predisposte iniziative pomeridiane di inquadramento del/nel mondo del lavoro, all’interno delle scuole, per gli studenti. Un grosso favore per le aziende, che potranno mettere al lavoro (come spesso avviene, senza nemmeno investire realmente sulla formazione professionale) milioni di giovanissimi ogni anno, senza sborsare un centesimo, e al contempo entrare direttamente nelle scuole innervandole della loro concezione dell’esistenza e della loro ideologia del lavoro. A regolare il rapporto scuola-aziende deve essere ancora predisposta la “Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza” (alternanza tra scuola e azienda), di cui occorrerà seguire l’iter con la dovuta attenzione.
In secondo luogo, la riforma Renzi trasforma il dirigente scolastico, già evoluzione autoritaria del vecchio preside, in “leader educativo”, spartendo anzitutto con lui le competenze in materia di assunzioni. Lo stato assume i precari e li colloca in un’area geografica specifica, dove saranno a disposizione del dirigente, che li assumerà valutando i loro curricola. Il potere del dirigente sull’offerta formativa, e sullo stesso personale precario, diventa quindi enorme, approfondendo le analogie con quella di un manager aziendale, per quanto affiancato, a seguito delle proteste, da alcune figure (tre insegnanti e due genitori) nel suo secondo compito più importante: la valutazione di ogni singolo insegnante e l’eventuale corresponsione di un aumento di stipendio con fondi dedicati dal ministero. Si può immaginare quanto la piaga del servilismo del personale nei confronti delle funzioni direttive, già drammatica nelle scuole italiane, si allargherà a partire da settembre.
Renzi dichiara, in terzo luogo, che con questa legge oltre 100.000 nuovi docenti verranno assunti, stabilizzando la posizione di un numero di insegnanti pari al 18% di quelli attualmente in ruolo. Peccato che questi 100.000, che erano già insegnanti (supplenti), insegnanti e supplenti resteranno. Ora, con un pezzo di carta che certifica la loro “assunzione” (“organico delle autonomie”), saranno deputati ad un’area geografica piuttosto estesa e, dentro essa, potranno essere chiamati dai dirigenti a tappare i buchi di un giorno, una settimana, di due mesi o un anno, esattamente come prima. Cosa cambia, allora, rispetto al precariato? La logica è quella del Jobs Act: la condizione di lavoro è formalizzata per legge sotto il nome “assunzione di ruolo” o “tempo indeterminato”, il che significa che i precari resteranno, sul piano della loro attività lavorativa, tali a tempo indeterminato, definitivamente esclusi dalla prospettiva di una stabilizzazione (che impedisce un rapporto formativo stabile anche agli studenti, prime vittime di questa situazione), e i supplenti sapranno che questo sarà per sempre il loro mestiere.
È il cavallo di troia per la precarizzazione generalizzata dei nuovi assunti nella scuola: questa figura istituzionalmente precaria e ricattabile di insegnante crescerà nel tempo, divenendo egemone nelle istituzioni formative e sottraendo qualsiasi autonomia d’azione e di pensiero a chi lavora nel mondo della formazione. Renzi è furbo. Sa che per approfondire l’assimilazione della scuola alla logica aziendale (processo in moto da decenni, cui imprime un’accelerazione) è necessario, ben prima di una riforma della didattica, una riforma dei rapporti di potere tra dirigenza e lavoro docente, ministero e personale, istituti e imprese. Sa anche che esiste un’esigenza profonda e sentita, in tutto il paese e anzitutto tra studenti e famiglie, di veder cancellata la scuola tradizionale, slegata da reali prospettive di formazione e sottoposta alla cannibalizzazione di quella parte del personale dirigente e docente che ha sempre scambiato i diritti acquisiti per un’occasione continua di scaricare sugli studenti, sulle famiglie o sui colleghi meno servili le proprie incompetenze, incapacità e frustrazioni.
È allora intervenuto piegando in una direzione gerarchica e autoritaria la falsa risposta a esigenze socialmente diffuse, non senza ipotizzando un efficace divide et impera permanente tra insegnanti e famiglie, docenti e personale ata/precariato delle cooperative e così via – il tutto garantendo che la governance reazionaria e al ribasso di questi conflitti venga espletata da dirigenti ben pagati e tronfi del loro potere. Non manca neanche il fiore all’occhiello di tutti i governi con il pallino dell’aziendalizzazione scolastica: le famiglie che sceglieranno di iscrivere i figli nelle private potranno detrarre fino a 400 euro di spese dalle tasse; in sostanza, la loro “scelta” la paghiamo noi, e graverà sulle già dissestate finanze pubbliche a tutto discapito delle scuole, per la cui edilizia non a caso viene devoluta la cifra irrisoria di 300 milioni.
Non dovremmo temere sul lato dei finanziamenti alla scuola, tuttavia, perché la legge Renzi-Giannini prevede anche un bonus fiscale del 65% per chi farà donazioni agli istituti, fino a 100.000 euro. Se i quotidiani mainstream mostrano di non avere il senso del ridicolo, parlando di “cambiamento d’approccio all’investimento sulla scuola: ogni cittadino viene incentivato a contribuire al miglioramento del sistema” (Corriere della Sera), il solco tracciato è, come sempre, quello del mero riciclo del modello statunitense, che teorizzando il nesso forte tra “scuola e territorio” finge di immaginare un territorio neutro, dove non si diano processi di colonizzazione da parte del capitale. Come lo studio universitario sarà garantito dall’indebitamento a vita tramite i prestiti d’onore, così la scuola secondaria potrà sopravvivere grazie all’interessamento (nel vero senso della parola) di magnate privati.
Nel complesso la riforma Renzi costituisce un attacco intelligente e diversificato all’autonomia dei percorsi di arricchimento intellettuale dei giovani e di scelta didattica e professionale da parte degli insegnanti. Non aiuta le famiglie, dal momento che conferma – al netto della propaganda – la tendenza a non concedere al settore scuola i finanziamenti necessari per una manutenzione e una didattica dignitose. Aiuta il sistema dello sfruttamento aziendale, mirando a produrre milioni di piccoli lavoratori gratuiti disciplinati da un sistema scolastico basato su un “merito” che è in realtà servilismo (“merita” di più chi è più bravo a leccare il culo) e indottrinati all’esaltazione di un’etica del lavoro e della competizione sociale portata dentro le scuole direttamente dalle aziende.
Non chiamiamola “buona scuola”: non cadiamo nella trappola semantica che ci tende il governo. “Buona scuola” per chi? Se lasciamo questa dicitura l’opinione diffusa potrà adagiarsi, per disinformazione sovente incolpevole, sull’idea che Renzi vuole dare una scossa e noi siamo per la conservazione. Chiamiamola per quello che è: una scuola di merda. Prepariamone il sabotaggio, discutiamo le forme in cui promuovere la sua messa in discussione, nell’analisi e nell’azione, appena inizieranno le lezioni. Moltissimi insegnanti sono pronti a mettere in discussione il funzionamento della riforma, sul piano dell’attuazione. Ciononostante va detto che i sindacati hanno già mostrato, con un blocco degli scrutini che per legge doveva essere inefficace, di avere le unghie spuntate restando all’interno di una prospettiva legalitaria. Senza il contributo determinante degli studenti la lotta contro la scuola-azienda di Renzi rischia di avere il fiato corto.
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