Cosa è rimasto dell’eredità di Aaron Swartz, oggi
Da piccola ho imparato molte cose da mio fratello. L’aspetto più bello che ricordo di quel tempo passato gomito a gomito è l’aver appreso molto senza la pretesa di farlo né di richiederlo, guardando e provando.
di Laura Carrer da Guerre di Rete
Immagine in evidenza: Aaron Swartz da Open Knowledge Foundation
(https://www.flickr.com/photos/okfn/8376570891)
Sono stata introdotta presto nel mondo di Windows ‘95 e ho imparato quali fossero i componenti e il funzionamento di un computer. Poi ho iniziato ad utilizzare la connessione ADSL, i forum, e ho scaricato film online. Nei pomeriggi al ritorno da scuola mio fratello mi introdusse anche nel mondo di mIRC, di BitTorrent e di eMule: il primo è un client di messaggistica istantanea così spartano che sembrava già di per sé misterioso. Vi accedevamo principalmente per leggere e contribuire a conversazioni su videogame. Cose da nerd insomma. Gli altri due servono invece per condividere con altre persone file di qualsiasi tipo come film, libri, musica. Utilizzarli non è illegale, ma scambiare materiale protetto da copyright è un illecito.
Mio fratello è nato nel 1986, quando venne fotografata la prima volta la cometa di Halley, si aprì il maxiprocesso contro la mafia, e avvenne l’incidente al reattore nucleare n. 4 della centrale di Černobyl’ in Ucraina. Un anno che, a guardarlo con il senno di poi, dice molto anche su informatica e Internet: i PC non erano ancora normalità nelle famiglie ma entra in scena (c)Brain, il primo virus diffuso sul sistema operativo MS-DOS di Microsoft, al tempo il più popolare al mondo. E nello stesso anno nasce Aaron Swartz.
Programmatore sin dalla giovanissima età, Swartz è morto suicida esattamente dieci anni fa, l’11 gennaio 2013. Certo mio fratello non ha incontrato Lawrence Lessig e Tim Berners-Lee mentre stavano creando l’infrastruttura grafica del moderno Internet e le licenze Creative Commons, ma nel suo piccolo aveva anche lui l’idea di trasmettermi conoscenza attraverso la filosofia hacker e l’open access. Anni dopo, all’università, non avevo sempre accesso ai paper scientifici che mi servivano per studiare o per curiosità. In questi casi è stato fondamentale quanto insegnatomi da mio fratello, che sembrava riuscire ad avere accesso a quasi tutto. Ma la questione era molto più ampia dell’esigenza di un singolo o delle soluzioni individuali. Lo avrebbe capito bene Swartz, pagando però in prima persona.
Aaron Swartz era una persona dotata non solo di intelligenza e dedizione, ma anche di empatia e attivismo politico. Nel suo racconto almeno una parola deve essere subito chiarita: chi sia un hacker. Hacker è colui o colei che non intende arrendersi davanti a un sistema confezionato, e partendo da ciò che si vede lo smonta pezzo per pezzo per scoprirne vulnerabilità o potenziali espansioni. Questo processo si può associare a molti altri campi oltre all’informatica ed è strettamente correlato al pensiero creativo di una persona.
Lo sforzo di Swartz di “aggiustare il mondo” e la condivisione della conoscenza
Il percorso di Aaron Swartz è esemplificativo di tutto ciò. Lo spiega bene il libro di Giovanni Ziccardi pubblicato lo scorso novembre da Milano University Press, Aggiustare il mondo. La vita, il processo e l’eredità di Aaron Swartz, disponibile in open access (ad accesso aperto e libero) proprio come avrebbe voluto lui.
Ziccardi, professore associato di filosofia del diritto alla Statale di Milano, ha ricostruito, utilizzando documenti e informazioni pubbliche, la breve ma intensa vita di un programmatore, hacker e attivista politico che ha combattuto per alcune battaglie cruciali per la libertà di Internet. A costellare la breve vita di Swartz si possono elencare progetti tuttora importanti e attuali: Dive into anything è lo slogan di Reddit, sito di social news e forum di fama mondiale creato da Swartz con altri amici nei primi anni del 2000. E poi il suo contributo alle licenze Creative Commons, a Wikipedia e alla creazione del software cifrato per giornalisti SecureDrop (dal quale ha preso ispirazione l’italiano Globaleaks).
Se da una parte per Swartz i punti cardine di tutta la sua attività erano la trasparenza e la condivisione come forma di potere contro l’oppressione, dall’altra vi era il concetto di anonimato. La creazione quindi di strumenti a protezione delle fonti che veicolano informazioni non gradite a governi, multinazionali o al sistema in generale, questione che lo lega all’attivismo politico di cui si rende partecipe seguendo le orme di Tim Berners-Lee. In anni in cui molti dei primi programmatori e menti dietro alla tecnologia informatica iniziavano ad arricchirsi nella Silicon Valley, l’inventore del World Wide Web decideva di regalare al mondo ciò che aveva creato insieme a un altro informatico belga. L’intenzione di Berners-Lee era quella di consegnare alle persone uno strumento emancipatorio, che favorisse una ricaduta sociale mondiale che a quel tempo non poteva nemmeno essere immaginata.
Il Guerrilla Open Access Manifesto e la guerra contro Swartz
Quando è stato trovato morto, nel 2013, Swartz stava affrontando un procedimento legale molto duro che lo avrebbe potuto portare in carcere per 35 anni e che riguardava proprio l’accesso ad articoli scientifici. Come raccontato nel libro di Ziccardi, il fatto drammatico è preceduto dalla pubblicazione del Guerrilla Open Access Manifesto circa 5 anni prima. Lo scritto, molto breve, mette in chiaro due questioni principali: il fatto che “l’intero patrimonio scientifico e culturale del mondo, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, viene sempre più digitalizzato e bloccato da una manciata di società private”; e la necessità di un vero e proprio diritto ad accedere al lavoro accademico e scientifico pubblicato online.
La figura di Aaron Swartz l’ho conosciuta proprio nel 2013, quando mentre cercavo ricerche e trattati online sono incappata nell’Open access movement. “L’informazione è potere. Ma come ogni potere, c’è chi lo vuole tenere per sé”, si legge nel manifesto. Il termine spagnolo guerrilla colse l’attenzione dell’FBI, nota ancora Ziccardi parlando della storia nel podcast di Valigia Blu sul caso Swartz, e fu il primo passo delle indagini nei suoi confronti. D’altronde Swartz invitava anche scienziati e ricercatori ad agire per liberare contenuti, a prescindere da quanto disponesse la legge.
“A quasi undici anni di distanza, in alcune, grandi università il quadro è cambiato, ma rimangono ancora, in tanti ambiti, muri molto difficili da abbattere; lo scritto di Aaron, riletto ai giorni nostri, è quanto mai attuale”, scrive Ziccardi nella biografia dell’attivista.
Nell’ultimo anno della vita del giovane succede però il peggio. Quando alla conoscenza tecnica e informatica di sistemi molto complessi si affianca anche l’attivismo politico, il governo statunitense comincia a usare i mezzi legali. Nell’autunno 2010 Swartz aveva scaricato in modo automatizzato dalla rete del Massachusetts Institute of Technology milioni di articoli scientifici, rendendoli accessibili a chiunque. La banca dati violata è la conosciuta JSTOR, nata nel 1995 a New York, che ospita libri e contenuti accademici prodotti da 8.000 istituzioni internazionali. Explore the world’s knowledge, cultures, and ideas è il motto, e certo è vero. Al contempo però JSTOR non è accessibile a chiunque per via del costo al quale sono venduti i contenuti accademici. Un’esperienza comune per molti studenti. Infatti, nemmeno con le credenziali universitarie avevo accesso a tutto ciò che mi serviva per studiare. Alla fine era spesso il professore a passarci i suoi studi e le sue ricerche.
Ma quell’azione di Swartz è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, in due modi. Da una parte, c’è stata la dura reazione di JSTOR e dei vertici del MIT per eventuali violazioni di contratto e dei termini di servizio (posizioni modificatesi nel tempo). Se la ricerca è a pagamento, non è possibile scaricare i contenuti per poi renderli liberi online. Ma è indubbio siano i ricercatori a fare il lavoro vero e proprio: inventano una domanda di ricerca, eseguono esperimenti e scrivono paper scientifici al fine di spiegarli. A quel punto la conoscenza si scontra con un sistema che predilige il profitto alla libera circolazione di idee. Per ottenere riconoscimenti dalla comunità di riferimento, i ricercatori sono obbligati a pubblicare il lavoro su riviste accademiche di fama mondiale e sottostare alle loro regole.
Dall’altra parte, si è attivata anche la procura, l’attore più rilevante e che ha portato alle conseguenze più gravi. Negli Stati Uniti esiste infatti una normativa penale, il Computer Fraud and Abuse Act, che regola i reati informatici e gli accessi abusivi alle reti private, come le frodi informatiche. Quando venne ritrovato, in uno sgabuzzino del MIT, il PC di Swartz collegato alla rete dell’università e intento a scaricare centinaia di migliaia di articoli scientifici, la situazione precipitò.
Ben due processi, uno statale e uno federale, caddero sulle spalle del giovane. Il patteggiamento tra accusa e difesa non stava andando per il meglio, e Swartz aveva paura soprattutto per il suo futuro politico: voleva entrare nel sistema che combatteva per cambiarlo in meglio, per far sì che una reale trasparenza data dalla disponibilità aperta e senza vincoli di articoli e fonti potesse migliorare la conoscenza di tutti.
Prima di decidere di togliersi la vita, sotto le pesanti accuse di una normativa statunitense ampiamente criticata, Swartz ha scritto un testo chiamato “legacy”. “Il primo consiglio che Aaron lascia, riflettendo anche sulla sua persona e sul suo ruolo nel mondo è, in conclusione, quello di fare tutto ciò che gli altri non cercano di fare”, scrive Ziccardi nella biografia. Cambiare il sistema, non cercare di seguirlo, cambiare l’università e la sua natura, essere indipendenti dalla politica.
Sci-Hub, le controversie legali, e l’accesso al sapere scientifico
E quindi a distanza di dieci anni ancora una volta oggi dobbiamo chiederci: qual è l’eredità di Aaron Swartz? Quanto successo e sta succedendo dopo la sua morte non promette bene, ma certamente ciò che ha lasciato il giovane programmatore smuove ancora l’iniziativa (politica) di molti.
Sci-Hub è una di queste: un enorme archivio che contiene più di 80 milioni di articoli scientifici, libri, riviste e articoli di giornale protetti da copyright e non. Fondato due anni prima della morte di Swartz, nel 2011, dalla sviluppatrice kazaka Alexandra Elbakyan, è irraggiungibile in molti Stati del mondo per via delle azioni legali intraprese da grandi editori come Elsevier, Wiley e American Chemical Society. A differenza di Swartz, Elbakyan ha chiesto a ricercatori e accademici di entrare con le loro credenziali nelle grandi banche dati scientifiche e di scaricare il materiale. In questo modo l’attività di download sarebbe stata legale, anche se la successiva divulgazione gratuita sul portale di Sci-Hub avrebbe poi aperto cause legali in più di uno Stato. Dopo sole due settimane dall’esposto presentato all’AGCOM da un editore, nel luglio 2018, anche l’autorità italiana ha intimato ai provider internet il blocco dei DNS del sito originale di Sci-Hub e del suo sito mirror. In ogni caso The pirate bay of science, come viene spesso chiamato, è un esempio attuale di quanto ricercatori, accademici e studiosi accedano quotidianamente a materiale scientifico aggirando il paywall imposto dagli editori per svolgere ricerca, o anche semplicemente studiare durante il percorso di dottorato.
Lo scorso maggio Elbakyan ha reso pubblico su Twitter il fatto che l’FBI avesse richiesto l’accesso ai dati del suo account Apple attraverso un vecchio indirizzo Gmail. Da un anno a questa parte il social network ora di proprietà del miliardario Elon Musk ha sospeso l’account dell’archivio per aver violato la policy sulla contraffazione, che comprende anche “l’offerta, la promozione, la vendita o la facilitazione dell’accesso non autorizzato ai contenuti, compresi i beni digitali”. I rischi corsi da Sci-Hub e dalla sua fondatrice sono tuttora in atto e rappresentano il motivo per il quale la donna vive nascosta.
La differenza più sostanziale a dieci anni dalla morte di Swartz è che non sono solo attivisti e hacker a sostenere l’open access come diritto di tutti: il sito Sci-Hub è utilizzato da molti studiosi in tutto il mondo e in alcuni Stati come ad esempio l’India, in cui è in corso tuttora una causa legale, è stato difeso da decine di accademici, secondo il reportage di Rest of The World. La libertà di accedere a contenuti scientifici è infatti direttamente proporzionale alla possibilità economica di ognuno, e perciò un archivio di questo tipo è cruciale in paesi con grandi disparità economiche. Motivo per il quale la causa contro Elbakyan in questo paese non è semplice come in altri, e non si è ancora conclusa. L’eredità di Swartz è racchiusa anche in un altro progetto: il sito di file sharing Library Genesis (LibGen), sotto indagine da anni e che, essendo registrato sia in Russia che in Olanda, rende difficile definire quale giurisdizione debba essere applicata per l’accusa di violazione di copyright.
“Dobbiamo adottare il Guerilla Open Access Manifesto per invertire l’asimmetria informativa tra cittadini e Big Tech-Big Government. Questo può accadere solo se costruiamo reti alternative di infrastrutture informative che sostengano queste idee. Queste reti informative non possono essere costruite dall’oggi al domani, ma dobbiamo impegnarci per ottenerle. Sci-Hub e LibGen sono alcuni esempi di queste infrastrutture informative e non solo dobbiamo sostenerle, ma dobbiamo costruirne altre”, ha scritto recentemente il ricercatore e hacktivista indiano Srinivas Kodali commentando proprio l’eredità di Swartz.
Il futuro dell’open access
La battaglia per l’open access di Aaron Swartz è di fatto portata avanti anche da altri progetti come Open Library (progetto di Internet Archive), che mette a disposizione circa 20 milioni di titoli di libri in formato digitale accessibili a chiunque gratis. E poi ci sono progetti come BioMed e PLOS One, ovvero archivi e journal che contengono paper scientifici senza paywall sostenuti da ricercatori e studiosi di fama mondiale nel loro settore, provenienti da università come Harvard, Stanford e Oxford. Caratteristica importante nella battaglia per l’open access, come di tutte quelle che nascono dal basso, è la possibilità di stringere alleanze e fare rete: Right to Research Coalition (R2RC) ne è l’emblema, includendo più di 90 organizzazioni di studenti universitari nel mondo accomunati dalla promozione dell’open access anche attraverso azioni di advocacy. Senza contare poi OpenCon, una serie di conferenze sparse per tutto il mondo.
Il futuro dell’open access è nelle mani di chi la ricerca la produce e in maniera simile anche di tutti noi che vogliamo usufruire della conoscenza che creano. Nonostante le cause legali portate avanti negli anni successivi alla morte di Swartz in molte parti del mondo, alcuni passi avanti fanno ben sperare: negli Usa il progetto di legge Fair Access to Science and Technology Research Act imporrebbe a tutte le agenzie federali che hanno speso più di 100 milioni di dollari in ricerca di pubblicare i contenuti in formato aperto; un disegno di legge statale californiano approvato nel 2018, lascia invece ai ricercatori la possibilità di pubblicare gli articoli su riviste accademiche ma li obbliga anche a diffonderli in archivi pubblici ad accesso aperto entro e non oltre un anno dalla pubblicazione. A luglio dello scorso anno l’Internet Archive, un archivio non profit americano che fornisce accesso a molti contenuti in formato digitale e gratuito, ha chiesto ad un giudice federale di pronunciarsi nell’ambito di una causa intentata dagli editori Hachette, HarperCollins, Wiley e Penguin Random House. Questi ultimi contestano il programma Controlled Digital Lending (CDL) dell’archivio, che però, sostiene Internet Archive, presta scansioni digitali di libri già acquistati e per i quali autori ed editori sarebbero già stati compensati.
La battaglia per l’anonimato e la libertà di informazione
L’eredità di Aaron Swartz è anche legata a doppio filo con il mondo del giornalismo, e alla diffusione di piattaforme e strumenti per la tutela delle fonti e dell’anonimato online. In Aggiustare il mondo. La vita, il processo e l’eredità di Aaron Swartz, Ziccardi riassume in poche frasi la posizione di Swartz: “Trasparenza e segreto, che sembrano due concetti in conflitto, erano interpretati da Aaron come entrambi essenziali in una democrazia. La trasparenza coinvolgeva i vertici, a cascata fino al singolo ufficio periferico, e i loro documenti. Il segreto era un potere da conferire al cittadino, unitamente all’anonimato, per operare in sicurezza anche in azioni di attivismo. E la tecnologia, in entrambi i casi, poteva e doveva essere la leva per garantire questi due diritti”. Nel novembre 2010 il caso Cablegate, ovvero la pubblicazione da parte di Wikileaks di centinaia di migliaia di documenti riservati sull’operato del governo americano, ha fatto da spartiacque e da scintilla per la creazione di strumenti che favorissero la diffusione di informazioni garantendo però l’anonimato di chi si esponeva.
In merito abbiamo già citato il contributo di Swartz nella creazione di SecureDrop, un software libero sviluppato dalla Freedom of the Press Foundation e rilasciato per la prima volta nel 2013, alcuni mesi dopo la sua morte, e raggiungibile attraverso il network Tor. La prima istanza SecureDrop è stata lanciata da The New Yorker per favorire la comunicazione della testata con fonti che, per la tipologia di informazioni che volevano fornire al giornale, richiedevano il massimo grado di protezione e anonimato. Una volta sulla piattaforma la fonte può inviare informazioni e allegati di qualsiasi tipo e riceve in cambio un numero casuale da conservare per accedere nuovamente alla segnalazione, ed eventualmente rispondere ai messaggi dei giornalisti. Dall’altra parte, negli uffici della testata sono presenti due PC: il primo è connesso a Internet e permette il download crittato delle informazioni fornite dalla fonte in una penna Usb; il secondo PC è utilizzato invece per visualizzare i contenuti inviati dalla fonte attraverso il codice di decrittazione presente in una seconda chiave Usb. Ad ogni utilizzo il secondo PC, mai connesso alla rete Internet, è svuotato delle informazioni e spento.
A catena, nei mesi e anni successivi, altre testate internazionali integrano SecureDrop nel lavoro giornalistico: Forbes, ProPublica, The Intercept, Washington Post, The Guardian sono solo alcuni.
La particolarità di questa piattaforma è quella di non permettere a nessuno, nemmeno ai giornalisti che ricevono l’informazione o il documento, di poter risalire all’autore della soffiata. E in un mondo estremamente connesso attraverso tecnologie digitali che permettono la comunicazione ma non quella segreta, questi strumenti assumono una rilevanza strategica per la trasparenza e l’accountability di governi e aziende. Questo è anche il motivo che ha spinto, nello stesso periodo, alla creazione del software libero e open source GlobaLeaks. Tradotta in più di 90 lingue, la piattaforma italiana di whistleblowing creata da sviluppatori e hacker permette di veicolare informazioni in modo sicuro e anonimo, assicurando che queste non siano riconducibili a una o più persone che hanno deciso di esporsi. A differenza di SecureDrop, è raggiungibile dalla fonte e dal giornalista attraverso qualsiasi PC e non necessita di chiavi Usb per funzionare.
Come ha twittato di recente proprio l’account di SecureDrop: “Aaron, che ha sviluppato la versione originale di SecureDrop, continua a ispirare ogni giorno i nostri sforzi per proteggere giornalisti e informatori”. E ancora ispira gli sforzi di molti altri.
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