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Cyber-Proletariat: un’intervista con Nick Dyer-Witheford

 

Nick Dyer-Witheford: Il mio cambio di posizione riflette il coinvolgimento in due momenti di lotta – quello dell’alter-globalismo da metà anni ’90 fino ai primi Duemila; e poi, dal 2008 a oggi, i nuovi antagonismi sociali e le lotte emerse sull’onda del collasso finanziario. Entrambe le lotte hanno rivelato nuove possibilità e nuovi problemi per i movimenti anticapitalisti rispetto all’uso delle tecnologie cibernetiche. Da un lato c’è stato un evidente – e molto dibattuto – uso dei social media e delle reti di telefonia mobile in ciò che possiamo chiamare come le rivolte del 2011 – i riot, gli scioperi, le occupazioni. Al contempo, e d’altra parte, tutti questi eventi hanno mostrato le difficoltà insite nel considerare tali tecnologie come matrici organizzative – ad esempio quello che potremmo definire come sindrome “dalle stelle alle stalle” che ha caratterizzato alcuni movimenti del 2011. Anche durante questo ciclo, e in particolare con le rivelazioni di Snowden in Nord America, è divenuto chiaro lo scopo e l’intensità della sorveglianza alla quale sono sottoposti i militanti grazie a questo milieu cibernetico.
Oltre a sottolineare questi aspetti – che potremmo definire come snodi tattici rispetto all’uso delle tecnologie cibernetiche per i movimenti rivoluzionari – c’è un altro punto, più significativo, più strategico: i cambiamenti nella composizione di classe prodotti dal capitale nei termini di una ristrutturazione della forza lavoro globale utilizzando robot e reti e, nel sistema finanziario, reti di robot. Cyber-Proletariat si apre con una questione rispetto alla validità e al significato della retorica delle “Facebook revolution”, per poi muoversi verso l’analisi degli effetti più profondi implicati nella ristrutturazione del lavoro nel capitalismo avanzato.

 

 

GM: Ciò mi conduce alla prossima domanda. Questo è un libro incentrato sulla composizione di classe nel 21o secolo. Praticamente ogni capitolo è una tessitura delle varie forme di lavoro che compongono la catena globale per la produzione di oggetti cibernetici come telefoni cellulari e social media – le miniere nelle foreste amazzoniche, gli assemblatori nelle Filippine, gli sviluppatori di app a San Francisco. Esistono delle possibilità per questa estesa varietà di forme del lavoro, “striate e frazionate al loro interno” come tu scrivi, per unirsi politicamente? E’ possibile condividere degli interessi avendo tali divergenze nella “soggettività” – una parola che usi spesso – tra questi lavoratori?

 

NDW: L’intensificazione della differenziazione e delle ineguaglianze è stata la strada che il capitale ha perseguito negli ultimi quarant’anni di ristrutturazione globale della classe. Ciò ha condotto a una inedita forma di biforcazione della forza lavoro: tra un settore alto di professionisti mobili e, sull’altro lato, un immenso mare di insicuri, precari, e sottopagati lavoratori proletarizzati. Questo ha introdotto una notevole divisione in ciò che una volta era percepito – seppur con qualche atteggiamento mitologico – come il potenziale di solidarietà tra la massa di forza lavoro industriale. Questa divisione è all’oggi intensificata dalla sua distribuzione lungo le molteplici catene distributive articolate sulle differenti distribuzioni di reddito che caratterizzano il sistema globale. Allo stesso tempo, mentre si accrescono le diseguaglianze tra questi due settori – le classi professionali intermedie e le forze lavoro proletarizzate – l’ineguaglianza ancora più grossa rimane, ovviamente, quella tra il capitale plutocratico ed entrambi i settori summenzionati.
Vi sono dunque al contempo possibilità di un reale antagonismo tra queste differenti frazioni di lavoro del capitale, e al contempo vi sono possibilità per forme di cooperazione. Inoltre stiamo assistendo a una sempre maggior ri-proletarizzazione di crescenti strati di professionisti – il tutto estremamente visibile nell’ambiente universitario, dove le persone con aspirazioni verso carriere professionali si ritrovano intrappolate nei ghetti del lavoro precario; la famosa situazione dei laureati senza futuro, citata da Paul Mason quale dinamica critica del 2011.
Dunque ciò cui abbiamo assistito nel ciclo del 2011è stato l’affiorare delle possibili alleanze e dei possibili antagonismi all’interno della forza lavoro globale. Indubbiamente ci sono stati alcuni aspetti nelle grandi occupazioni, come a piazza Tahrir, dove la mobilitazione ha creato ampie solidarietà tra strati sociali differenti contro rapaci regimi autoritari. In altri contesti, come nell’Inghilterra del 2011, si sono visti filoni di lotta correre in parallelo senza mai incontrarsi. L’eruzione di potenti rivolte universitarie, e quindi i riot urbani dei settori esclusi e spossessati. Entrambe hanno profonde risonanze in quanto proteste contro i regimi di austerità, tuttavia si sono riprodotte come ambiti separati, spesso guardandosi con sospetto e ostilità. E ancora in un differente contesto si è assistito alla tattica dell’occupazione usata nel 2011 ripresa dai settori di classe media per preservare i loro privilegi, come in Thailandia e in Venezuela.
Tutto ciò per dire che si osserva una straordinaria contraddizione di formazioni di classe, che pone seri nodi organizzativi e domande per i movimenti orientati al comunismo, questioni che non penso abbiano trovato risposte significative nei movimenti del 2011, seppur tali movimenti hanno posto tali questioni nella loro forma più acuta.

 

 

GM: Mi pare che tu stia stemperando alcuni dei tuoi precedenti lavori, tipicamente di marxismo autonomo, con un nuovo coinvolgimento nelle teorie della comunizzazione per come esse sono discusse in giornali come Tiqqun, SIC e Endnotes. In quale maniera tale corpus teorico integra o modifica le teorie autonome?

 

NDW: La teoria autonoma e quella della comunizzazione sono senza dubbio i filoni più interessanti all’interno delle teorizzazioni del movimento comunista odierno, e sono molto critiche tra loro. L’autonomia enfatizza l’antagonismo dei lavoratori rispetto al capitale. La teoria comunizzatrice insiste sul fatto che i lavoratori vanno intesi come parte del capitale. L’autonomia ha sempre enfatizzato e celebrato la circolazione delle lotte tra differenti gruppi di lavoratori. La teoria comunizzatrice ci ricorda che, come abbia detto prima, questi segmenti di classe lavoratrice possono spesso essere antagonisti tra loro.
Potrei dire che entrambe queste correnti teoriche hanno i loro specifici problemi. L’autonomia è cronicamente ottimista, come se una rondine facesse sempre primavera. La teoria comunizzatrice ha una sua caratteristica forma di melancholia. In qualche modo questo libro è un tentativo di istituire una conversazione che sto facendo con me stesso durante le mie letture, una conversazione tra queste due facce gemelle dell’ultra-sinistra, per vedere cosa ne esce fuori.

 

 

GM: Puoi aggiungere qualcosa su come vedi questa melancholia in termini di debolezza per la teoria comunizzatrice?
NDW: In effetti l’elemento rispetto al quale sono più critico nella teoria comunizzatrice è quello che essa in qualche modo condivide con l’autonomia: il rifiuto rispetto a ciò che chiama “programmatism” [traducibile semplicisticamente come “progettualità”. Per approfondire si veda ad esempio questo link] e lo scrupoloso rifiuto di descrivere qualsiasi strada verso una situazione comunista – in quanto si pensa che ciò sia debole rispetto alla possibilità di una immediata abolizione della forma merce. Ritengo sia estremamente difficile convincere le persone, incluso sé stessi, della possibilità – che richiede molto tempo, è dispendiosa, faticosa e, in contesti di crisi, pericolosa – di creare una nuova società senza avere un’idea quantomeno provvisoria rispetto a quale dovrebbe essere a grandi linee la strada da seguire.
Inoltre potremmo dire che ciò che è appena accaduto in Grecia, che potrebbe essere considerato da un lato come il classico fallimento di una strategia elettoralista di marca socialdemocratica, mostri chiaramente i problemi che sorgono quando c’è il rifiuto di una tradizionale riflessione rispetto alle varie fasi e tappe da seguire nel movimento di lotta anticapitalista. Dunque non aderisco completamente a questa parte della teoria comunizzatrice, seppur in altri contesi ne apprezzi il lavoro. Sono più vicino a quell’aggregato di gruppi come Plan C nel Regno Unito, il quale riconosce che necessitiamo come movimento di una riflessione collettiva sulla questione della transizione, in una forma non dogmatica ed esplorativa, la quale dovrà assumere un profondo grado di incertezza quale derivante da qualsiasi crisi insita nelle grandi trasformazioni.

 

 

GM: Sta divenendo piuttosto comune una visione in qualche modo positiva della precarietà crescente e della disoccupazione tecnologica. Recentemente il giornalista britannico Paul Mason ha scritto sul Guardian un saggio in cui sostiene che si sta costruendo sotto i nostri occhi un futuro post-capitalista e post-lavorista. Con una differente accezione, la teoria accelerazionista “appoggia” la crescente sussunzione delle relazioni sociali al capitalismo e alle sue tecnologie. Il tuo lavoro come si pone rispetto a tali letture?

 

NDW: Loro si rifanno a una realtà che molti altri pensatori radicali hanno inquadrato: è evidente che il capitalismo sta creando delle potenzialità – non solo tecnologiche, ma anche organizzative – che potrebbero essere adottate per essere trasformate in una maniera differente in una società diversa. L’esempio più evidente è quello della liberazione del tempo di lavoro grazie alla possibilità di automatizzare molte tipologie di lavoro. A mio avviso il problema del lavoro di Paul, che io rispetto, e con gli accelerazionisti, è che c’è una grossa sottostima nel riconoscere che per passare dalle potenzialità all’attualizzazione di tali possibilità comuniste si necessita dell’attraversamento di ciò che William Morris descrive come un “fiume di fuoco”. Non si trovano nei loro scritti accenni a questo fiume di fuoco. Penso sia ragionevole assumere che vi sarebbe un periodo di massiva e protratta crisi sociale prima della possibile emersione di queste nuove forme. E come abbiamo appreso dal Ventesimo secolo, per attraversare questo fiume di fuoco molto dipende da ciò che avviene durante l’attraversamento. Si potrebbe dire che c’è un certo automatismo nella predicazione di entrambe queste scuole rispetto alla realizzazione di un nuovo ordine, e dovremmo stare molto attenti a ciò.

 

 

GM: Il capitolo finale del libro parla dell’organizzazione delle lotte proletarie. Sostieni che queste lotte debbano adattarsi a un tempo di guerra, a questa evocativa metafora di un fiume di fuoco. Delinei inoltre una forma organizzativa reticolare piuttosto che gerarchica. Potresti dire qualcosa rispetto a questo futuro dell’organizzazione? Vi sono possibili esempi cui riferirsi di tali tipi di nuove forme emergenti di organizzazione?

 

NDW: Hai menzionato alcune delle provocazioni che suggerisco rispetto alla riflessione su nuove forme organizzative, delle provocazioni che ho dedotto riflettendo sui dilemmi delle lotte del 2011. Tra questi, quello che metto molto vicino al vertice delle lista di problemi è quello della necessità di nuove forme di organizzazione del lavoro, una che possa adattarsi alle nuove realtà della disoccupazione e della precarietà. Sono in corso molte sperimentazioni a riguardo – parlo dal mio punto di vista canadese – ma temo che anche alcune delle maggiori organizzazioni sindacali, per pure ragioni di sopravvivenza, stiano tentando di aprirsi alle forme della precarietà. Ci sono tuttavia anche molte iniziative al di fuori delle tradizionali organizzazioni sindacali, a partire dagli stessi lavoratori precari, per cercare nuove forme. C’è dunque una grossa sfida rispetto all’organizzazione nei posti di lavoro – o al lavoro senza un posto preciso.
La seconda cosa che suggerisco è la necessità di una riconsiderazione delle tattiche di organizzazione digitale: una più chiara consapevolezza sulla necessità di tali forme organizzative, siccome viviamo in una forma di capitalismo dove la vita sociale è stata sussunta ciberneticamente, ma anche un riconoscimento dei limiti e dei rischi di tali forme organizzative.
Suggerisco anche che il momento attuale pare adeguato a pensare nuove sintesi organizzative che possano superare la divisione verticale-orizzontale, che è ovviamente una antica divisione, ma che ora più che mai deve essere superata. Senza esagerare troppo, sono comunque fiducioso rispetto a ciò che vedo nei termini di sperimentazioni di varie forme di organizzazione di fronti comuni, alcuni dei quali sono attivi qui in Ontario, che stanno tenendo assieme in forme incerte, provvisorie e sperimentali persone del movimento Occupy, il movimento dei lavoratori e un ampio spettro di altri movimenti sociali.
Abbiamo appena citato un quarto punto, l’importanza di sviluppare un nuovo approccio non dogmatico rispetto a ciò che potremmo tranquillamente definire come strategie di transizione – mi riferisco al discorso di prima su Plan C. Il quinto e ultimo punto, che è ciò da cui sei partito, il riferimento a un tempo di guerra, è semplicemente una suggestione rispetto al fatto che bisogna davvero prepararsi per nuove e più profonde crisi e a tutte le possibilità e i rischi che esse contengono. La mia osservazione è che, sicuramente in Nord America, ciò che si autodefinisce come “la sinistra” è stata presa completamente alla sprovvista da ciò che è successo nel 2008. Abbiamo avuto una massiccia crisi del capitale. Ma dal punto di vista organizzativo, soprattutto grazie allo sfinimento indotto dalla neoliberalizzazione, c’è stata una grossa incapacità di cogliere il momento storico. Pare altamente plausibile che arriveranno altri momenti storici di crisi, probabilmente a breve. C’è molto da imparare dalle esperienze dei compagni in posti come la Siria, la Turchia, l’Ucraina: posti dove, per quanto come organizzazioni progressive possano ancora funzionare all’interno delle polarizzanti fatalità di un contesto di guerra civile, sono dovute comunque confrontarsi e adattarsi ad un ambiente digitale con le sue istanze potenzialmente fatali come la sorveglianza, le criptazioni,le verifiche, le autenticazioni. Penso che sia necessario pensare e prepararsi in modo estremamente serio a tali contesti.

 

 

GM: Mi affretto ad aggiungere che, sebbene la nostra conversazione sia stata piuttosto teorica, il libro è però uno splendido catalogo di una varietà di lotte, ed è sostenuto da dettagli empirici di interesse per chiunque abbia seguito o partecipato alle lotte, soprattutto a partire dal 2008.

 

NDW: Il libro è un tentativo di riordino di alcune di queste lotte e dei dilemmi che esse hanno manifestato in particolare negli ultimi sette anni, e più in generale negli ultimi quindici, dal punto di vista di un accademico che ha partecipato ad alcuni degli eventi che sto descrivendo. E’ un libro molto in movimento, e mostra esplicitamente le sue proprie contraddizioni, in quanto dobbiamo essere capaci di parlare delle contraddizioni e dei conflitti all’interno dei movimenti per poterci muovere oltre ciò che, all’attuale, appare come una impasse.

 

Articolo apparso su viewpointmag.com e tradotto dalla Redazione di Infoaut

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