Negri a Francoforte – La polemica tra la Teoria critica e il marxismo autonomo
di Patrick Cuninghame
L’operaismo politico italiano e la Scuola di Francoforte sono, indubbiamente, due grandi movimenti teorico-politici del Novecento. Hanno alcuni tratti comuni dal punto di vista dei riferimenti genealogici, innanzitutto la rottura con l’ortodossia e il dogmatismo marxisti; hanno, soprattutto, profonde divergenze nello sviluppo politico. Alla ricerca dell’emergenza delle nuove soggettività della lotta di classe, l’operaismo; la constatazione di un’integrazione ormai avvenuta, di una società divenuta gabbia totalitaria, la prima generazione francofortese. In questo articolo Patrick Cuninghame analizza il rapporto di comunanze e contrasti tra i due movimenti di pensiero in particolare attraverso le analisi di Toni Negri, dalla teoria dello Stato-piano fino al concetto di impero. Tenendo ben presente, ci dice l’autore, che mentre l’operaismo è stato un pensiero incarnato in una costellazione di esperienze rivoluzionarie militanti, la Teoria critica è rimasta ai margini dell’attività politica diretta, finendo spesso per limitarsi a osservare le macerie della storia.
Patrick Cuninghame è professore di sociologia alla Universidad Autónoma Metropolitana di Città del Messico. Tra i suoi saggi sul tema qui trattato si segnalano Autonomism as a Global Social Movement (2010), El «Otoño caliente»: Consejos de fábrica y asambleas obreras autónomas italianas de la década de 1970 (2017) e The Self-Organization of the Mexican Multitude Against Neoliberal State Terror: The Cnte Dissident Teachers’ Movement Against the 2013 Education Reform (2020).
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Per esplorare l’interazione tra la Teoria critica e l’operaismo e post-operaismo italiani, prendo in considerazione i dibattiti teorici, perlopiù polemici, tra Negri e la Scuola di Francoforte, con l’obiettivo di valutare il contributo di Negri a tale scuola.
Innanzitutto è necessario partire dalle radici storiche e politiche condivise dal francofortismo e dall’operaismo italiano, in quanto tendenze eterodosse (anti-marxiste-leniniste e antidogmatiche) all’interno del marxismo occidentale. Ci riferiamo alla loro comune critica al fallimento della rivoluzione sovietica del 1917 nel creare una società socialista per andare oltre il capitalismo di Stato; al loro allontanamento dai partiti comunisti e socialisti, siano essi d’avanguardia, rivoluzionari o riformisti con un sostegno elettorale di massa, così come dai movimenti sindacali che li hanno accompagnati e che non sono riusciti a mobilitare la classe operaia internazionale contro le guerre mondiali, contro la disoccupazione di massa, contro l’imperialismo e inizialmente contro il nazifascismo. Il movimento dei consigli operai è stato il punto di partenza e il riferimento politico per entrambe le correnti; in particolare il Kapd (Partito comunista operaio di Germania) e gli scritti di Korsch, Pannekoek, Rühle e Mattick, influenzati dalla condanna di Rosa Luxemburg delle tendenze nazionaliste dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, che avevano sostenuto la Grande guerra imperialista del 1914-18 e tradito l’internazionalismo della classe operaia. Tuttavia, è alla prima generazione della Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse, Pollock, Neumann e Fromm) e alle figure con essa in relazione (in particolare Benjamin e Sohn-Rethel), forse i più comunisti, che si rifugiarono nell’accademia per analizzare la sconfitta delle rivoluzioni post-1918 e l’ascesa del fascismo, a cui Negri sembra essere più vicino, se la confrontiamo con la cosiddetta seconda e terza generazione (Habermas e i suoi discepoli Dubiel e Honneth), di orientamento socialdemocratico, riformista e persino disposti a perdonare il nazionalsocialismo [1].
Genealogia politica e nuove soggettività
L’operaismo italiano è emerso da una più graduale evoluzione teorica militante all’inizio degli anni Sessanta, influenzato dal consiliarismo comunista, dal bordighismo (più che dal gramscismo che ha criticato, contrapponendo come strategia politica primaria l’autonomia della classe operaia all’egemonia del partito comunista), dal trotzkismo dissidente della Johnson-Forrest Tendency negli Stati Uniti (in particolare gli scritti dello storico dei «giacobino neri» C.L.R. James e la marxista-umanista Raya Dunayevskaya), dalle fondamentali esperienze della rivista marxista eterodossa francese «Socialisme ou barbarie», diretta da Castoriadis, e dall’Internazionale Situazionista con il suo concetto di «società dello spettacolo».
Il testo di ricerca influenzato dalla sociologia dell’azione The American Worker [2] è stato il primo esempio di attualizzazione dell’«inchiesta operaia» di Marx [3], utilizzando l’inchiesta sociologica come strumento di organizzazione e di coscientizzazione politica per sviluppare l’autogestione e l’autorganizzazione dei lavoratori e soprattutto al di fuori delle istituzioni ufficiali della sinistra, considerate recuperate dal capitalismo. Il soggetto della conricerca è stato il dequalificato «operaio massa» fordista, il cui rifiuto del lavoro taylorista e della catena produttiva disumanizzata ha portato a un’esplosione della resistenza della classe operaia, dentro e fuori la fabbrica, durante gli anni Sessanta e Settanta. Questa osservazione partecipante della resistenza operaia autonoma all’interno della fabbrica fordista contrasta con la visione pessimistica della Teoria critica – in ciò simile al marxismo ortodosso – avanzata da Pollock, Baran e Sweezy, secondo cui in una fabbrica fordista completamente dispotica e integratrice non vi era spazio per la lotta di classe [4].
Una versione francese di The American Worker è stata pubblicata, a partire dalla conricerca tra gli operai della Renault, da «Socialisme ou barbarie». L’articolo fu tradotto in italiano dallo storico sociale Danilo Montaldi, che fu di stimolo a Raniero Panzieri e a Romano Alquati nell’avvio dei «Quaderni rossi», sulla base della conricerca dentro il crescente fenomeno degli scioperi a gatto selvaggio, delle occupazioni di fabbrica e delle rivolte operaie, come quelle di Genova del 1960 e di Torino del 1962; si tratta di lotte organizzate autonomamente rispetto ai sindacati e ai partiti di sinistra. I principali protagonisti sono stati i lavoratori immigrati provenienti dal Sud, formalmente non comunisti o socialisti come quelli del Nord, che erano orgogliosi della propria eredità di resistenza antifascista ma relativamente inattivi a fronte dell’ascesa della Democrazia cristiana dopo il 1945. I migranti interni provenivano dalla cultura politica prevalentemente cattolica e anticomunista del Sud Italia. Molti erano stati contadini, a cui le condizioni stressanti, noiose e nocive della fabbrica fordista ultra-meccanizzata si rivelarono da subito insopportabili.
Così, un nuovo movimento operaio in una nuova fabbrica doveva essere indagato e compreso, e la sua mobilitazione autonoma doveva essere stimolata. Da allora c’e stato un interesse particolare dell’operaismo italiano e poi del post-operaismo per le lotte degli immigrati. Sono considerate centrali nel progetto capitalistico di ricomposizione tecnica e politica della classe operaia, il che contribuisce a spiegare perché gli immigrati vengono emarginati, discriminati e ipersfruttati dallo Stato moderno e dalla società occidentale razzista. Anche la Teoria critica nella sua versione marcusiana identificava gli «emarginati» (afroamericani e latinos discriminati, omosessuali esclusi, donne oggettivate, studenti delle controculture autoemarginati) come un terreno più fertile per la lotta anticapitalista rispetto alla classe operaia organizzata, intorpidita dall’industria culturale e integrata dallo stato del benessere nella società capitalista [5]. La grande differenza era che per gli operaisti italiani la nuova classe operaia di immigrati non era così integrata e dormiente come appariva. Comunque, la visione della soggettività rivoluzionaria dell’operaismo e della Teoria critica erano completamente differenti e opposte rispetto a quelle del marxismo ortodosso che consideravano gli emarginati come «lumpen», piccoli borghesi, parassiti o controrivoluzionari.
La radicalizzazione delle divergenze
Ben presto gli elementi più radicali dei «Quaderni rossi» (Negri, Tronti e Alquati) si separarono per formare una rivista più direttamente politica, «Classe operaia». Negri aveva anche lasciato il Psi che nel frattempo aveva formato il primo governo di coalizione di centro-sinistra con la Dc nel 1963, rompendo così con il Pci, di cui Tronti è sempre stato membro. L’intensità delle lotte in fabbrica, nelle scuola, nelle università e nei quartieri cresceva implacabilmente. Finalmente, nell’«autunno caldo» degli scioperi e delle occupazioni di fabbrica del 1969, convergevano il movimento studentesco del 1968 e l’ancor più potente movimento operaio autonomo. Mentre Adorno chiamava la polizia per espellere gli studenti che occupavano l’Istituto di ricerca sociale di Francoforte, Negri – già intellettuale di riferimento e tra i leader del gruppo neo-leninista Potere operaio – contribuiva a forgiare il più importante movimento studentesco e operaio dell’Europa occidentale.
Questo movimento è andato avanti fino alla fine degli anni Settanta, a differenza dei movimenti francesi e tedeschi del 1968, inizialmente più intensi, che però non durarono nel tempo. Ormai la divergenza teorica e politica tra Francoforte e Padova era notevolmente marcata, e le forti radicalizzazioni politiche degli anni Settanta in Italia, con la nascita dell’Autonomia operaia, con il movimento di giovani e studenti del Settantasette e con oltre 200 organizzazioni armate condussero alla dichiarazione dello stato di eccezione e, nel 1979, all’arresto e alla reclusione di Negri e di gran parte dell’intellettualità rivoluzionaria italiana, accusata di terrorismo.
Questa situazione è quanto di più contrastante possa esserci rispetto alla conversione della Teoria critica tedesca in un movimento intellettuale socialdemocratico guidato da Habermas, un riformista moderato e persino tollerante nei confronti del recente passato nazionalsocialista; va però riconosciuto che il ramo americano ha mantenuto una maggiore radicalità grazie all’opera di Marcuse, che ha ispirato i movimenti sociali e controculturali negli Stati Uniti degli anni Sessanta.
Ne consegue che il rapporto di Negri con la Teoria critica è stato soprattutto polemico, in particolare contro il suo pessimismo, per non dire catastrofismo, per la sua concezione trascendentale del potere e la sua decisiva continuità con il marxismo ortodosso, dando rilievo storico nella lotta di classe al lavoro morto del capitale rispetto al lavoro vivo della produzione proletaria, basata sulla cooperazione sociale. Si tratta di un completo ribaltamento della posizione operaista elaborata da Tronti [6].
Negri ha sempre accettato un debito nei confronti della Scuola di Francoforte e del pensiero marxista tedesco del XX secolo. Tuttavia, lui e i suoi compagni hanno sviluppato idee molto differenti se non opposte rispetto al francofortismo sulla democrazia, sullo Stato, sulla violenza, sul tempo e sulla priorità dell’immanenza nella loro interpretazione del pensiero di Marx. Queste differenze li hanno posti in conflitto con le influenze kantiane sulla Teoria critica, attraverso uno scambio dialettico continuativo negli ultimi quarant’anni che avrebbe indubbiamente potuto contribuire ad aggiornare alcuni aspetti della Teoria critica, per quanto indirettamente. Non ci sono però indizi su quanto tali critiche siano state messe a valore dalla seconda e terza generazione di francofortesi. A giudicare dalle reazioni generalmente ostili alle più recenti pubblicazioni di Hardt e Negri da parte di Hirsch e Holloway, due teorici del «marxismo aperto» [7], influenzati dalla Scuola di Francoforte ancorché non ne siano membri o associati, tutto lascia supporre che tale valorizzazione non sia avvenuta.
Sintesi difficoltose
D’altro canto, una nuova generazione di teorici critici, come Barnhart, sta cercando di sintetizzare quelli che considerano gli aspetti più importanti dei concetti post-operaisti di Negri («impero», «moltitudine» e «comune») con le idee «anti-moderniste» della Teoria critica, in particolare della prima generazione, sulla questione del tempo della trasformazione politica:
Hardt e Negri esprimono ammirazione per i pensatori della Scuola di Francoforte, come parte di «una lunga tradizione di pensiero “anti-moderno” che si oppone alla sovranità» [8], tuttavia ritengono la loro attenzione all’unidimensionalità dello sviluppo capitalistico totalitario fuori luogo rispetto a una situazione storica che richiede un ripensamento dei paradossi della pluralità e della molteplicità. Per Hardt e Negri, Adorno e gli altri membri della Scuola di Francoforte possono essere pensatori esemplari della società disciplinare, ma nella transizione del dopoguerra alla «società del controllo» è stata superata la rilevanza della loro analisi. […] L’esclusione di Adorno e dei suoi compagni come possibili risorse per teorizzare il presente è una decisione contro la tradizione hegelo-marxista e contro l’enfasi di questa tradizione sulla categoria della negazione. Negri e Hardt rifiutano la tradizione hegeliana e cercano invece di costruire il proprio orientamento a partire da Spinoza, un filosofo che ammirano per la sua concezione di una temporalità immanente libera dalla negazione. Nella sua dedizione a quello che chiamano il tempo positivamente aperto e costitutivo di Spinoza, Hardt e Negri hanno provocato un riorientamento immensamente produttivo nel pensiero della temporalità e del rapporto tra temporalità e cambiamento politico qualitativo [9].
Dopo aver difeso l’attualità della teoria della negazione di Adorno e aver criticato le carenze percepite nelle teorie di Impero e Moltitudine di Hardt e Negri, Barnhart sottolinea alcuni punti comuni tra i due filosofi sulla questione del trascendentalismo: «Sia Negri che Adorno vedono un conservatorismo sospettoso a motivare le forme trascendentali del tempo e l’impulso trascendentale a presentare la temporalità come un elemento di organizzazione sociale e soggettiva esente da sfide» [10]. Tuttavia, essi «propongono strategie sostanzialmente diverse per criticare gli ostacoli trascendentali in tutti i movimenti che mirano a un futuro qualitativamente differente. […] In Time for Revolution [11] […] la classe operaia è la fonte di tutta l’innovazione e di tutta la potenza produttiva. Non solo fornisce il lavoro che guida la produzione capitalistica, ma fornisce le strutture organizzative di questa produzione e le forme di cooperazione che intervengono in essa. Secondo Negri, la classe capitalista non organizza la produzione, ma si limita a imporle una struttura di comando. […] Il risultato è che la classe operaia genera le proprie forme di temporalità» [12].
Dall’altra parte, «Adorno [in Minima Moralia [13]] sottolinea il forte intreccio di lavoro vivo e morto»:
Tanto maggiore è la composizione organica di qualsiasi formazione di capitale, quanto maggiore è la predominanza di strumenti, macchine e altri apparati tecnici, cioè di cose costruite con gli sforzi precedenti del lavoro vivo. […] Dal punto di vista di Negri, questa formulazione fa parte di un pessimismo che non dà al soggetto del lavoro vivo sufficiente autonomia […] La dedizione di Adorno a un pensiero negativo informato da Hegel e Marx lo rende capace di vedere il coagularsi delle forze produttive solo come formazioni che catturano o smussano le energie produttive della moltitudine. Nel suo tentativo di lasciarsi Adorno alle spalle, Negri sposta l’accento sulla produttività e sulla creatività senza limiti delle forze sociali vive. Si tratta di un cambiamento positivo, ma ciò che è scomparso con il movimento di Negri oltre Adorno è l’attenzione alla forma singolare delle formazioni sociali in cui vivono [14].
Teoria dentro la militanza e filosofia sopra le macerie
Una delle prime aree di disaccordo tra Negri e la Scuola di Francoforte riguardava la questione della forma-Stato. Negri ha criticato le proposizioni sull’emergere di uno Stato nazionale capitalista moderno sempre più burocratico e razionalizzato, tendenzialmente neutrale, preoccupato della sua legittimità democratica, politicamente autonomo e non necessariamente favorevole al mercato (sotto il keynesianesimo). Contro questa visione legittimante dello Stato, Negri sostiene che la priorità dello «Stato-piano» rimane il controllo e il disciplinamento dell’«operaio massa» fordista con l’imposizione di un asse di repressione-integrazione e la continua ricomposizione tecnica e politica della classe che porterà alla sua scomparsa e sostituzione con l’«operaio sociale», reso flessibile dal post-fordismo [15].
Prima di criticare Habermas e Offe, due delle grandi figure della seconda generazione, Negri riconosce l’importante contributo della Scuola di Francoforte nel portare avanti la «definizione strutturale dello Stato». Mentre Offe è più critico di Habermas del carattere burocratico, totalitario e razionale-strumentale dello Stato moderno, condivide ancora l’enfasi di quest’ultimo sull’autonomia politica dello Stato e sull’importanza della sua attività di autolegittimazione attraverso il dibattito democratico; è la base della teoria dell’agire comunicativo [16] e dell’affermazione, sia contro Adorno che contro Negri, che non tutto è perduto con la modernità [17]. Negri sostiene invece che la funzione principale dello Stato non è quella di agire come una sfera relativamente neutrale del potere per l’intermediazione e il coordinamento delle differenti tendenze e interessi settoriali dentro il capitale, ma come uno «Stato-piano», incaricato del compito della continua ricomposizione tecnica e politica della classe operaia, in modo che il capitale possa controllarne l’inquietante soggettività e utilizzarla per i propri fini.
Negri avrebbe poi analizzato il passaggio dallo «Stato-piano» keynesiano-fordista allo «Stato crisi» neoliberale/postfordista, che gestisce l’«operaio sociale» cognitivo e precario attraverso la manipolazione della crisi economica permanente, prima di passare alla figura post-nazionale di «impero», un sovrano globale deterritorializzato che cerca di controllare la «moltitudine» (non più la classe operaia o il proletariato, tanto meno il popolo) attraverso strategie foucaultiane di governance «biopolitica», soprattutto attraverso la guerra in tutte le sue forme.
In conclusione, Negri considera la Scuola di Francoforte come uno dei punti di riferimento più importanti per lo sviluppo della sua teoria generale, per la sua comune ascendenza dal comunismo consiliarista e dal marxismo eterodosso:
Max Horkheimer e Theodor Adorno, insieme ad altri pensatori della Scuola di Francoforte […] hanno impresso un’altra svolta nella storia del marxismo. Adorno e Horkheimer hanno tematizzato il dissolvimento della distinzione concettuale tra struttura e sovrastruttura, hanno analizzato la funzione degli apparati ideologici nell’esercizio del potere […] hanno segnalato il compimento della sussunzione reale della società sotto il comando del capitale. L’esito di queste ricerche è una «fenomenologizzazione» della critica, vale a dire una dislocazione del modo di intendere la relazione tra la critica e i suoi oggetti come un dispositivo materiale interno alla dimensione collettiva dei corpi – un passaggio, in altre parole, dal livello trascendentale al piano di immanenza. Queste innovazioni sono indicative di una prospettiva piuttosto estranea al marxismo: il punto di vista dei corpi. L’attribuzione di queste svolte ad Althusser e alla Scuola di Francoforte è tuttavia parziale in quanto siamo convinti che la sostanza di questo passaggio, che è rilevante in questi autori solo a un livello intuitivo, è stata compiuta all’interno del patrimonio teorico elaborato dalla militanza e dall’attivismo politico [18].
Altri riferimenti centrali per Negri sono stati il post-strutturalismo di Foucault, Deleuze e Guattari, in cui troviamo anche una certa affinità con la negazione della modernità di Adorno. Tuttavia, l’autonomia come movimento teorico ha sempre privilegiato la pratica politica, lo stesso Negri ha subito le conseguenze della sua militanza rivoluzionaria con la prigione e l’esilio, mentre la Teoria critica, quasi sola tra le varie tendenze marxiste, volando come l’Angelus Novus di Benjamin[19] con lo sguardo rivolto all’indietro sulle macerie della storia, è rimasta ai margini dell’attività politica diretta. Certo, questa enfasi sulla teoria invece che sulla pratica non danneggia necessariamente la validità degli approcci della Scuola di Francoforte, almeno in termini filosofici, ma non si concilia facilmente con il rifiuto della filosofia pura che Marx ha proposto nelle Tesi su Feuerbach e nella Miseria della filosofia, né con l’approccio del portare avanti la lotta di classe attraverso la prassi, cosa che non ha esitato a menzionare un critico della Teoria critica come Lukács.
Note
[1] S. Gandler, Fragmentos de Frankfurt: Ensayos sobre la Teoría crítica, Siglo XXI, Ciudad de México 2009.
[2] P. Romano, The American Worker, Facing Reality Publishing Company, Detroit 1946 [trad. it. «Battaglia comunista», 1954-55).
[3] K. Marx, L’inchiesta operaia, trad. it. La città del sole, Napoli 2006.
[4] H. Cleaver, Reading Capital Politically, University of Texas Press, Austin 1979.
[5] H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolte, trad. it. Mondadori, Milano 1973.
[6] M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966 [DeriveApprodi, Roma 2006].
[7] J. Holloway – W. Bonefeld – R. Gunn – K. Psychopedis, a cura di, Open Marxism, Vol. III: Emancipating Marx, Pluto Books, London 1995.
[8] M. Hardt – A. Negri, Impero, trad. it. Rizzoli, Milano 2002, p. 141.
[9] B. Barnhart, Between immanence and transcendence: theorizing the time of transformative politics, in A.J. Drake, a cura di, New Essays on the Frankfurt School of Critical Theory, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle 2009, p. 2.
[10] Ivi, p. 5.
[11] A. Negri, Time for Revolution, Continuum, New York 2003.
[12] Barnhart, Between immanence and transcendence, cit., p. 5.
[13] T. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1954.
[14] Barnhart, Between immanence and transcendence, cit., p. 9.
[15] A. Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Feltrinelli, Milano 1977.
[16] J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, trad. it. Il Mulino, Bologna 1986.
[17] J. Harbermas, Il discorso filosofico della modernità, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1997.
[18] M. Hardt – A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, trad. it. Rizzoli, Milano 2010, pp. 35-36; T. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1974.
[19] W. Benjamin, Angelus Novus, trad. it. Einaudi, Torino 1962.
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