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Islam politico e religione: reazione o possibilità emancipatrice? 

A gennaio 2025 a Torino è stata organizzata una auto-formazione con Said Bouamama, storico militante algerino che abita in Francia e con cui avevamo già avuto modo di confrontarci in passato. Le pagine che seguono sono la trascrizione (e traduzione) di una parte di quel momento e quindi restituiscono il flusso del discorso direttamente dalle sue parole.

Prima di addentrarsi nella lettura, occorre sottolineare due aspetti, da un lato l’attualità di questo ragionamento rispetto a una questione aperta: l’incapacità delle sinistre – o sedicenti tali – di proporre un’opzione credibile che parli di un immaginario di trasformazione desiderabile e che lo costituisca come ipotesi programmatica; dall’altro lato, il metodo si rivela ancora una volta uno strumento dirimente per sostanziare un’ipotesi di ricomposizione. Proponiamo questo estratto perché ci sembra che il tema risulti all’ordine del giorno, seppur su scale di intensità diverse a diverse latitudini. Buona lettura!

Said Bouamama: Partiamo dando alcuni elementi di riferimento che mi sembrano ineludibili se vogliamo comprendere un minimo la questione, altrimenti rischiamo derive culturaliste, attribuendo uno sguardo riduzionista sugli altri, le stesse riprodotte dalle classi dominanti. 

1. Ripartire quindi dall’Abc del materialismo: ciò che determina l’attivazione dei dominati è il loro vissuto concreto e materiale e non un piano ideologico. L’ideologia ha un ruolo ma è inefficace se non si basa sulla materialità, le rivolte e i conflitti radicali sono sempre momenti scaturiti da una spinta su base materiale. Nel risultato della rivolta che prende avvio da spinte materiali i dominati assumono le forme della rivolta che sono disponibili. I dominati si rivoltano nelle forme che sono disponibili in dato momento, secondo le griglie di lettura e i canali di organizzazione esistenti.

2. Uno strumento che permette di leggere la questione dell’islam politico oggi, nelle sue contraddizioni, è l’apporto di Marx alla questione religiosa. Questo contributo di Marx è stato letto in modo riduttivista dai militanti, la sua nota frase sulla religione molto spesso si usa interrompendola a metà: “la religione è l’oppio dei popoli” senza concludere con “ma è il soffio dello spirito oppresso”. La religione ha questo aspetto contraddittorio di essere contemporaneamente una forma di espressione dell’oppresso e anche strumento delle classi dominanti che lo opprimono. Ciò significa che delle rivolte a base sociale, per motivi economici possono prendere delle forme religiose, quando altri canali di espressione non sono adeguati, non sono disponibili o poco credibili. Bisogna rileggere i testi di Engels sulla Guerra dei contadini, in cui viene analizzato un movimento che a primo sguardo assume caratteri religiosi, ma che in realtà si basa su caratteri materiali dello sfruttamento di quel segmento di classe. Quindi i dominati si rivoltano come possono, noi dobbiamo riflettere sulle nostre attitudini, interroghiamoci su ciò che viene messo a disposizione. In Francia abbiamo avuto un dibattito molto polemico al momento delle rivolte dei quartieri popolari, bisogna partire dal presupposto che in Francia è esistito un importante movimento operaio fortemente rivendicativo e rivoluzionario che però ha negato le oppressioni della parte di proletariato dei quartieri popolari, quindi quando sono emerse queste rivolte esse hanno assunto una forma spuria con le forme che erano disponibili. L’assenza di legami con il movimento storico operaio, assenza di organizzazioni sui territori, assenza di rivendicazioni antirazziste spiega come è stato possibile che queste rivolte prendessero una forma anche brutale, senza un programma politico, perché hanno utilizzato le forme che avevano a disposizione.

3. Va considerata poi la conclusione di Fanon sui processi di emancipazione del dominato, dove descrive il passaggio dall’accettazione della dominazione alla rottura con essa. Ci propone di assumere questa griglia di lettura sia per leggere le traiettorie che vivono le persone a livello individuale, sia per le espressioni a livello di classe, collettiva. Questo approccio vale non solo per la dimensione della schiavitù e del colonialismo, ma anche per altre dominazioni di genere e classe. Parte da un dato, che anche quando viene riconosciuto è sottostimato per gli effetti che ha avuto, ossia la violenza totale che significa la schiavitù. Perché se sottostimiamo cosa ha significato per le società colonizzate la dimensione di questa violenza che ha significato la distruzione di modi di vita secolari, distruggendo la coerenza stessa (la possibilità di riproduzione) delle società, allora non capiremmo perché il processo ha preso la direzione che ora descrivo. Per Fanon ciò che ha reso possibile questa violenza sui popoli colonizzati, schiavizzati, è il fatto che bisogna presupporre che ci sia un sentimento di inferiorità che viene assunto dagli stessi popoli dominati. E contestualmente nei popoli dei paesi dominanti si sviluppa un sentimento diffuso di superiorità. La presa di coscienza di questo sentimento è quella che esprimo i soldati africani e asiatici che hanno partecipato alla prima e seconda guerra mondiale, quando, a livello storico, si sono resi conto che il soldato bianco al proprio fianco piangeva e soffriva esattamente come loro. In quel momento si è infranto il sentimento di invincibilità. La prima tappa per fare fronte a questa violenza totale e al sentimento di interiorizzazione dell’inferiorità, consiste nel fatto che il dominato cerca di somigliare al dominante. Il primo riflesso è questo e non un riflesso di contestazione, non è un riflesso rivoluzionario. L’idea è che se, essendo io inferiore, corrispondo al desiderio dei dominanti allora posso accedere all’uguaglianza. In questa fase il modello della bellezza è il bianco (vi sono esempi di sbiancamento della pelle in Africa ancora oggi). Soltanto la constatazione progressiva, nonostante lo sforzo di sottomissione e di dominazione, può permettere un processo di rottura.

Vediamo poi svilupparsi una fase di reazione, ossia il tentativo di intraprendere un itinerario completamente inverso rispetto al dominante, ciò significa che tutto ciò che viene svalorizzato dai dominanti viene rivalorizzato, è il periodo di Black is Beautiful. Ma ancora questo passaggio non è sufficiente per l’emancipazione. È il periodo descritto da Aimé Cèsaire con la frase “le negre t’emmerde” ossia “il negro ti smerda”. Fanon lo descrive dicendo “la plongé dans le trou noir” “il tuffo nel buco nero”. In questa fase tutto quello che è svalorizzato dal dominante viene rivendicato dal dominato, lo stigma è ripreso come bandiera, questa fase può fermarsi qui ma c’è un’altra fase necessaria, ossia quando non si è più nella reazione, ma nella comprensione del sistema politico ed economico-sociale, del rapporto di dominazione e dunque si entra nella fase della coscienza politica. 

Durante la seconda fase, quindi quella del rigetto di quello che viene valorizzato dal dominante, la religione assume un ruolo centrale, perché le religioni dei dominati sono definite come religioni retrograde, non sviluppate, e ciò andrebbe anche a spiegare il carattere non sviluppato delle economie delle società dominate e giustifica così la colonizzazione. Bisogna evitare una lettura meccanicista delle “epoche della rivolta”, che vedrebbe una rivolta dal volto politico (marxista panafricanista) e che oggi lascerebbe il posto a una dimensione caratterizzata prioritariamente dalla religione. Non è andata così. I movimenti decoloniali hanno tutti avuto una dimensione religiosa, erano certo ispirati ai dibatti del mondo militante marxista ma avevano anche una base religiosa e, questo presupposto è valido per tutti i movimenti di liberazione nazionale, tutti i movimenti sono stati un mix dei due aspetti. Ciò che è vero invece è che assistiamo a una dismissione progressiva delle griglie di analisi della sinistra nel periodo attuale che avviene da 20-30 anni a questa parte, questo è vero, ma ciò non significa che il discorso religioso non esistesse prima. 

L’islam politico non è qualcosa di nuovo, la differenza è che quello del passato era influenzato esso stesso dalle griglie di lettura progressiste e una teologia della liberazione musulmana tendeva a emergere in determinati contesti così come in America del Sud emergeva una teologia della liberazione cristiana. Il FLN algerino ha prodotto dei testi tra il 1954 e il 1962 che si basano sull’islam e su una sua interpretazione progressista. In seguito, ci sono state le indipendenze che non sono state soltanto un’emancipazione, sono state un movimento contraddittorio che unisce il fallimento dei colonizzatori ma anche la reazione, la controffensiva dei colonizzatori. Una strategia dei paesi colonizzatori per cambiare tutto senza cambiare niente, mutare le forme pur mantenendo un’egemonia. Per comprendere gli ideali che hanno nutrito la lotta di liberazione nazionale bisogna tenere in conto la questione delle classi sociali. Per definizione il colonialismo impedisce, blocca, lo sviluppo di tutte le classi sociali compresa la borghesia. Le indipendenze sono seguite da anni in cui c’è stata un’accelerazione della cristallizzazione delle classi sociali che prima era contenuta e compressa dalle dinamiche coloniali. I movimenti di liberazione nazionale sono stati diretti da coloro che avevano accesso alla cultura politica, tramite insegnamento, lettura, chi aveva la possibilità di studiare, quindi dalla piccola borghesia. Si trovarono quindi poi davanti a una scelta: o mantenere i propri ideali e rinunciare a diventare borghesia a propria volta, oppure suicidarsi in quanto classe. 

“Suicidio di classe” è un concetto che ha proposto Amilcar Cabral, chiamato il Lenin africano, colui che ha spinto più in avanti una lettura marxista della realtà africana. Per Cabral la piccola borghesia che accede al potere se non ha preso coscienza finisce per diventare strumento delle borghesie europee. In molti Stati nascono leader, originariamente individuati dai popoli durante i movimenti come dei grandi rivoluzionari, che poi finiscono per trasformarsi nei cani da guardia delle borghesie europee. Allora la reazione dei popoli è stata quella di cercare altri canali di espressione politica che si discostassero da questi leader, che pur mantenendo discorsi marxisti e di sinistra, si allineavano agli interessi imperialisti. 

L’islam politico diventa quindi un’opzione in questo senso. Le speranze nutrite nei movimenti di liberazione sono deluse dalla realtà post indipendenza che rimane neocoloniale, questo contribuisce a relativizzare i discorsi di liberazione presenti in precedenza. Se a questo aggiungiamo la crisi del movimento progressista internazionale degli anni 80, la fine dell’URSS, la fine della credibilità dei canali progressisti storici, allora i dominati non possono autorisolversi e cercano altri canali, tra cui l’islam politico. Coloro che elaborano le teorie utili a giustificare l’imperialismo prendono in considerazione questo fatto, esattamente nello stesso momento in cui invece i progressisti sottostimano la dimensione di ciò che stava accadendo a livello soggettivo nei popoli dominati. Gli strateghi imperialisti l’avevano ben capito: vi sono rapporti della CIA che descrivono lo spazio e il ruolo che prende l’islam politico tra i dominati. E capiscono subito che l’islam politico può sia orientarsi nella direzione di mettere in discussione la dominazione, sia il fatto che si può agire in altro senso e canalizzare le rivolte verso degli impasse. L’alleanza tra USA e wahabiti in Arabia Saudita per esempio, si costruisce strategicamente, perché è fondata sull’idea di rompere la dinamica potenzialmente rivoluzionaria della dimensione religiosa per orientarla verso una dimensione reazionaria. L’errore da non fare è quello di considerare l’islam politico un blocco omogeneo perché è al contempo il risultato delle aspirazioni dei dominati di emanciparsi e il risultato del tentativo strumentalizzazione dei dominanti verso l’impasse politico, è il rapporto di forza tra questi due aspetti che determina la direzione in cui va l’islam politico. 

Dipende molto dai territori e dai Paesi, per esempio ci sono dei luoghi in cui la colonizzazione è una realtà ancora molto pregnante come la Palestina e l’islam politico è globalmente, quasi maggioritariamente in una dimensione progressista, di orientamento rivoluzionario. Se leggete le analisi di Hamas che fanno il bilancio del cessate il fuoco, se andate all’essenziale dell’analisi togliendo la frase iniziale e finale che omaggia a dio, vedrete che sono basate sull’analisi del rapporto di forza, della strategia politica, perché in un contesto coloniale tutte le altre questioni sono sovradeterminate dal contesto coloniale. Stessa cosa per Hezbollah, ma è completamente diverso se prendete il discorso dell’Arabia Saudita o del Qatar. 

Nell’immigrazione la questione dell’islam politico è sovraccaricata dalla questione identitaria. Una serie di elementi che attirano dell’islam dipendono dalla loro forte dimensione identitaria nei termini di affermazione, perché si vive in un contesto di negazione della propria appartenenza e identità, quindi ci si riappropria di una dimensione caratterizzata da un sussulto di dignità e di affermazione attraverso questo strumento. Nel rapporto quindi con l’affermazione dell’islam politico nei quartieri popolari bisogna evitare dinamiche di semplice reazione, ma impegnarsi in un lavoro di alleanza senza cedere su delle rigidità che riguardano i valori progressisti, per poter lavorare, analizzare, per capire quali elementi riguardano la reazione identitaria e quali appartengono a dinamiche di emancipazione, terreno sul quale ci si può incontrare. Le attitudini, ancora molto diffuse, che rifuggono i contatti con chi non appartiene a una dimensione di purezza ideologica ci impediscono di prendere i dominati per quello che sono e quindi non permettono di cambiare le cose. Consiglio di Lenin: non ci sono rivoluzioni pure, tutte le rivoluzioni emergono piene di contraddizioni e queste rivoluzioni o aspettiamo che diventino pure per sostenerle oppure ci impegniamo nella lotta in modo da direzionarne il terreno, la discussione, il dibattito, in un rapporto che si costruisce nella lotta. 

Per fare un esempio, pensiamo ai Gilets Jeunes, uno degli ultimi più grandi movimenti in Francia: una gran parte dei militanti di sinistra in Europa ha rifiutato di prenderne parte perché li ha etichettati come fascistoidi, perché certo all’interno vi erano elementi reazionari, perché era un movimento pieno di contraddizioni, ma c’erano anche punti di vista progressisti. Così il movimento francese di sinistra ha lasciato andare questo movimento invece di entrarci, lavorarci e orientarlo in una certa direzione. 

Il momento di passaggio di due epoche da una capitalista a una socialista, è un processo storico che ha una sua durata e non avviene come l’avvento di una “grande sera” della rivoluzione che in un dato momento ci porta la liberazione. È un processo di flussi e di riflussi, di vittorie e di arretramenti, di offensiva e di controffensiva, se non lo concepiamo in questo modo finiremo nell’impotenza perché per forza di cose ci saranno delle sconfitte a un certo punto e allora a quel punto penseremo che tutto è perduto. La questione è individuare ciò che va nella direzione della trasformazione e ciò che va nella direzione della reazione. Questi aspetti devono essere chiari oggi ed è ancor più importante che lo siano perché siamo in una fase storica in cui riemergono griglie d’analisi marxiste, nazionaliste, panafricaniste in Africa, un dibattito che è molto poco percepito da qua. 

L’Africa è in ebollizione in questi anni, c’è stato un seminario internazionale a Dakar sull’attualità del panafricanismo, partecipato da diversi movimenti africani, in Niger una conferenza internazionalista antimperialista.. quindi mentre qui abbiamo impressione che non si riesca a disegnare una prospettiva rivoluzionaria vediamo invece in Africa un’effervescenza che riutilizza un vocabolario marxista, questo pone davvero la questione del nostro punto di vista qui, di cosa guardiamo e di cosa lasciamo fuori dalla nostra prospettiva. Senza idealizzare perché bisogna guardare la situazione, sia in Niger che a Dakar c’erano dei movimenti che si rivendicavano di essere marxisti-musulmani, una rivendicazione che non esisteva da molto tempo e per loro questo non poneva contraddizioni. 

Quindi la percezione dell’islam politico come blocco omogeneo reazionario che invisibilizza la parte dell’islam politico che si muove in un’ottica emancipatoria è una riproduzione del discorso dominante che vuole universalizzare tutte le istanze riferite all’islam come inevitabilmente reazionarie. Se anche noi ci poniamo in questo modo, senza tenere in conto che l’islam politico è contraddittorio, che ci sono ispirazioni, rapporti di forza, allora anche noi arriviamo alla stessa conclusione delle classi dominanti, alimentando islamofobia. Bisogna aggiungere per comprendere le forme della rivolta di oggi, le forme di occultazione e invisibilizzazione di tutte le teorie che vengono dalle vecchie colonie basate su approcci progressisti, panafricanisti, marxisti. Il mio libro “Figures de la Révolution africaine” è stato quello che ha avuto più successo in Africa, presenta diversi leader dagli anni ‘50 agli anni ‘80 fino a Sankara che raccontano con griglie materialiste, panafricaniste e marxiste la storia dei movimenti di liberazione nazionale, perché sono state figure che sono state occultate quindi oggi siamo in una fase di riscoperta, in Senegal si rilegge Fanon, riferimenti che erano spartiti da 30 anni. I militanti di sinistra nei paesi dominati non fanno gli stessi errori che facciamo noi qua e hanno un approccio molto più dialettico rispetto all’islam politico. Se discutete con i compagni del FLP, militanti marxisti, il loro approccio è mettere davanti la dimensione emancipatrice di Hamas o Hezbollah e, rispetto alla base, comprendono che la scelta di ingaggio con l’uno o con l’altro movimento è una scelta che risponde al bisogno di azione. Ci sono dei compagni del FLP che hanno deciso di aderire a Hamas perché semplicemente è l’organizzazione che ha più strumenti e chances di portare avanti la lotta armata, non perché aderiscano ideologicamente. Questo perché assolvono a una funzione ossia rispondere a quella che è la prima preoccupazione, perché la priorità è come ci si organizza a fronte del colonizzatore, siamo lontani da discorsi che parlano di incompatibilità tra islam politico e altre opzioni. Bisogna tenere a mente una frase di un poeta della resistenza francese Paul Eluard “Face a l’oppression ceux qui croit au ciel et ceux qui y ne croit pas sont unis dans le meme combat” “davanti all’oppressione coloro che credono in dio e coloro che non ci credono sono uniti nella stessa lotta”

La laicità 

Bisogna individuare gli interessi sul tema della laicità e gli interessi che la borghesia ha messo su questo terreno per creare l’idea di un pericolo fittizio nelle nostre società, per farlo prima di tutto bisogna smettere di pensare che la laicità sia un’invenzione europea. Tutte le società che sono marchiate da una dimensione multiculturale o multireligiosa sono state obbligate a trovare un modo di funzionare che permettesse a tutte queste anime di vivere insieme secondo regole comuni. Per esempio, nel mio villaggio c’è un autorità religiosa che è l’imam e un’autorità della vita sociale, un amine. Questi due poteri hanno una separazione. La parola laicità non è mai stata inventata, ma funziona così. La pretesa di aver inventato la laicità ha permesso di giustificare la missione civilizzatrice. Perché anche su questo discorso quindi occorre insegnare agli altri, retrogradi e selvaggi, ciò che non hanno imparato, questo è ciò che c’è dietro il ragionamento sulla laicità della classe dominante. 

Il secondo elemento da tenere a mente è che anche in un paese come la Francia dove viene utilizzato in maniera ideologica il concetto di laicità, essa è nata come strumento di protezione delle minoranze religiose, quindi originariamente per ebrei e protestanti, ma oggi vediamo la contraddizione di come è stato ribaltato il concetto di laicità usato per brandirlo come strumento di lotta di fronte alla radicalizzazione della religione islamica, pur essendo oggi una religione minoritaria in Francia. 

Mano a mano che l’Europa sprofonda in una crisi che porta le classi dominanti alla paura del rischio di un’esplosione sociale allora mettono davanti alla contraddizione reale una contraddizione falsa, che sposta il focus. La contraddizione centrale rimane la contraddizione di classe e la contraddizione superficiale, quella artificialmente promessa, è l’idea di un mondo in cui ciascuna società sia divisa tra i partigiani del progresso che sarebbero gli europei, gli occidentali, e gli altri, partigiani della reazione, che sono dei retrogradi, barbari, quindi prende piede l’idea della lotta dei lumi della ragione contro l’oscurantismo viene a sostituire la contraddizione di classe. E questo permette di costruire il nemico interno che è il musulmano, come minaccia, creando una reazione di unità contro di loro. La laicità è uno dei vettori essenziali affinché si costruisca il musulmano come nemico interno, è un concetto che si propone non più come un metodo ma come una realtà che si assume come consustanziale alla civiltà occidentale, assumendo quindi una forma essenzialista. 

Ho scritto un libro che si chiama “Un racisme respectable” che parla della laicità e della sua strumentalizzazione, un razzismo che si copre di bei valori, sono stato portato a rileggere la Bibbia per vedere se davvero c’era questa separazione tra temporale e spirituale, mentre viene detto per i musulmani non ci sarebbe questa separazione tra vita privata e pubblica, tra potere temporale e spirituale, così come la società occidentale, europea, viene descritta come la culla della democrazia, come se nella cultura occidentale ci fossero i valori di laicità e democrazia dalla notte dei tempi.

Ebbene, non ho trovato nulla che desse prova di questo, ma è una ricostruzione ideologica. Concludo dicendo che l’islam come il cattolicesimo come l’ateismo, come tutte le forme di visione del mondo, sono allo stesso tempo forme diverse, ambivalenti, non sono blocchi omogenei, in ognuna convivono aspetti emancipatori e reazionari, non bisogna farsi ingannare da una visione che omogeneizza, chiude in blocchi, secondo un discorso essenzialista e universalista. 

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