Dalla colonia, alla fabbrica, ai quartieri popolari: l’antirazzismo politico in Francia. Intervista a Said Bouamama
Ogni tanto porto in giro il testo di Lenin sul Congresso di Baku in cui, nel dialogo con un azero, alla domanda “ma quindi, compagno Lenin, tu ci stai chiedendo di fare la jihad contro i ricchi?” Lenin risponde “si, è esattamente questo”.
INTRODUZIONE
Abbiamo realizzato questa intervista a Said Bouamama ad aprile 2024 durante il Festival Altri Mondi – Altri Modi tenutosi al centro sociale Askatasuna a Torino, quando il movimento per la Palestina, perlomeno a Torino, era in una fase diversa, potremmo dire agli albori, da quella che sta attraversando in questi mesi. I temi che attraversano questa mobilitazione sono molti, a partire dalla non neutralità della scienza e da qui la formulazione della rivendicazione principale, ossia la rescissione degli accordi accademici con le università israeliane per produrre una rottura all’interno della sfera del sapere a servizio della tecnologia militare, sempre più sofisticata. L’altro tema centrale, prioritario nell’ottica di chi si pone l’ambizione di organizzare e alimentare conflitto per una trasformazione generale della società, è sicuramente quello decoloniale. Vi sono molti angoli dai quali iniziare a porre le basi di un ragionamento e un dibattito in questo ambito, partendo dal presupposto che porsi queste questioni sia inevitabile oggi.
In Italia il dibattito sul decoloniale, sull’antirazzismo politico, sul ruolo della religione nei movimenti e nelle composizioni sociali che si pongono in rottura nei confronti del sistema neoliberale, sul neocolonialismo interno ed esterno, sulle possibilità di un internazionalismo nuovo, sulle lotte anti-imperialiste, sull’orientalismo e l’islamofobia, sul ruolo delle donne arabe e musulmane nelle lotte e nella nostra società, sull’antisemitismo, sulla possibilità di emersione di conflittualità a partire dal proletariato giovanile razializzato, è ancora troppo poco approfondito.
Come dice Edward W. Said, autore palestinese emigrato negli Stati Uniti, professore di letteratura comparata all’Università della Columbia, scomparso nel 2003, in uno dei suoi testi fondamentali “L’Orientalismo. L’Oriente creato dall’Occidente”, è fondamentale avere presente che il discorso colonialista non è soltanto l’effetto di una realtà economica, sociale e politica. Esso ne è una sua forza motrice, l’ideologia orientalista ne costituisce la legittimità. Per porsi le domande giuste allora occorre partire dal presupposto che il proprio quadro di riferimento, i propri codici, i paradigmi con i quali leggiamo la realtà non possano essere i soli, i normali, i superiori.
Con Said Bouamama proviamo a tracciare alcune linee di ragionamento e alcune ipotesi perché crediamo sia urgente porsi le domande giuste, porre un quadro di dibattito condiviso e aperto e, soprattutto, anticipare scenari che potranno aprirsi anche alle nostre latitudini.
Buona lettura.
Partiamo da Marx, lui legge la guerra civile americana come uno scontro tra due modelli di capitalismo: uno quello delle piantagioni che è strutturalmente basato sulla schiavitù e la segregazione, l’altro quello del Nord degli Stati Uniti basato sull’industrializzazione ed il lavoro operaio salariato. Come si inserisce la questione del razzismo e come attualizziamo nel presente di crisi dell’Occidente e dell’Europa questi processi?
Sono le questioni che dobbiamo porci oggi. C’è un errore fondamentale che solitamente viene fatto, ossia pensare che il capitalismo sia qualcosa di astorico. Il capitalismo che appare nel XIX secolo è un capitalismo di un mondo che non è ancora globalizzato, il capitalismo industriale si sviluppa così negando e distruggendo tutte le forme di sfruttamento precedenti. Per esempio il capitalismo quando è apparso si è basato sulla distruzione delle forme feudali, in Francia con la rivoluzione francese si è tagliata la testa dei re, era una rivoluzione anti-feudale. Quando il capitalismo arriva nelle colonie siamo in un altro periodo, il capitalismo si articola con l’imperialismo, lo mette al suo servizio. È per questo che parliamo di capitalismo di dipendenza.
Ora dobbiamo capire oggi di che tipo di capitalismo stiamo parlando in una fase di deindustrializzazione. Vedremo riapparire forme di feudalesimo, forme di dominazione che erano sparite, per esempio quello che ho vissuto con lo sciopero a Emmaus1, ho riscoperto che ancora oggi esiste un sistema di “piantagione”, è questo che ho visto. Emmaus è un sistema di inserimento lavorativo per i sans papier che si basa sul livello di compatibilità e integrazione con il sistema capitalista e razzista. Se in quanto sans papier sei assunto da più di tre anni e lavori bene, allora Emmaus farà un buon dossier sul tuo profilo e verrai integrato sulla base di questo rapporto. Queste persone abitano nello stesso luogo in cui lavorano, come nel sistema della piantagione, è il tuo capo, il padrone, che ti dà da dormire, questo gli permette di avere dei mezzi di ritorsione su di te, è sempre lui che ha la possibilità di farti uscire dal tuo status di schiavitù. Un tempo per gli schiavi la merce di scambio era la libertà, oggi è il titolo di soggiorno, quindi vediamo bene come si sviluppa e ritorna il capitalismo di piantagione. Questo sistema è completamente articolato al capitalismo in senso più largo, dobbiamo prepararci a questo. Non è marginale ma anzi è lo sviluppo del capitalismo di oggi che porta a queste forme. Ciò che vediamo in Italia ma anche in Francia in ambito agricolo ad esempio, altro non è che il feudalesimo.
Le tre fasi del capitalismo.. e la legittimità del razzismo.
Partiamo dall’ipotesi che il capitalismo è qualcosa di subsostanziale e che non possiamo dissociarlo dalla storia. Tutta la realtà è in continuo movimento, quindi bisogna analizzare come questa forma si sia evoluta nel tempo. All’origine vediamo un’articolazione tra diverse forme, ossia coesistono quella che chiamiamo colonizzazione diretta, ossia quando si invia un esercito per occupare materialmente e militarmente un territorio; si struttura così un capitalismo concorrenziale senza monopoli di aziende, siamo nella fase primaria; in questa fase appaiono le prime forme di razzismo, esse si sostanziano insieme a tutte le forme di dominazione, quindi anche il sessismo, partendo dalla stessa radice per strutturare un rapporto di dominazione, ossia la dimensione biologica.
Le mutazioni economiche del capitalismo. Il capitalismo, come dice Lenin, si trasforma in capitalismo di monopolio. Quindi i capitalisti più performanti e più potenti mangiano quelli più piccoli, e si va verso la nuova forma di capitalismo ossia l’imperialismo. L’imperialismo sviluppa una mutazione delle forme della colonizzazione, in particolare perché ci sono delle lotte e delle resistenze, ma non soltanto. I popoli dominati hanno da sempre resistito, non c’è mai stata una pausa dalla resistenza. Ma c’è stato un momento in cui anche la resistenza ha incontrato gli interessi dell’evoluzione del capitalismo: questo va a produrre ciò che chiamiamo neocolonialismo, ossia una dipendenza non più legata esclusivamente alla presenza militare ma una dipendenza legata a meccanismi economici. La resistenza dei colonizzati porta anche a una trasformazione nella forma del razzismo. Dopo la seconda guerra mondiale non è più legittimo dire che esistono delle razze inferiori legate al corpo e alla biologia, dunque bisogna inventare nuove cose. Così si sviluppa un processo di razzializzazione delle culture, si parla di cultura inferiore e superiore, nello specifico si parla di culture più adeguate alla fase di sviluppo della scienza e altre che non lo sono, si gerarchizza sulla base delle culture.
Questo è legato al fatto che fino a che ci saranno popoli dominati il razzismo esisterà perché può sempre cambiare forma per svilupparne una più credibile. Questo significa che se domani riusciremo a costruire un movimento contro la negrofobia e contro l’islamofobia talmente potente che la classe dominante avrà timore, non significherà che il razzismo sparirà, questo significherà che sarà obbligato a trovare un’altra forma. Dal 1945 alla fase della globalizzazione vediamo queste trasformazioni, poi con l’avvio della mondializzazione c’è un cambiamento.
Si inizia a parlare di fine del contrappeso dell’URSS, fine della guerra fredda, tutto questo porta a un nuovo passaggio. Gli USA parlano di fine di un’epoca, Samuel P. Huntington scrive il libro “La guerra delle civiltà”, siamo in una dimensione di opposizione tra civiltà differenti. La globalizzazione parte dal mito di un’egemonia, quella statunitense, che avrebbe distrutto i suoi nemici. È il momento in cui gli USA decidono di “rimodellare”, questo è il termine che usano, l’insieme del Medio Oriente e questa operazione significava colpire l’Iraq, la Siria, e questo spiega tutte le guerre che ci sono state da allora in avanti. Il razzismo deve allora trasformarsi per essere a servizio delle guerre, occorre distruggere tutto ciò che può opporsi all’obiettivo di egemonia totale degli USA, quindi occorre distruggere gli Stati che avrebbero al governo chi potrebbe opporsi a questo piano. Finiscono nel mirino sia Stati che hanno preso una posizione antiUSA ma anche Stati che ancora non si sono posizionati ma dove si stima che la loro popolazione potrebbe un giorno ribellarsi e avere un peso politico e numerico importante. Dunque l’intenzione, per disinnescare questo rischio, è quella di creare una moltitudine di stati suddividendo i territori, Bush sottolinea di non voler essere disturbato nei 20 – 30 anni futuri da nuove potenze emergenti. Quindi l’idea degli USA è di approfittare del fallimento dell’Unione Sovietica per provvedere a un rimodellamento del mondo. Quindi per fare ciò occorre bloccare l’espansione della Cina, di conseguenza si sviluppa un razzismo antiasiatico che è meno violento degli altri perché la Cina ha i suoi strumenti di ritorsione a livello economico e di scambio commerciale. Emerge poi il fenomeno dell’islamofobia e si verifica sia un’emersione interna sia una internazionale, soprattutto perché si sa che le guerre in corso possono suscitare delle reazioni da parte dei figli di seconda generazione che in Francia sono nati da genitori che hanno origini musulmane. L’islamofobia è uno strumento per anticipare le rivolte dei quartieri popolari per soffocarle e contemporaneamente per giustificare le guerre che si protraggono nei paesi musulmani che, guarda caso, sono anche i Paesi che hanno il petrolio e il gas che si vuole controllare. La negrofobia emerge in relazione al fatto che l’Africa è il continente in cui si fanno molteplici scoperte e ricerche geostrategiche essenziali. È chiaro che la dominazione del Medio Oriente e dell’Africa, è fondamentale. Le terre rare, il coltano, l’industria degli armamenti, l’elettronica, la tecnologia, sono industrie che si sviluppano grazie allo sfruttamento di questi territori. La negrofobia serve a giustificare gli interventi occidentali in Africa, con particolare attenzione al ruolo dell’Europa e della Francia in Africa, Macron stesso riprende teorie razziste vergognose. Queste sono le forme contemporanee del razzismo che prendono origine con la globalizzazione e che hanno il ruolo di rafforzare l’obiettivo della balcanizzazione.
Concludendo ci sono tre fasi del capitalismo: quella infantile, quella della maturità e il capitalismo senile.
Guardando al fenomeno migratorio in Italia hai detto che ti sembra un contesto simile a quello della Francia degli anni 70. Raccontaci la storia delle lotte dei quartieri popolari, cercando di sottolineare i limiti e i punti di forza, in particolare gli errori fatti dal movimento bianco nel relazionarsi con il movimento antirazzista, decoloniale e dei quartieri popolari. Sono temi che dobbiamo porci oggi a fronte dell’emersione di una soggettività giovanile che vive un’identità combattuta che va oltre la richiesta di integrazione ma che riprende la propria appartenenza come strumento di riscatto.
Inizio ricordando l’apporto di Abdelmalek Sayad2 che è un sociologo che ha avuto il grande pregio di fare comprendere molte di queste cose. Lui disse il lavoratore e l’immigrato è quasi un sinonimo, è importante avere questo presente, per non perdere il legame con la questione del lavoro. Bisogna intrecciare la storia delle lotte dei quartieri popolari a due aspetti: la dimensione della temporalità e la dimensione della trasformazione della classe operaia. Sulla prima questione bisogna avere presente che quando un immigrato arriva in un luogo non possiamo aspettarci che abbia di per sé un ragionamento, una reazione alle oppressioni, o che sia capace di modellarsi sulla soggettività di coloro che sono originari di quel territorio, egli arriva con una soggettività di altrove. I primi tempi nella terra di migrazione, con il lavoro, possono sembrargli un miglioramento della situazione precedente. Se dimentichiamo questo presupposto si possono rifare gli stessi errori commessi dal movimento operaio che lamentava assenza di militanza e di partecipazione al movimento da parte degli immigrati. Questo perché non si tiene conto del fatto che la loro esistenza non va messa in relazione con la contemporaneità del presente che vive ma con la dimensione di miseria da cui sta fuggendo. Quindi questo passaggio intermedio è inevitabile, con la nascita dei figli, delle seconde generazioni, c’è un salto qualitativo, sono marxista, dunque penso che vi sia un salto qualitativo. Per esempio, la prima Marcia per l’Uguaglianza, nessuno sottolinea perché venga organizzata proprio nel 1983. Questa data è particolare perché arriva vent’anni dopo l’indipendenza dell’Algeria, ed è la prima generazione di coloro nati in Francia dopo l’indipendenza, è per questo che oggi la questione della generazione in Palestina è importante. Ciò che ha fatto sì che i giovani lottino oggi in Palestina è il fatto che siamo di fronte alla generazione del fallimento degli accordi di Oslo. Chi ha vent’anni oggi sono coloro che hanno visto che il processo di pace non portava da nessuna parte. Voi qui in Italia sarete confrontati a questo perché quando coloro che sono nati qua diventeranno adulti questa sarà la situazione.
La Marcia è stata quindi il momento fondatore…
Prima della marcia c’erano delle lotte importanti, c’erano degli scioperi di lavoratori, chi si pensava lavoratore era socializzato nella fabbrica, perché all’arrivo in Francia gli immigrati venivano immediatamente assunti e così si unirono al movimento operaio. Bisogna quindi articolare questa fase alla trasformazione della classe operaia. Innanzitutto, il punto debole della sinistra è stato quello di parlare di una classe operaia mitizzata, quando in realtà era eterogenea e con una storia. Con la globalizzazione la classe operaia si è divisa almeno in due parti, una parte che gode di un minimo di stabilità e una che vive nella precarietà. Coloro che sono più stabili sono coinvolti nei sindacati, perché la forma organizzativa dei sindacati sembra ancora appartenergli. L’altra parte, che non è al di fuori del lavoro, ma è inserita nel contesto lavorativo in maniera precaria e parcellizzata, implica che lo spazio di socializzazione non sia più la fabbrica ma il territorio. L’identificazione avviene in relazione non più con la fabbrica ma con il quartiere, la città.. è anche per questo che, quando abbiamo scelto il nome del nostro movimento, abbiamo scelto di chiamarci Fronte Unito delle Immigrazioni perché non volevamo abbandonare la lotta di chi era ancora nella dimensione stabile dei lavoratori immigrati ma volevamo prendere in considerazione anche tutta la dimensione precaria afferente ai quartieri popolari.
La Marcia dell’83 è l’espressione di questa categoria. Della prima generazione nata in Francia che si autorizza a chiedere l’uguaglianza, ad aprire il dibattito e mettere al centro questioni che le loro famiglie non avevano mai avuto modo di porre, anche in forme provocatorie, per fare degli avanzamenti. Allo stesso tempo è l’espressione della territorializzazione legata alle nuove forme di gestione del capitalismo della classe operaia. Se questo per noi risulta chiaro, allora comprendiamo anche che la classe operaia non è unita all’origine ma ottenere l’unità deve essere il risultato: il capitalismo stratifica, organizza una piramide delle dominazioni, per evitare proprio il rischio di unificazione. Il ruolo delle organizzazioni è proprio quello di unificare, per farlo non si possono non prendere in conto in primis gli interessi dei più sfruttati, di coloro che stanno al fondo della gerarchia della dominazione. Non si può immaginare di ricomporre la classe operaia senza parlare dei più sfruttati, senza parlare dei sans papier, perché bisogna tenere in conto coloro che hanno di meno da perdere. Oggi abbiamo tre posizioni nei movimenti sindacali e di sinistra: chi parla di una sola classe operaia, chi dice che bisogna unificare francesi e immigrati ma senza parlare dei crimini razzisti e, infine, quella minoritaria ossia quella dei diretti interessati e che proviene dai dibattiti che sono stati messi al centro dagli Indigènes de la République e, prima, dal Mouvement Indipendent de Banlieues (MIB), che hanno tentato di dire che non può esserci unificazione se vengono dimenticate le nostre oppressioni.
Io ho preso parte alla Marcia per l’Uguaglianza e non bisogna idealizzarla, si tratta di una prima tappa, una reazione, non di un progetto politico. È stata una reazione ai crimini razzisti, ciò che ha dato origine alla marcia sono state le violenze della polizia. Ciò che bisogna tenere a mente non è tanto che sia arrivata tantissima gente a Parigi ma ciò che ha fatto la differenza è stata la strada, il percorso fatto in tutta la Francia è stato caratterizzato dal fatto che in tutti i paesini si sono tenuti dibattiti. Durante quegli incontri la prima generazione post indipendenza ha messo al centro le illusioni avute e sognate rispetto alla Repubblica. In questi incontri le persone hanno messo al centro il fatto che divenute adulte, dopo essere state brave a scuola, brave nell’integrarsi con le richieste dello Stato francese per diventare dei cittadini onesti, si sono rese conto di non avere le stesse possibilità di Jean-Pierre3, di non avere le stesse chances lavorative di Jean-Pierre, constatano la disillusione sul discorso “egualitario” portato avanti dalla Repubblica.
Durante la marcia c’è dunque una trasformazione che si gioca, anche perché il governo cerca di strumentalizzare il movimento provando a dividerlo sul livello generazionale. Il Partito Socialista fa un discorso che divide i giovani dai loro genitori, che vengono considerati “inassimilabili”. Questo avviene in contemporanea alle grandi ristrutturazioni nelle aziende automobilistiche. Qui sono proprio quei genitori i lavoratori e, in quel momento decine di migliaia di lavoratori, rischiano di essere licenziati, dunque si ha paura delle lotte che potrebbero nascere. È un’operazione ideologica, supportata dai media, che cambiano la narrazione sui beurs, perché quello è il momento di rabbonire… allora si parla degli arabi come dei bravi immigrati. Tutto questo dura sei mesi, giusto il tempo per legittimare la ristrutturazione nel settore dell’automobile. In quel momento la nostra reazione è stata andare alla porta delle aziende e rifiutare il licenziamento dei nostri genitori e così il Primo Ministro risponde dicendo, me lo ricordo molto bene, “voi mi avete deluso”. La condizione per l’integrazione e per il riconoscimento nella società era abbandonare la propria appartenenza di classe, bisognava accontentarsi di un riconoscimento astratto, ideale, “siete belli bravi, istituiamo la giornata dedicata agli arabi, mangiamo cous cous insieme e va bene così”. Il fatto di venir rifiutati spiega ciò che succederà in seguito, dopo si apre una fase di guerra. C’è un altro dato, quando Mitterand riceve una delegazione che aveva partecipato alla Marcia, altri avevano rifiutato, io ero tra questi, ci chiede di togliere la Kefjia parlandone come “lo straccetto di Arafat” , questo è il livello, perché la condizione per il riconoscimento da parte dello Stato francese è quella di non sostenere i palestinesi. Inoltre, quando viene chiesto quali fossero le rivendicazioni i giovani non parlano di loro, la rivendicazione è: la carta di soggiorno di 10 anni per i genitori. Questo perché sono cresciuti in delle famiglie che ogni anno dovevano rinnovare il permesso, con il timore di non vederselo rinnovato, quindi sanno che la stabilità delle famiglie è strettamente legata alla stabilità del titolo di soggiorno. Effettivamente Mitterand lo fa, ed è l’unica richiesta che viene accolta.
La prima forma di organizzazione dopo questo evento è il MIB che è un’innovazione nei termini di radicalità del dibattito e delle pratiche, si fanno scioperi della fame, occupazioni, promuovendo un discorso che è unicamente legato all’aspetto sociale. Non vengono inserite le questioni legate al postcolonialismo, il dibattito è sulla cittadinanza. Il MIB mostra che è possibile con la mobilitazione strappare delle cose e il suo discorso è più incentrato sui quartieri popolari che sull’immigrazione. In seguito ci sarà un movimento in reazione a questo, perché è necessario parlare delle questioni legate all’immigrazione, il MIB viene criticato perché non mette come priorità la questione dell’oppressione legata alla razza. Infine, ci sarà un’altra fase in cui si cerca di articolare la classe e la razza, non occorre mettere da parte l’una o l’altra. Questo porta alla creazione degli Indigènes de la Republique, in cui contrariamente a quanto si pensi, le questioni di classe sono presenti, semplicemente sono legate e intrecciate alle altre questioni, perché lo stato coloniale questo significa. Si crea un dibattito interno sul fatto di assumere la dimensione di classe, che riguarda chi si pone la questione di quale sia la nostra base sociale, chi vogliamo organizzare.. unicamente chi è all’università o anche chi abita nei quartieri popolari? La sfida è grande perché devono cambiare i modi di intervenire, il metodo, i discorsi.. questo è il dibattito su cui si basa la separazione degli Indigènes dal Front Uni, non si tratta di una separazione su questioni ideologiche, si basa sul fatto di avere l’esigenza di approfondire ciascuno le proprie analisi mantendendo aperta la possibilità di confrontarsi. Un’analisi basata unicamente nei termini di eredità coloniale e post coloniale, a mio parere, significa dimenticare tutta la dimensione di classe , allo stesso tempo parlare soltanto in termini di classe significa mettere da parte il fatto che c’è una “appartenenza araba o nera” di essere classe operaia.
Dobbiamo essere consapevoli che il capitalismo crea differenze su questi livelli e noi siamo obbligati a camminare in parallelo su queste dimensioni, questo è molto difficile. È possibile soltanto se si hanno degli alleati. Bisogna cercare degli alleati per avanzare e per vincere. Noi ci siamo confrontati con tutti ma la sinistra non ha mai capito cosa volevamo portare. Il movimento non si è ampliato, per quanto sia stato di massa, ma non nella durata perché non c’è stata una struttura di alleanze. Questo è molto importante perché penso che oggi questa questione si ridarà in altre forme e che occorra costruire un dibattito in anticipo. Ciò che nascerà deve trovare strutture di alleanze possibili. In Francia c’è stata invece una convergenza per ostacolarci, in particolare essa ha preso la forma di SOS Racisme. Parallelamente a quando abbiamo iniziato a strutturarci a livello nazionale, con 5 comitati locali, viene creato SOS Racisme che ha l’obiettivo di soffocare la tendenza radicale che poteva nascere, è un’associazione che diffonde l’antirazzismo morale, quella dimensione dell’antirazzismo che punta a pacificare tutte le rivendicazioni. Il capitalismo non ha problemi con questo antirazzismo, perché è integrabile e, tutta la sinistra anche l’estrema sinistra, ha sostenuto questa corrente di antirazzismo, finanziandolo materialmente, perché tutti si sono sentiti rassicurati dall’emergenza di queste forme di associazionismo, relegandoci all’isolamento.
Ci sono state anche delle vittorie enormi: abbiamo trasformato il dibattito ideologico. Parlare di razzismo sistemico e quindi di antirazzismo politico qualche anno fa non era possibile perché saremmo stati trattati come razzisti anti-bianchi. Questo non dalla destra ma dalla sinistra. Parlare di bianchi era essere considerati razzisti, oggi anche la France Insoumise parla di razzismo sistemico, sostiene la Palestina. Non è stato facile ma abbiamo imposto questo ordine del discorso, per la politica ovviamente significa farsi i calcoli su quali voti e quale consenso si possa ottenere, ma questo è anche il segno del fatto che non abbiamo vinto nell’organizzare i quartieri popolari ma abbiamo marcato una differenza nel dibattito pubblico perché abbiamo messo delle parole, abbiamo nominato, ciò che veniva vissuto da tutti nei quartieri. Che oggi la FI voglia utilizzare queste parole significa che abbiamo vinto una battaglia ideologica, abbiamo imposto delle parole. Il limite è stato quello di non riuscire a creare un’organizzazione di massa perché anche oggi continuiamo ad essere dei gruppi, sparsi, non strutturati.
Vorremmo tornare sulle lotte che precedono la Marcia, le lotte contro la colonizzazione, le lotte per l’abitare. A che punto la sinistra è riuscita a mettere in pratica un sistema di discriminazione e di razzismo durante tutte queste fasi?
Ci sono quattro epoche di lotte dell’immigrazione.
La fase fondatrice, quella per la lotta di liberazione nazionale. Il primo momento di lotta dell’immigrazione è stato quello per l’indipendenza, un movimento composto da migliaia di lavoratori ipersfruttati, analfabeti, una fase che non è riconosciuta nemmeno dai figli di chi l’ha vissuta. Mi è capitato una volta di proiettare un film sul 17 ottobre 1961 e nella sala si è sentito urlare “ma quello è mio padre”! Quel ragazzo non aveva mai sentito parlare dell’impegno militante di suo padre, del FLN di tutto ciò che è successo in quel momento. Le ragioni per cui i genitori non hanno parlato sono tante…
Altra fase è quella degli anni 70, i lavoratori immigrati rifiutano la loro assegnazione nel settore più basso della classe. Per la maggior parte l’operaio specializzato era nero o arabo. Sono loro i primi ad organizzare i primi movimenti di sciopero, ed erano le stesse persone ad esser state protagoniste nei movimenti per l’indipendenza. L’eredità della lotta è passata per una vera e propria trasmissione fisica. Assume poi una forma di massa, ponendosi in opposizione al sindacato perché il sindacato parla di unità operaia e rifiuta le rivendicazioni di categoria, perché queste sono considerate una leva divisiva del sindacato ma non tiene conto del fatto che le condizioni di lavoro degli operai specializzati, per la maggior parte razzializzati, sono peggiori. La reazione di tutti i sindacati è stata di rifiuto, solo quando gli scioperi diventano di massa e ci sono occupazioni delle aziende per mesi, allora si vedono le prime sezioni sindacali di lavoratori immigrati perché alcuni sindacati si interessano a questa composizione.
Alla fine degli anni 70 le lotte si coagulano attorno alle condizioni di vita, perché l’operaio immigrato è sì più sfruttato ma si trova anche in una condizione di oppressione su tutte le dimensioni della vita. Bisogna quindi parlare dei foyer SONACOTRA4, spazi in cui dovevano vivere i lavoratori immigrati, costruiti con le allocazioni familiari che non venivano riconosciute e quindi veniva anche richiesto un affitto. Spazio di controllo sociale incredibile, venivano assunti ex militari che avevano combattuto durante la guerra in Algeria per fare i sorveglianti dei foyer, costituendo così un processo di infantilizzazione e di limitazione delle relazioni, che aveva portato a ricreare una dimensione coloniale. E così si è creata una mobilitazione di massa in cui decine e decine di foyer interi si sono rifiutati di pagare l’affitto per diversi anni, con occupazioni all’interno ecc. In questo momento i gruppi di sinistra sostenevano la lotta perché non c’era il discorso sul colonialismo ma la rivendicazione era schiacciata sull’accesso all’abitare. La sinistra poi ha giocato un ruolo di cancellazione della memoria storica. Faccio due esempi: il 17 ottobre del 19615 una manifestazione di centinaia di morti, nessuno ha detto niente. Febbraio 62 otto militanti del PCF e della CGT uccisi dalla polizia, questo episodio c’è in tutti i libri di storia. Questi due episodi danno la cifra di come sia stato analizzato in seguito il maggio ‘68… che cosa sarebbe stato il maggio ‘68 senza gli operai della Renault, se non pensiamo che sia stato unicamente un movimento studentesco. L’80% a Renault erano lavoratori neri e arabi. Bisogna sottolineare queste cose per avere un’idea della storia operaia.
Il punto di rottura con la sinistra è stato ciò che definisco l’integrazionismo. Questo crea ciò che definiamo il razzismo di inclusione, ossia se ti trasformi, ti “sbianchi”, se smetti di essere musulmano, allora puoi avere il tuo posto nella società. Si è costruito così: bisogna aiutarli a integrarsi, fargli un po’ di spazio. Questa ideologia porta al discorso dell’accoglienza di un certo numero, quindi al sistema delle soglie, perché oltrepassato quel numero diventa ingestibile, addirittura ci sono stati dibattiti sulla percentuale precisa adeguata! Banalmente, significa gestire la popolazione come si gestiscono le merci. Per le nuove generazioni questo discorso è inascoltabile, giovani nati e cresciuti in Francia che dicono: “ma rispetto a che cosa dovrei integrarmi!” Il discorso integrazionista serve a legittimare le diverse condizioni e il diverso trattamento rivolto ai francesi provenienti da famiglie immigrate, perché il trattamento diverso deriva da un basso livello di integrazione. Questo era il discorso della sinistra. Ciò permette ai Comuni di dare delle quote agli uffici HLM (dell’edilizia popolare) quindi nonostante intere famiglie avessero diritto alla casa venivano scartate perché c’erano già troppi neri nel comune. Questo ha permesso di costruire e preparare il terreno alla fascistizzazione, legittimando così una serie di discorsi pronti per il Front National. Nelle pratiche di assunzione, nelle politiche di attribuzione della casa, la sinistra ha contribuito a creare questo sistema di quote perché non era possibile “assorbire tutta la miseria del mondo”.
Quali sono i limiti e le difficoltà e soprattutto gli errori che un movimento antirazzista che potenzialmente potrebbe nascere in Italia non dovrebbe riprodurre se guardiamo alla storia della Francia?
La più grande difficoltà oltre l’isolamento è la questione della base sociale. Inevitabilmente quando emergono le prime parole per evidenziare questa oppressione specifica, che si aggiunge all’oppressione capitalista, i primi ad avere gli strumenti per mobilitarsi sono gli studenti, la piccola borghesia. Solo che non sono loro che possono costruire un movimento nazionale e dunque siamo davanti a una difficoltà: come possiamo radicarci nei quartieri popolari. Se non ci poniamo questo dibattito non si va da nessuna parte. In Francia ci sono molti gruppi che dibattono sulle virgole, quindi vediamo apparire dei concetti che non hanno lo stesso peso che può aver avuto in passato imporre delle rotture, come parlare di antirazzismo politico, ma ci si battaglia per delle virgole, ogni gruppo reinventa delle parole, reinventa un vocabolario, quindi siamo completamente affossati in questa dimensione. Il termine decoloniale ad esempio esito a utilizzarlo per tutte le sfumature e implicazioni che ha assunto oggi in Francia. Il principale ostacolo è capire come fare affinché queste emersioni si trasformino in un’organizzazione di massa degli indigènes delle classi popolari. Le ragioni che muovono i soggetti razzializzati contro il discorso dominante sono di due tipi. Da un lato, quelle che provengono dalla piccola borghesia, riguardano una domanda di apertura del sistema, di lasciargli uno spazio, un posto perché “ho tutto quello che ci vuole per essere integrato”, parte da una domanda di riconoscenza. Mentre le rivendicazioni che possono spingere e fare dei passaggi in avanti sono quelle che provengono dalle classi popolari. Non ho una ricetta ma bisogna porre questo dibattito, prima dei passi falsi che si possono fare. È una questione di strategia.
Quali sono le organizzazioni attive oggi nei quartieri popolari in Francia?
Il Fronte Unito dell’Immigrazione e dei Quartieri Popolari, quella a cui appartengo, non lo nego, siamo presenti in quattro città e non siamo diffusi su tutto il territorio. Però la legittimità che abbiamo costruito è importante. Poi ci sono dei collettivi che si sono costituiti su questa storia e che nelle loro città muovono delle cose ma non sono in rete tra di loro. Abbiamo creato spazi collettivi parziali e a livello nazionale non si è riusciti né a creare un coordinamento né a pesare con un rapporto di forza. Un altro aspetto riguarda l’inesistenza di una dialettica tra le organizzazioni sul territorio e le esplosioni di conflittualità nelle banlieues, come ad esempio dopo i crimini razzisti e le violenze della polizia. Non c’è relazione a livello organizzativo, ma rispetto al discorso che abbiamo costruito negli anni possiamo vedere che oggi c’è una coscienza, abbiamo influenzato senza organizzare e questo ha giocato nel rapporto con la polizia. Abbiamo partecipato alla costruzione di un immaginario e di una base condivisa di portato ideologico ma non siamo riusciti a organizzare una strutturazione nei quartieri.
Ultima domanda: come analizziamo la capacità di alcune frazioni della borghesia di occupare dei posizionamenti e dei discorsi che potremmo anche noi riprendere, come ad esempio l’opposizione alla guerra da parte delle destre sovraniste e razziste in Europa?
Innanzitutto bisogna evidenziare che la borghesia è unita sul modello che vuole difendere ma che è composta da frazioni che non hanno per forza gli stessi interessi. Oggi possiamo dire che stiamo assistendo alla vittoria totale del capitale finanziario e c’è un’altra parte della borghesia che potrebbe puntare a un capitalismo nazionale. La distinzione con la sinistra, con la sinistra marxista, è che la loro opposizione all’imperialismo statunitense non è un’opposizione all’imperialismo. L’obiettivo è solo quello di rimpiazzarli. Marine Le Pen quando dice di essere contro la guerra è perché è contro le guerre portate avanti dagli USA. Ciò che dice sull’Africa non è la stessa cosa che dice per l’Ucraina, quindi bisogna imparare a ripartire dalle preoccupazioni delle persone, comprese quelle che votano Le Pen. C’è un vero lavoro da fare. Bisogna quindi riappropriarsi delle questioni che abbiamo avuto la tendenza ad abbandonare. In alcuni Paesi, come per esempio in Spagna, Portogallo, o forse anche in Italia, penso che la questione nazionale assuma un’importanza nella massa e quindi non possiamo lasciarla alla destra. Se veramente vediamo nella società crescere una tensione per l’indipendenza dal capitale finanziario americano, se sarà solo la destra a parlare di questo la gente andrà verso la destra. Ci sono una serie di questioni che bisogna riprendere in mano. Sulla questione della guerra bisogna indirizzarsi su questioni materiali, su quanto costi pagare una guerra, più che sulle questioni idealiste. Questo ragionamento deve essere fatto su diverse questioni che possono interessare la classe operaia e dobbiamo anticipare le destre. Ad esempio all’inizio dei Gilet Jaunes andavo in giro con un testo di Lenin in cui dice “Se aspettate una rivoluzione pura non la vedrete mai”, andavo in giro, a mostrarlo a tutti i militanti, in particolare ai troskisti che incontravo. Così come sull’islamofobia ogni tanto porto in giro il testo di Lenin sul Congresso di Baku in cui, nel dialogo con un azero, alla domanda “ma quindi, compagno Lenin, tu ci stai chiedendo di fare la jihad contro i ricchi?” Lenin risponde “sì, è esattamente questo”. Questo era incomprensibile per la sinistra. Allora vi racconto ancora questo… sono andato su un presidio dei GJ a Lille, i primi giorni era dura, erano contenti di vedermi ma poi si dimenticavano che mi chiamo Said e così sentivo propositi razzisti tutto il tempo… ma poi nel corso dei mesi, iniziavano a parlare di rivoluzione. Il processo è inverso. Noi dobbiamo prendere il popolo per com’è, con le sue contraddizioni, con i suoi limiti.
È importante avere un’analisi sistemica, anche se non è completamente giusta o completa, ma bisogna averla. Non so dire come andrà in Italia, sulla questione migratoria potrei essere caricaturale pensando di copiare la storia del modello francese, ma è meno grave questo errore piuttosto di non avere un’analisi di fase che tenga conto dell’articolazione di questi aspetti.
- Nella primavera 2024 è nato uno sciopero degli immigrati senza documenti nelle comunità di Emmaüs nel Nord della Francia. In Francia ci sono 123 comunità Emmaüs. In questi luoghi l’accoglienza si dovrebbe intendere come incondizionata e i migranti ricevono vitto e alloggio in cambio della partecipazione all’attività di solidarietà della comunità (accoglienza e smistamento delle donazioni, mantenimento, riparazione, vendita, ecc.). Non dovrebbe esistere alcun rapporto di subordinazione tra dipendenti, volontari e migranti. Questi ultimi beneficiano di una serie di diritti sanciti da un decreto emesso nel 2008 e denominato OACAS – Organizzazioni di accoglienza comunitaria e attività di solidarietà. Garantisce loro la protezione sociale, un contributo all’Urssaf e alla pensione, un’indennità di 350 euro. Dalla legge sull’immigrazione in materia di asilo del 2018, i migranti possono richiedere un permesso di soggiorno se riescono a dimostrare tre anni di lavoro nella comunità di Emmaüs e serie prospettive di integrazione.
Negli ultimi anni, le persone prive di documenti, spesso escluse dal diritto comune e talvolta minacciate di espulsione da parte delle prefetture, hanno trovato rifugio in queste comunità. Lo status OACAS è spesso la loro ultima risorsa per ottenere una sistemazione stabile e la regolarizzazione. Rappresentano ormai più del 70% dei migranti in Francia.
In realtà i diritti dei migranti raramente sembrano essere rispettati. In molte comunità il lavoro viene imposto ai migranti che non hanno altra scelta che obbedire agli ordini per paura di essere rimessi in strada o di vedere ritardata la richiesta di regolarizzazione. Il vincolo di subordinazione risiede in questo potere completo lasciato a chi comanda. Nessun testo regola, ad esempio, le espulsioni delle comunità. ↩︎ - Sociologo e filosofo algerino. Si trasferisce in Francia nel 1963, è tra i primi a guardare al fenomeno dell’immigrazione come fatto sociale totale, non soltanto legato in termini economici di costi e vantaggi. ↩︎
- Inteso come nome tipico di un francese non immigrato. ↩︎
- A partire dal 1947 si intensifica il fenomeno della migrazione algerina in Francia. lo Stato ha preso provvedimenti per fornire alloggi operai in tutta la Francia creando la Société nationale de construction de logements pour les travailleurs algériens (Sonacotral) con la legge del 4 agosto 1956 (art. 116). La creazione di questa società semipubblica e di queste unità abitative aveva anche lo scopo di rafforzare il controllo e il monitoraggio di questi lavoratori algerini. Dopo l’indipendenza dell’Algeria, nel 1963 l’operatore è diventato la Société nationale de construction de logements pour les travailleurs (Sonacotra) e ha aperto i suoi alloggi a tutti i lavoratori immigrati, indipendentemente dal loro Paese di origine. ↩︎
- Il 17 ottobre 1961 a Parigi, nell’indifferenza quasi generale, si consumò la più grave repressione poliziesca e razzista di una manifestazione nella storia dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale. La polizia aggredì sistematicamente e preventivamente un corteo disarmato e pacifico di algerini, con un bilancio impressionante: centinaia i morti e i dispersi, migliaia i feriti, undicimila i fermi. ↩︎
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