Dentro i panorami dell’urbanizzazione planetaria – Diritto alla città #1
Sbobinatura di un intervento tenuto a “Il diritto alla città #1” il 17 ottobre 2018 presso il MACRO (Museo d’Arte Contemporanea Roma). Qui è possibile scaricarne il pdf.
Quello che mi è stato chiesto di fare è l’inquadrare la città in uno scenario più ampio, e quindi vorrei partire da due immagini. La città nel corso del Novecento è stata spesso rappresentata come un piano, è sempre stata governata come se fosse disposta su un piano, ma evidentemente la città non è una superficie piana né uno spazio liscio. È un qualcosa di molto più complicato, una trama di labirinti stratificati, fatta di buchi, attraversamenti, scavi… e in qualche modo per capire la città contemporanea bisognerebbe iniziare a pensarla in maniera ossimorica come se fosse una sfera, un globo, un mondo in sé e al contempo immaginarla plasmata dentro un’estensione planetaria.
Vorrei dunque iniziare proponendo un breve viaggio, a partire dal fatto che oggi non è possibile elaborare un’immagine sintetica di cos’è una città, è impossibile darne una singola rappresentazione. Si può partire solo da parzialità, frammenti da ricomporre. Partiamo allora da una scala planetaria per poi tornare su un livello locale, per quanto sia il concetto di scala che la dicotomia locale/globale andrebbero superate.
Partiamo allora da São Paulo in Brasile, che come noto è un paese con una significativa storia urbana nel secolo scorso: lì si è costruita Brasilia, una città edificata da zero, come una mappa incisa sul territorio; pensiamo a Rio de Janeiro, dove le favelas stanno sui morros (le colline) e guardano negli occhi i rooftop dei grattacieli dei ricchi… Ma guardiamo a São Paulo, la megalopoli tropicale più grande al mondo, venti milioni di abitanti, e concentriamoci sull’Avenida Paulista. Un viale “globale”, dove si trovano i negozi dei grandi brand circondato da grattacieli. Mentre a Rio i poveri stanno sulle colline, qui è il contrario. Siamo collocati dunque in alto, ma la cosa interessante è la discesa da questa collina, in cui si passa da questo spazio “globale”, pulito, controllato, e man mano che si va in giù lo spazio urbano riproduce una discesa sociale. Si passa per quartieri di classe media e si arriva in una sorta di favela, in luoghi polverosi, di case auto-costruite, strade con asfalto rotto, con baretti per strada, famiglie a spasso, persone in abiti da lavoro… Se il turista, il city user, usualmente percorre solo l’Avenida Paulista, ricostruire invece questa scalata dal basso verso l’alto rimanda un forte contrasto e rappresenta anche in qualche modo il come viene materialmente costruita la città globalizzata.
Seconda immagine, cambiando continente. Andiamo a Kibera, Nairobi (la più grande città dell’Africa orientale). Kibera, per quanto il termine sia fortemente problematico, è uno dei più grandi slum del pianeta. Se si cerca su Google si trovano stime che oscillano tra i 150 mila abitanti e i 2 milioni… Già questo rende conto di come la dimensione “informale” sia costitutiva della nuova urbanizzazione del pianeta. Se infatti anche alle nostre latitudini gli ultimi cinquant’anni sono stati un tempo di potente trasformazione urbana, è chiaramente nei paesi del Sud globale, dell’ex cosiddetto Terzo Mondo, che la rivoluzione urbana contemporanea si è manifestata in maniera più dirompente e virulenta.
Terza immagine, facendo un nuovo salto continentale. Siamo a Shangai, una delle megalopoli più grandi al mondo coi suoi 24 milioni di abitanti. La città è attraversata da un fiume, e in una delle sue parti “centrali” si trova sulla costa ovest il quartiere Bung e sulla parte opposta Pudong. Il Bung è il quartiere coloniale, storico, fatto di edifici di architetture europee tardo ottocentesche e del primo Novecento. Fino a 30-35 anni fa se si osservava da lì l’altra sponda si vedeva una zona sostanzialmente agricola. Ma in questo periodo c’è stata un’esplosione urbana, che ha reso Pudong un quartiere dai tratti futuristici che sfida per grattacieli ed estetiche Manhattan o la City di Londra. Ma se si va a nord della città ci sono i quartieri poveri, dai quali non si vedono né il Bund né Pudong. Siamo in aree basse, con edifici a un piano, viuzze strette e intrecciate, brulicati, che ricordano le città europee medievali o le medine arabe. Questi quartieri si estendono fino al porto, un po’ di chilometri più in là, sul mare. Il porto di Shangai è il più grande terminal container del mondo. Tutti i giorni attraccano e partono le navi giganti da 20 mila TEU, che trasportano migliaia dei container che sono ammassati a non finire sulle banchine.
Ecco un altro dei luoghi decisivi dell’urbanizzazione contemporanea, che non può essere limitata agli spazi urbani globalizzati, a quello che in termini problematici ancora chiamiamo città, o alle grandi zone informali. Bisogna infatti considerare anche questi luoghi del globale come i porti, che tracciano rotte planetarie che strutturano geografie stabili sui mari e si articolano per molteplici strade e hub di terra. Ma pensiamo anche agli aeroporti – poco tempo fa c’è stato il record di persone in contemporanea nel mondo (200 milioni). È quella che viene chiamata Aeropolis, la città che si muove in cielo e tramite i suoi mille attracchi. Vediamo dunque una serie di snodi e di tratte logistiche che ricoprono il pianeta e che non possono essere separate dalle aree più propriamente urbane. Si può insomma espandere il concetto di “urbano” a tutto lo spazio antropizzato, e si potrebbe alludere alle varie teorie finite sotto l’etichetta di antropocene, capitalocene… ma ci allontaneremmo troppo dal nostro discorso.
Per chiudere questa prima riflessione sull’urbanizzazione planetaria, si può adottare un altro punto di vista per comprenderla a partire da quella che è la più grande multinazionale emergente del mondo: Amazon. Se percorriamo a ritroso il tragitto di un pacco da quando ci arriva un suo prodotto direttamente a casa, scopriamo come questa grande company fa oggi propriamente territorio. Interconnette una galassia eterogenea di forza lavoro per tutto il pianeta attorno a rotte logistiche fatte di grandi magazzini e centri di prossimità, flotte aeree e grandi navi. Ma se seguiamo queste rotte, attraversiamo incredibili panorami dell’urbanizzazione che vanno dalle zone di estrazione delle materie prime all’urbanizzazione diffusa, operational landscapes e differenti gradazioni di urbanità.
Se vogliamo provare a comprendere l’urbanizzazione contemporanea dobbiamo provare assieme tutta questa serie di istantanee brevemente tratteggiate finora, e cogliere come tutte indichino luoghi di contrasto, composti di contrapposizioni, di diseguaglianze sempre più radicali. Un modo per provare a dare un’idea sintetica di questi sommovimenti è quello di immaginarsi il cantiere di una grande metropoli planetaria in costruzione, immagine al contempo utopica e distopica. E uso metropoli “in senso proprio”, ossia come quel modello che è stato costruito a Parigi nella seconda metà dell’Ottocento in risposta all’insorgenza del 1848 e che è attraversato dalla Comune e poi dalla Seconda rivoluzione industriale. Metropoli quindi non solo in senso urbanistico ma anche come rapporto sociale antagonistico, che crea spazio e tempo, che pone e sfonda di continuo nuovi confini. Ci tornerò a breve.
Ma per davvero chiudere questa prima panoramica mi interessava fissare come se entriamo dentro questi panorami dell’urbanizzazione contemporanea le rappresentazioni oggi egemoni siano piuttosto fallaci. Prendiamo in considerazione in particolar modo quella delle Nazioni Unite. Va osservato che in un vertice promosso dall’ONU due anni fa a Quito, Habitat III, c’è stata una appropriazione diretta del “diritto alla città” da parte di questa istituzione, ed è dunque interessante mostrare come essa pensa alla città. Le mappe che producono le Nazioni Unite – che da anni hanno lanciato il brand dell’Urban Age per indicare il fatto che, secondo i loro calcoli statistici, a partire dal 2008 la maggior parte della popolazione mondiale vive in città – riproducono un pianeta punteggiato di cerchi a grandezza variabile. Questi cerchi rappresentano appunto le città, le cui dimensioni dipendono dalla loro popolazione che la città conterrebbe. Il diritto alla città in questa concezione, semplificando, è il diritto a poter avere un uguale trattamento a prescindere dalla posizione che si occupa geograficamente all’interno di questi cerchi. Un’idea che credo vada sottoposta a critica. Le città innanzitutto non sono più immaginabili oggi come insiemi dal confine chiaro, come contenitori chiusi di persone. E l’immagine del cerchio rimanda inoltre a un’idea di spazio liscio, che è un’idea molto logistica di uno spazio di libera circolazione senza interruzioni. Ma le città sono un qualcosa di molto diverso, che condivide davvero poco con la rotondità immaginifica della polis greca.
L’urbano va piuttosto colto come un insieme di dinamiche, processi, fratture, e una suggestione che vorrei portare al dibattito è il provare a uscire dal pensare la città unicamente come se fosse un’entità di tipo spaziale. Il riportare lo spazio al centro dell’analisi è stata indubbiamente una utile intuizione del pensiero critico a partire dagli anni Sessanta, e non è un caso che Henri Lefebvre sia colui che ha portato in auge il tema e che ha coniato il “diritto alla città”. Ma le città non sono solamente spazio costruito, una fissità, uno “stare” (l’abitare inteso in senso classico), una mappa. Sono anche l’incrostazione di storia, di tempi. La città è anche un dispositivo temporale. Ma va anche ricominciato a pensare le città a partire dalle persone, dai cīvēs, da chi vive e costruisce quotidianamente i territorio. Si tratta insomma di configurare una materia urbana mobile, intricata, fluida e solcata di confini, fatta di umani che la rendono un campo di tensione e ne determina la matrice conflittuale.
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Passiamo ora al “micro”. Volevo portare un’altra immagine, un altro frammento, preso da Bologna, che è la storia dell’Ex Telecom, un’occupazione abitativa che è stata sgomberata due anni fa, e che credo abbia tratti piuttosto paradigmatici. L’Ex Telecom era un edificio pensato per uffici molto grande, migliaia di metri quadri, abbandonato da anni, occupato da centinaia di persone, famiglie per lo più, dagli zero ai settant’anni, provenienti da moltissimi paesi diversi. L’Ex Telecom era situato nella Bolognina, storico quartiere operaio di Bologna, caratterizzato da una forte presenza migrante negli ultimi vent’anni, e oggi al centro di un processo di trasformazione per grossi investimenti pubblici e privati, l’apertura di un accesso alla stazione centrali sui binari ad alta velocità ecc… (chiamiamola volendo gentrificazione). Questa struttura era esattamente davanti alla nuova sede del Comune di Bologna, un grosso palazzo di vetro e acciaio disegnato da una delle “archistar” italiane emergenti. L’esperienza di quella occupazione fu davvero significativa, facendo emergere in città una composizione sociale sino ad allora senza voce e creando un potente esperimento di convivenza, mutualismo e auto-recupero. La multinazionale tedesca proprietaria dell’immobile ne chiese tuttavia lo sgombero, eseguito con notevole brutalità dalle forze dell’ordine dopo una tenace resistenza – e oggi sono in via di ultimazione i lavori che stanno trasformando l’Ex Telecom in una sorta di hotel di lusso per giovani di una catena multinazionale. Credo siano sufficienti questi brevi elementi per dare il segno della complessità delle trasformazioni attuali della città, ma questa storia, la sua fine, ci racconta anche un’altra cosa. Di una fine più ampia.
L’incapacità delle istituzioni di saper gestire una simile rivendicazione sociale se non con il ricorso alla repressione poliziesca, nonché l’esistenza stessa di fasce di crescente povertà fortemente marginalizzata, può essere presa come emblematica dell’evaporazione, del tramonto definitivo, della morte di una città, quella che in molti testi soprattutto anglofoni viene ancora spesso chiamata “Bologna la rossa”. Quel modello “socialista” di città, che ebbe una forte ed evidente frattura già nel lontano 1977 pur con altre coordinate, quella città welfarista, gestita dal Partito comunista (ma il discorso è evidentemente generalizzabile a un modello più generale), si è progressivamente sgretolata, dissolta, e oggi ne rimangono al limite i fantasmi. Sia chiaro: non si tratta di fare un’apologia di quel modello urbano, che non era certo una città ideale, con le sue nette demarcazioni interne, le sue brucianti contraddizioni, ma di segnalare come appunto quella città sia morta. E lo dico in senso letterale: la città del welfare, frutto di potenti processi di lotta, è stata abbattuta “pietra dopo pietra” da decenni di politiche neoliberali e di austerità, i suoi spazi scombussolati, i suoi soggetti sociali frantumati. Su questo una cosa è chiara: indietro non si torna, quelle rigide forme forgiate dalla città fabbrica, dalla città-piano, si sono scomposte negli irregolari lineamenti della metropoli produttiva diffusa e la città, quella città, è anche esplosa lungo le catene globali del valore, dilatandosi per un verso e venendone attraversata e scomposta per l’altro. A forma-urbis a noi più nota è stata dunque travolta dall’insieme di questi processi, e ormai slabbrata, smarginata, scomposta, giace assieme a tutte le altre generazioni, tipologie e strategie di città che l’hanno preceduta. Ovviamente la morte di un modello di città non indica una sparizione, ma una complessa articolazione, una catena di assemblaggi con altri modelli, una sequenza di esplosioni ed implosioni urbane, che si compongono e scompongono, sovrappongono, ponendo le basi per la nuova città a-venire – rispetto alla quale forse l’esperienza dell’Ex Telecom definisce una delle traiettorie alboree da seguire.
Ci troviamo dunque oggi all’interno del cantiere di una nuova città che sta sorgendo, che sorgerà, questo è il luogo intricato, il battleground, nel quale si definiscono le forme di lotta, i progetti, le nuove soggettività. Un luogo sempre più articolato su scala transnazionale, rispetto al quale è necessario iniziare ad individuare anche quelle che possono essere le domande giuste per comprenderlo. E una di queste credo che sia irrinunciabilmente: di chi è la città? Intendendola sia in senso ampio, che specifico. Ossia, in questa seconda accezione, chi possiede gli spazi urbani, quale sono le linee di proprietà che la attraversano? Credo che questo sia uno dei nodi, delle necessarie mappature da fare, per capire ciò che sta succedendo nelle città nonché per poter tracciare quelli che sono i terreni emergenti di amicizie e inimicizie politiche.
E d’altro canto evidente che, in termini generali, lo scenario della nuova città emergente è uno scenario al momento piuttosto cupo, a tinte fosche, alle volte se ripassiamo su un sorvolo generale sembra quasi di assistere al progressivo realizzarsi di una allucinazione cyber-punk, fatta di controllo digitale e in cui i panorami urbani sono labirinti, o meglio mosaici composti di privatopie, di gated community, di città dei ricchi recintate o issate nei grattacieli, e attorno un oceano di periferie sempre più marginalizzate, baraccopoli, slum, bidonville, ghetti, favelas ecc… Questa è indubbiamente una delle tensioni, delle tendenze possibili del futuro urbano. Ma al contempo questa istantanea ci consente di focalizzarci su un altro tema decisivo da accostare a quello della proprietà della città, ad esso intimamente legato: quello della “violenza dei ricchi”. L’urbanizzazione e le sue dinamiche sono oggi infatti segnate in maniera decisiva da questa violenza che tuttavia passa per lo più sotto traccia, che a volte sembra difficile da percepire perché “indiretta” o perché agita tramite il ricorso all’uso “legittimo” della violenza da parte istituzionale, o perché si esprime su temporalità e forme che ne rendono complesso il tracciarne lo sviluppo. Eppure ci sono studi, soprattutto in Francia al momento, che stanno iniziando finalmente a spostare la prospettiva, a fare un controcampo rispetto all’interesse per la violenza urbana sempre tendenzialmente orientato a studiare la “violenza dei poveri” (sia essa la micro-conflittualità urbana, le forme di “illegalità micro-criminale”, o al limite i riot). Ben più che su questo versante della vicenda, è invece la “violenza dei ricchi” quella che più guida i processi di trasformazione, muove, espelle popolazioni, orienta lo sviluppo urbano. E questo discorso ci riporta a un tema in precedenza solo accennato.
La città è infatti sempre un processo, la cristallizzazione instabile, cangiante, di una relazione sociale, e quella che chiamiamo metropoli ne è il rapporto antagonistico. Abbiamo da un lato un lavorio quotidiano di costruzione della città, in senso materiale e di tessitura sociale, che si dà come “movimento”, e dall’altro il continuo tentativo di imporre una forma. È una dinamica sempre in atto, tra l’imposizione di una forma e la sua continua de-formazione, tra spazializzazione e attraversamento, rottura dei suoi confini, dislocamento. Un moto sempre in divenire, non facile da cartografare anche a partire dalla striatura planetaria della città, ma una dimensione necessaria da inquadrare questa tra l’imposizione di una forma stabile e il continuo sfondamento di queste linee.
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Per comprendere la città che c’è e che verrà è decisivo anche tracciare una genealogia dell’attuale città globalizzata, richiamando la dimensione temporale della città. Il rapporto tra chi possiede e confina la città e la costante “spinta dei poveri”, dei proletari, per la sua appropriazione è infatti una questione storica, e riprendere alcuni pensatori che l’hanno analizzata in passato può darci utile strumenti anche per la comprensione dell’oggi. Non c’è qui evidentemente tempo per approfondire tale questione, mi limito dunque a un episodio che ci riporta ai primordi della costruzione della città industriale (che poi au fond industrializzazione e urbanizzazione sono la stessa cosa), alla prima metà dell’Ottocento, a Manchester, dove Friedrich Engels scrive “Le condizioni della classe operaia in Inghilterra”. Ci sono pagine davvero notevoli in quel libro nel descrivere quello che viene definito come “un organizzato labirinto infernale”, ma vorrei in particolare riportare questa frase: “Non esiste una città operaia, esiste soltanto una critica operaia della città capitalista”. Credo che, al di là del giudizio che si può dare dell’opera engelsiana, ci sia qui una indicazione di metodo che val la pena di ripensare oggi. Da quale punto di vista bisogna osservare la città? Da quale posizione, da quale parte? Non bisogna infatti incorrere nell’errore di pensare di poter guardare “neutralmente” alla città, di poterla osservare con uno sguardo di insieme come se fosse un tutto. Uno sguardo sulla città che si ponga “dall’alto”, il punto di vista zenitale, come le immagini riprese da un drone, rendono infatti la città nuovamente un piano, mentre essa è attraversata da dislivelli, gerarchie, ineguaglianze, differenze, poteri e potenze che non possono essere ricondotti a unità. Questo non significa che ovviamente a livello analitico possa essere talvolta necessario ricorrere alla “città” come un unicum, né che il discorso sulla “critica” come punto di vista non implichi anche una necessità di “qui e ora” rispetto a come le forme di vita urbane subalternizzate sopravvivono, si riproducono, cooperano e contendono parti e direzioni della città. Ma appunto, come evidente, siamo all’interno di un discorso che si struttura su concetti ormai problematici, su continui paradossi, e che necessita oggi un radicale ripensamento.
Per chiudere vorrei tuttavia dire due battute sul tema che dà il titolo a questa giornata, il diritto alla città. Elemento, va detto, all’oggi piuttosto problematico. Il diritto alla città, come noto, è stato elaborato da Henri Lefebvre, militante e pensatore comunista eretico, libertario, influenzato dal situazionismo, che ha avuto una gioventù piuttosto avventurosa attraversando anche la seconda guerra mondiale per poi dedicarsi sostanzialmente all’insegnamento e alla scrittura. Negli anni Sessanta si trovava a insegnare a Nanterre, e nei suoi corsi fa spesso riferimento ai suoi studenti alle baraccopoli abitate da migranti che si incontrano attorno all’università. Sono elementi emblematici della città che sta mutando, e probabilmente spie indicatrici che lo conducono a far uscire nel 1967, anticipando di un anno l’esplosione del Maggio parigino, Le droit à la ville. Qui si condensano le riflessioni su come l’ordine urbano si stia ridefinendo, ma non è di quel libro che intendo parlare. Mi interessa infatti concentrarmi soprattutto sull’esito della traiettoria di Lefebvre, richiamando uno dei suoi ultimi scritti, un articoletto breve uscito su Le Monde diplomatique nel 1989 intitolato Quand la ville se perd dans la métamorphose planétaire. È un testo dai toni decisamente differenti rispetto a quelli degli anni Sessanta. Va considerato che nel corso degli anni Ottanta le istituzioni locali parigini si sono in qualche modo “appropriate” del lemma diritto alla città, anticipando l’ONU da questo punto di vista. Ma lo fanno in un modo che a Lefebvre deve risultare problematico se non terrificante, un quanto l’uso che viene fatto di tale slogan è sostanzialmente teso a legittimare l’ormai avvenuto “allontanamento dal centro” attraverso la promozione di un’idea di “bella vita nelle banlieue” (sviluppata anche tramite notevoli investimenti che però la storia successiva insegnerà non aver prodotto grandi risultati). Per Lefebvre il diritto alla città era invece proprio il contrario, la possibilità per tutti di poter vivere tutti gli spazi urbani, a partire dal centro che vedeva, nei Sessanta, iniziare a trasformarsi da cuore pulsante della vita urbana a centro direzionale, cuore pulsante… dei circuiti finanziari globali.
È dunque un Lefebvre molto critico quello che scrive questo testo, nel quale il fatto che la città, la sua città, ormai non c’è più, è un dato di fatto. Nel 1967 il diritto alla città era ancora, lo dico in inglese, “like a cry and a demand”, una lacrima versata sulla città che sta svanendo e una rivendicazione. Nel 1989 la questione è mutata. Volevo dunque leggere un paio di passaggi di questo articolo, che inizia così:
“Fino ad alcuni decenni fa si aveva l’impressione che l’urbano, come insieme di pratiche produttive ed esperienze storiche, fosse portatore di nuovi va-lori e di una civilizzazione alternativa. Queste speranze si stanno spegnendo assieme alle ultime illusioni della modernità”.
Mentre le battute con cui si chiude lo scritto suonano così:
“Il cittadino e l’abitante della città sono stati dissociati. Essere cittadini significava soggiornare a lungo in un territorio. Ma nella città moderna l’abitante è in perenne movimento; circola; se è fisso, ben presto si stacca dal suo luogo o cerca di farlo. Inoltre, nella grande città moderna, i rapporti sociali tendono a divenire internazionali. E questo non solo a seguito dei fenomeni migratori ma anche, e soprattutto, grazie alla molteplicità delle tecnologie di comunicazione – per non parlare della mondializzazione del sapere. Questi elementi non rendono allora necessario riformulare il quadro della cittadinanza politica? Cittadino e abitante della città dovrebbero incontrarsi, senza per questo confondersi. Il diritto alla città non implica nulla di più che una concezione rivoluzionaria della cittadinanza politica”.
C’è certamente anche una carica visionaria in queste parole del 1989, ma volevo chiudere con queste frasi soprattutto per mostrare come per Lefebvre il diritto alla città non può che passare per il ripensamento della cittadinanza politica e per una strada rivoluzionaria. E come sia dunque ancora oggi necessario, per ri-cominciare a pensare e agire all’altezza dei tempi nelle nuove dinamiche urbane, tracciare non solo i flussi ma anche la scavatura degli argini che permettono loro di fluire, guardare a chi compra, detiene e vuole imporre una forma alla città e al continuo déborder. Tutto questo ovviamente non solo per “capire” ciò che sta succedendo, ma anche per poter costruire scenari meno cupi della città a-venire.
nc
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