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Dieci anni dopo le Olimpiadi del 2006, #Torino festeggia la voragine

Per raccontare questa storia è necessario partire dalle parole di un giornalista vero, forse il migliore che Torino abbia avuto, pubblicate sul settimanale “D di Repubblica”, nel lontano 2003.
Troverete Luca Rastello anche nelle prossime righe, perché era un maestro e andare oltre le sue parole definitive è impossibile. Luca scrisse:

«La notte è quasi una novità a Torino, prima non c’era. Una sera di anni fa, l’italianista Stefano Jacomuzzi, ospite di Gianni Agnelli, notò dalla collina le grandi chiazze di buio che si allargavano sotto il suo sguardo: «Sono le nove e la città sembra già addormentata», osservò. “Lascia che riposino”, rispose paterno l’avvocato.
Ora riposa anche lui.
Erano suoi quei grandi viali paralleli alle linee di montaggio, quelle traiettorie rettilinee di vite operaie o impiegatizie, definite una volta per tutte dal primo giorno allo stabilimento e dal regalo dell’orologio che ti qualificava Anziano Fiat, un titolo che tanti ancora si portano sul necrologio su La Stampa.»

C’è stato un tempo in cui il padre della città auspicava che i torinesi tutti non avessero pensiero che potesse distrarli dalla fabbrica, dal ’venta rusché, dal ’venta travajè. Che fossero fedeli impiegati torinesi doc, mansueti tecnici della provincia, o insubordinati operai massa in arrivo con i treni della speranza, non cambiava molto. A Torino si doveva lavorare molto e riposare il giusto, il giusto per non crepare di fatica. Per lo svago c’era il pallone, i trionfi domenicali della Juventus erano l’adeguato strumento per spegnere ogni tipo di ardore, e lo stadio il luogo più opportuno dove stemperare pulsioni di rivalsa. Leggenda vuole che Torino al termine degli anni ’50 avesse il maggior numero di sale da ballo pro capite e poi, dato che una città forgiata nel ferro e sul fuoco necessita di riposare, come da desiderio, ecco la discesa fino al mirabile panorama delle «enormi chiazze di buio», visibile dalle belle e spaziose terrazze delle ville che si affacciano sulla città.

Ma i tempi cambiano si dice, ed è necessaria un’orgia di retorica per spegnere una città facendo credere che la si stia accendendo come un braciere olimpico.

1. Alle origini della trasformazione

I padroni della città, reduci dalla traballante vittoria sugli operai in rivolta del 1980, quando avevano schierato ben quindicimila impiegati in marcia per le vie di Torino, guidati dal caporeparto Luigi Arisio, decisero che la produzione doveva uscire dai muri del loro impero. La Fiat aveva sessantamila dipendenti a Mirafiori. Non era una decisione di chi comandava la città: coglievano l’occasione storica, come innumerevoli altri industriali, per regolare molti conti rimasti in sospeso guadagnandoci. Il mondo lo permetteva. Le praterie della delocalizzazione neo liberale – in termini meno pudichi: il capitalismo – si aprivano su chances fino ad allora impensabili per chiunque desiderasse abbattere il costo del lavoro, il sindacato, la conflittualità, tutto.

Cominciò così quella che il sociologo Marco Revelli ha definito «la globalizzazione stracciona della Fiat», così descritta sempre da Luca Rastello, profetico:

«Il decentramento della produzione con esperimenti fallimentari a Cordoba in Argentina, e le dismissioni di massa. Oggi [2003, NdR] l’azienda annuncia poco più di ottomila esuberi e molti si stupiscono che la capitale operaia della rivolta novecentesca non insorga, ma se ne stia in coda al Lingotto “per l’ultimo saluto all’avvocato”.
Il fatto è che negli ultimi dodici anni, mentre scopriva la movida, la città ha perso 110.000 posti di lavoro (centodiecimila), un’emorragia silenziosa e fatale, accompagnata dall’onda epidemica dei suicidi fra i cassintegrati del 1980 che non riuscivano a ritrovare lavoro.»

Meno centodiecimila posti di lavoro cinque anni prima dell’inizio della crisi globale. Anime morte.

Questo stato di cose risponde, da subito, a chi sostiene che il crollo mondiale del 2007 sia all’origine delle peripezie torinesi.

Ma gli Agnelli, e quindi tutta la coorte industriale torinese, di fronte a questa catastrofe incontrovertibile trovarono solo consensi, entusiasmo e teste chinate. Perché per tutti a Torino era necessaria una «trasformazione»: basta operai, basta ferro, basta industria. Di più, ci voleva «un cambio di mentalità», addirittura una «mutazione genetica». Leggere la storia di Torino è vedere la più grande manipolazione sociale della storia recente d’Italia. Un esperimento compiuto su centinaia di migliaia di persone. Su un territorio, su una comunità intera.

Certo, mettere in relazione il violento scontro del 1980 e le Olimpiadi di Torino può apparire un volo pindarico, ma alla luce di quanto intercorso nel tempo, il patrimonio genetico trasmesso appare evidente. Si pensi ad alcuni protagonisti di allora, divenuti protagonisti della ventennale “trasformazione” di Torino: il giovane Piero Fassino, in quel tempo responsabile delle fabbriche per il Pci e oggi sindaco, che nel 2011 dichiara «se fossi un operaio Fiat voterei sì al referendum di Marchionne». Al tempo accompagnò il segretario Berlinguer alla porta 5, rinominata “Porta Karl Marx”, per un comizio dove il capo del partito espresse agli scioperanti il pieno appoggio, dichiarando, seppur con molte sfumature, sostegno politico nel caso in cui il consiglio di fabbrica avesse deciso l’occupazione dei luoghi di produzione. Piero Fassino negli anni successivi puntualizzò che il suo partito «cercò di convincere il sindacato ad accettare l’offerta della Fiat» e che quella linea «non passò per via del clima che si era creato». 

 

Oggi il sindaco di Torino è uno dei più accaniti sostenitori del cambiamento, della trasformazione post industriale, delle Olimpiadi, delle grandi opere e dei grandi eventi. E di Marchionne.

Ma i cambi sono avvenuti anche in senso contrario. Paolo Cantarella, ex amministratore delegato Fiat, poi consigliere di Iren SpA, Finmeccanica, Teatro Regio di Torino, è stato membro del Toroc, il comitato olimpico che organizzò i giochi. E con lui moltissimi altri ex top manager Fiat hanno nel tempo deciso che era meglio lavorare sotto l’ala dello Stato. Stato – per la verità li si può trovare quasi tutti nelle istituzioni torinesi e piemontesi – che li ha accolti come figlioli prodighi, riservando loro ruoli a retribuzioni apicali. Un’osmosi capillare tra personale politico e industrial finanziario.

Il primo scossone alla dimensione produttiva torinese del 1980 fu seguito da un secondo, nel 1994, quando la Fiat in occasione del celebratissimo «la festa è finita» di Gianni Agnelli, produsse una nuova ondata di licenziamenti, tra cui 3800 impiegati che solo pochi anni prima avevano alzato per le vie di Torino cartelli di questo tenore: «il lavoro si difende lavorando».

La festa, ma soprattutto la storia, era finita, il capitale trionfava e i comunisti diventavano post ideologici, in primis quelli torinesi, quasi tutti “miglioristi”, quindi ontologicamente neo liberali. Veloci nell’ammettere non solo la sconfitta, ma l’assoluta bontà e superiorità di un sistema ufficialmente “nemico” fino alle prime picconate nel muro di Berlino.

2. Un flute, un bocconcino e via, verso Olimpia

Ma ecco, durante una cena alto borghese tipicamente torinese, l’idea brillante. C’è anche l’avvocato, si discute cosa fare della città che andrà incontro alla de industrializzazione a tappe forzate. È il 1998.

Ma come si fa?

Eh già, è un bel problema. Duecentomila operai non sono uno scherzo.

Tutto d’un tratto, tra un flute e l’altro, un generale in pensione la butta lì: «Facciamo le olimpiadi invernali!». Torino è a due passi dalle montagne, le principali stazioni sciistiche sono a cento chilometri e, particolare non secondario, si trovano nel feudo montano degli Agnelli, Sestriere e paesi adiacenti.

Un attimo, e l’idea del generale diventa l’idea di Agnelli nel plauso generale. E’ il grande dono che l’avvocato fa al suo popolo: basta pane, brioches per tutti.

Una tra le più grandi opere di sperpero del dopoguerra viene trasformata con retorica battente in una grande opera di rilancio. Ciechi di fronte alla privatizzazione del sistema bancario, di fronte alla natura squisitamente privata dell’euro, di fronte a leggi di bilancio sovranazionali che hanno trasformato radicalmente i concetti di debito, deficit e spesa pubblica.

Torino e le sue Olimpiadi mettono bene in luce il meccanismo macro economico perverso in cui è piombato il paese: perché l’intervento pubblico, qualunque esso sia, dal tombino al tunnel di 54 km, è diventato un violento meccanismo estrattivo di valore volto ad abbattere lo Stato.

E come scrive lo storico dell’arte Tomaso Montanari, impegnato quotidianamente a denunciare l’esproprio del patrimonio culturale – uno degli strumenti che dovrebbero rendere gli italiani uguali – da parte di privati, «lo Stato da vent’anni è impegnatissimo a distruggere se stesso.»

È scacco matto pieno. Chi ha dettato le regole del gioco, nell’osservare la povera Torino e la povera Italia, probabilmente ha lo stesso pensiero che aveva il grande scacchista Bobby Fischer: «Mi piace vederli dibattersi». Così confessò, a proposito dei suoi avversari.

Torino si dibatte, da dieci anni.

Ci si può quindi indignare di fronte allo sfacelo post olimpico torinese?
Di fronte al trampolino di Pragelato, costato 34,3 milioni di euro e oggi abbandonato?
Alla pista di bob di Cesana Pariol, costata 110,3 milioni di euro e oggi abbandonata?
A parte del villaggio olimpico – 140 milioni di euro – abbandonata?
Alla pista di free style di Sauze d’Oulx, costata 9 milioni, usata sei giorni e poi smantellata?
Alla pista di biathlon a Sansicario prossima alla trasformazione in campi da tennis?

L’Istituto Bruno Leoni, di cui si può dire tutto tranne che sia un centro di ricerca “antagonista”, in uno studio del 2012 quantificò la perdita secca di Torino 2006 in ottocento milioni di euro. Un calcolo che teneva conto di tutti i benefici diretti e indiretti delle Olimpiadi.

Meccanismo estrattivo centrato sull’effetto leva generato dal debito perfettamente funzionante.

Il debito di Torino oggi è sceso a circa 3 miliardi di euro, dopo vendite e tagli draconiani.
È un debito squisitamente privato, contratto con istituti di credito privati, che si ripaga con i beni dei cittadini. Prima quelli pubblici, poi si passa a quelli privati attraverso la tassazione. Compito della politica dovrebbe essere quello di sovvertire queste regole fanatiche – pensare di organizzare le olimpiadi Roma 2024 in presenza del patto di stabilità significa consegnare le chiavi della città al curatore fallimentare nel 2025 – oppure di non fare debito e, nel caso, ridurlo senza vendere posate e lenzuola: troppo complicato. Soprattutto a Torino, dove il debito è passato da 1,8 miliardi del 2001 a 3,3 nel 2011, dove quasi tutte le partecipate sono state messe in vendita, dove è stata privatizzata la gestione di nove asili, dove strutture barocche seicentesche, definite patrimonio dell’umanità dall’Unesco, sono finite nei fondi di cartolarizzazione e messe all’asta.

Cosa è questa, se non la sistematica distruzione dello stato sociale?

Ma d’altronde come stupirsi, se al governo c’è la sinistra che vede come faro Tony Blair, con venti anni di ritardo, il nemico numero uno dell’idea di stato sociale.

Torino è la capitale nazionale della cassa integrazione e si può tranquillamente dire che oggi il primo datore di lavoro della città è lo stato sociale, e solo grazie alla rendita accumulata da generazione precedenti, in primis quella operaia, il tessuto sociale non si sfilaccia fino a lacerarsi. Le ore richieste di Cig nel 2015 sono state il 222% in più di quelle del 2008, anno di inizio crisi. Perché vulgata vuole che la famosa “crisi” da queste parti arrivi otto anni fa.
E ricordiamo sempre i meno centodiecimila del 2003.

Indignarsi, definire tutto questo “spreco” è fuorviante, cieco di fronte alla sistematicità di tali operazioni. Manca la capacità di vedere il fine, e ci si rifugia nella rassicurante prospettiva di qualche malandrino, qualche incapace, o entrambi. Va bene per strisce pre serali dove vengono date in pasto la magagne del Paese. Le olimpiadi, i grandi eventi, le grandi opere, sono ingranaggi perfettamente funzionanti del meccanismo che trivella la Repubblica e rimodella la società su un modello neo aristocratico.

Perché anche nel caso in cui quegli impianti oggi abbandonati fossero debordanti di folle con scarponi e racchette il risultato finale sarebbe uguale. Oggi, Torino vanta indici macro economici drammatici: il Comitato Rota, nell’annuale rapporto sulla città del 2014, certificava che in alcuni quartieri periferici l’aspettativa media di vita si accorcia. Torino è la città in cui c’è stata la rivolta dei forconi più violenta: tre giorni di insurrezione, le vie spettrali, i tram messi per traverso nei corsi, rotonde ostaggio di ignoti che bloccavano i rifornimenti. Uno squarcio nel ventre profondo che ha fatto vedere cosa si muove nelle viscere del tessuto umano torinese.

Una città polarizzata, perfino nell’estetica. Un centro ricco rifatto in occasione dei giochi del 2006, scintillante, il salotto contrapposto alla periferia ansimante, rancorosa, ripostiglio di cui prima o poi magari ci si occuperà. Forse.

Colpa della “crisi”, rispondono. Quale crisi? La crisi è causata dai processi sopra descritti e quindi è lo stesso termine “crisi” a essere fuorviante. E questa sedicente “crisi” non passerà perché i pozzi di valore da trivellare sono ancora molti. Negli Stati Uniti, dove prende avvio questa globalizzazione capitalista i posti di lavoro persi dall’industria pesante, e non più recuperati in termini né qualitativi né quantitativi, sono 7.231.000.

Ma la trasformazione torinese, grazie alle Olimpiadi, è riuscita perfettamente. La città trabocca di turisti, gli incrementi sono tutti a doppia cifra, grandi eventi, grandi manifestazioni fanno sbraitare al successo ad ogni ponte di pasqua. E non sarà certo chi scrive queste righe a colpevolizzare coloro che hanno colto l’occasione per creare un po’ di lavoro nel settore del turismo e della ristorazione: è rimasto solo quello. I processi di gentrification – descritti magistralmente dal prof. Giovanni Semi nel suo illuminante libro Gentrification. tutte le città come Disneyland (Il Mulino) – sono paradossalmente l’ultima spiaggia di una città alla deriva. Dopo c’è il grande nulla.

Quindi, il paziente è moribondo ma l’operazione è perfettamente riuscita.
Scriveva ancora Rastello, nel 2003:

«Passata la commozione per la morte di Gianni Agnelli, oggi a Torino c’è la consegna del sorriso e l’appello ad andare avanti assieme, con un’ombra di retorica. Il volano della nuova vita dovrebbero essere le olimpiadi Torino 2006. Resta memorabile il commento della scrittrice Arundathi Roy: “Veramente distruggete il vostro ambiente per sciare due settimane?”
Eppure c’è poco da scherzare: qui chiude tutto. La Sai Fondiaria che si trasferisce a Firenze, la Savigliano, gloriosa metallurgica che ha lavorato quasi due secoli, la Utet, prima casa editrice della storia d’Italia.»

Di queste parole profetiche Luca Rastello dovette rispondere a Chiamparino in persona, al tempo sindaco di Torino.

Ma rileggere la storia con gli occhi del tempo è esercizio divertentissimo, e fa capire quanto il giornalista scrittore torinese rischiasse di diventare un granello di sabbia capace di far saltare il meccanismo estrattivo.

I giornali del periodo olimpico, sono un drammatico spasso riletti oggi. Tutta l’intellighenzia è schierata:
Alessandro Baricco scrive sulla metropolitana finalmente inaugurata una specie di favola dal titolo Dal romanzo alla realtà, niente meno;
Gianni Vattimo, il filosofo, dopo aver criticato fa dietro front e sulle pagine de La stampa si cosparge il capo di cenere, e in prima pagina nazionale (una piccola punizione per il discolo, la contrizione non basta) dichiara: «Io, filosofo pentito»;
Saverio Vertone annuncia che non partirà più per Parigi, come aveva annunciato. Margherita Oggero cita Manzoni;
Luciana Littizzetto si lancia in un profetico: «Olimpiadi Torino, le cassandre avevano torto»…
Lo scrittore Giuseppe Culicchia ogni giorno tesse le lodi dell’evento e della città rinata, ma tre anni dopo scriverà un bel libro ambientato a Torino, Brucia la città (Mondadori): succoso affresco di una città saccheggiata e devastata, in una bella pagina gli assessori Mintasco, Minfischio e un altro dal nome evocativo, tutti facilmente riconoscibili con i personaggi reali, durante una bella festa in collina, circondati dalla borghesia pezzente torinese, affacciati sul povero popolo “che riposa”, tagliano una gustosa fetta di torta su cui è disegnata la città. E se la mangiano.

E buon appetito.

John Elkann sull’house organ ricordava invece che se il nonno fosse ancora vivo sarebbe molto contento, mentre nientemeno che il re Savoia annuncia al popolo: «Torino potrà ammirare i miei gioielli.» La più saggia pare Evelina Christillin, reginetta e organizzatrice dei giochi: «Aspettiamo a festeggiare, nel lungo periodo solo la serietà paga.»

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E visto che l’occasione è propizia, durante le Olimpiadi la propaganda anti Notav diventa particolarmente virulenta. Quella maledetta valle ribelle pare aver capito che il meccanismo estrattivo olimpico è uguale al meccanismo estrattivo Tav. Ci sono quindi conti da regolare.
Pisanu, al tempo ministro degli Interni: «Temo notav e no global ancor più dei terroristi islamici». Pininfarina: «Rischiamo di perdere la Tav. O apriamo i cantieri nel 2006 o Bruxelles potrebbe dirottare i finanziamenti che ci ha concesso. E la penisola Italia diverrebbe un’isola». Quindi, dato che oggi siamo nel 2016 e del tunnel di base non è stato scavato nemmeno un millimetro, l’Italia è di fatto un’isola.

Ma ciò che sorprende è il pensiero dei torinesi nel 2006. In un sondaggio condotto durante il periodo olimpico e pubblicato da La stampa emerge un quadro molto razionale e serio del contesto, distante mille anni luce dallo sciabordio sfavillante della festa. Il problema principale per i torinesi è il lavoro (23,7%) seguito dalla salute (20, 4%) e dal reddito (16, 4%). Il 21% dichiara di non arrivare a fine mese, e il 26,4% non ha beni essenziali per vivere. Il futuro precario del figli (nel 2006, quando ancora il barbaro retaggio novecentesco dell’art 18 non era stato sostituto dal progressista e di sinistra Jobs Act) preoccupava il 35% dei torinesi. Bei tempi.

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Scriveva a commento Marco Revelli:

«Sembra la posizione di chi, sotto la pioggia, si augura che l’ombrello tenga e che non si metta a grandinare, che non di chi già vede, a occhio nudo, “il sol dell’avvenire..”. E forse il 10 febbraio saranno state anche loro davanti al video a scaldarsi il cuore con la favola della loro città che decolla.»

3. Eppure è stato tutto perfetto

Le Olimpiadi di Torino 2006 sono un esempio di legalità, contesto vergine da ogni corruzione. Il territorio torinese, notoriamente infiltrato dalla criminalità organizzata, oggetto di una pioggia di denaro pubblico senza precedenti, ha saputo resistere senza il minimo cedimento alle forze criminali che inquinano e devastano le grandi e piccole opere della Repubblica. Anzi, c’è solo una piccolissima macchia a sporcare il tessuto lindo. Il 28 febbraio del 2006, un breve articolo di cronaca di Antonio Gaino pubblicato da La Stampa, paventa futuri terremoti giudiziari in arrivo.

Il cronista descrive un piccolo caso di utilizzo improprio di un telepass da parte di un dirigente del Toroc, quindicimila euro di danno. Poi aggiunge:

«Un ruttino rispetto la montagna di sussurri – sport nazionale anche questo – che avevano accompagnato l’escalation delle previsioni, al ribasso, degli incassi, e delle spese, al rialzo, per le XX olimpiadi invernali.»
 

Il ruttino rimarrà tale.

E cosa pensare delle parole di Rocco Varacalli, uno dei pochissimi pentiti di ‘ndrangheta dalle cui dichiarazioni ha preso avvio il processo Minotauro (45 condanne e 25 assoluzioni). Varacalli, oggi in carcere per omicidio, in una puntata di Presa diretta del 15 gennaio 2012 disse:

«Tutte le opere sono state fatte dalla ‘ndrangheta, dal cassiere della ndrangheta. E dopo le olimpiadi anche l’alta velocità Torino Milano, tutti i lavori del Piemonte, lavori pubblici, li hanno fatti loro.»

Chi avrà voglia di ascoltare l’intera puntata comprenderà che Varacalli parlava di un sistema criminale strutturato e dinamico.

Sparate televisive? Vendette? La figura di Varacalli risulta ambigua perché per molti aspetti è più volte caduto in contraddizione, fino ad essere ritenuto non credibile. Ma la seconda sezione della Corte di Cassazione, sempre relativamente al processo Minotauro, privo di relazioni con le vicende olimpiche, ha così scritto: «Il suo narrato è rimasto coerente e costante, privo di contraddizioni e munito di plurimi riscontri esterni, mai smentito da risultanze processuali di segno contrastante.»

Burp.

_____
* Maurizio Pagliassotti, giornalista, è autore dei libri Chi comanda Torino (Castelvecchi, Roma 2012) e Sistema Torino Sistema Italia (Castelvecchi, Roma 2014). Sta scrivendo un’inchiesta sul potere delle fondazioni bancarie. Compare come personaggio nella seconda puntata di Ovest. 25 anni di lotte No Tav in Val di Susa, miniserie di Wu Ming 1 apparsa in tre puntate su Internazionale.

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