Eppur si muove…
Sebbene in questi ultimi anni l’università ci abbia abituati ad un’immobilità quasi totale, l’ultimo anno e questi mesi sembrano far intuire alcune possibilità. E’ in questo terreno, quello della scommessa, che vogliamo inserire le prossime considerazioni.
Dalle contestazione ai saperi di guerra ai timidi tentativi di mobilitazione di ricercatori e professori sembra aprisi uno spazio per praticare un discorso di medietà capace di poter agitare e (forse) praticare lo sciopero e il blocco dell’accademia.
Innanzitutto rileviamo questa impressione: le lotte contro l’Isee hanno visto per la prima volta mobilitarsi una soggettività studentesca nuova , integrata e iper-produttivizzata, iper-proletarizzata, dandoci la misura di una potenziale «autonomia da» che timidamente si affaccia nei comportamenti di rifiuto che sono stati espressi in questo ultimo anno accademico. Seppur in modo parziale e insufficiente crediamo vadano approfonditi i solchi di queste rigidità e praticata un’inchiesta sui comportamenti.
Con quali tempi si sono dati?
Restando sempre nel campo delle impressioni, ossia che si trovano in uno stato di immaturità per essere definite tendenze.
I tempi dedicati alla lotta sembrano intesi come ristretti, perchè equivalgono direttamente a una perdita di tempo (reddito-sapere-merce), quindi vengono utilizzati in modo iperproduttivo anche se espressi nella dimensione del contro: poca disponibilità alla discussione assembleare, tendenza a praticare obiettivi immediati e vicini. Su una diversa scalarità viene inteso il momento assembleare come l’esaurimento del momento del conflitto.
I tempi del conflitto diventano dirimenti se vogliamo pensare ad un’opzione come quella del blocco e dello sciopero, perchè ci pone subito di fronte alle ricadute organizzative. Per strutturare il nostro discorso contro e costruire il livello di medietà della proposta.
Un’altra impressione che ci arriva è la possibilità che, nell’esaurirsi di alcune forme della militanza su cui abbiamo costruito le nostre identità, permangano delle spinte anche verso il rinnovamento. Sembra si diano dei comportamenti coscientemete contro che significano un’irriducibilità.
Ad esempio dove i nostri sforzi soggettivi aprono lotte sul welfare ci tornano indietro mobilitazioni contro la produttività, dove occupiamo aule studio si danno forme di appartenenza oltre noi, che hanno un certo grado di autonomia (anche politica).
Queste impressioni ci arrivano dall’esperenze degli spazi sociali che abbiamo aperto (e chiuso) negli ultimi due anni, e per ciò parziali. Intendiamo tutti quei soggetti che ci riconoscono la proposta organizzativa ma che non la introiettano nelle loro forme di vita in modo determinante.
Cosa intendiamo per medietà diventa centrale: ossia la possibilità di fluire dal basso verso l’alto e viceversa della nostra proposta e quanto della nostra identità si debba sacrificare dentro essa. Possiamo provare ad abbassare la proposta e allargare le maglie? Ipotizzare diversi livelli per non perdere l’analisi chiara e la decisionalità militante, ma sperimentare forme di partecipazione politica? Ovviamente sono la pratica e l’inchiesta a doverci guidare per verificare le nostre ipotesi e non il gioco delle scatole cinesi.
Non è un passaggio artificiale ma deve fare i conti con i nostri sforzi soggettivi in università. Le (piccole) mobilitazioni contro l’isee ci dicono che dove poniamo un discorso e sperimentiamo, qualcosa succede.
C’è un aspetto mediatico di questo che non consideriamo.
Possiamo costruire una mediaticità qualitativa più che quantitativa che ci aiuti a rappresentare il rifiuto a questa università? Come integriamo le funzioni della nostra proposta e le raccordiamo ad un piano di rappresentabilità del rifiuto oltre che ad una sua praticabilità, ci sembra importante.
Inserire un discorso di medietà vuol dire rappresentare quell’impossibilità di realizzazione delle soggettività studentesche. E su questa negazione ri-significare la nostra identità militante.
Dobbiamo provare a studiare i piani alti dell’università. Ossia come si integra la crisi di sovrapproduzione con un rimodellamento della soggettività. Come oggi l’università e la ricerca continuano essere il punto più alto del sistema.
Una parte ci sembra sia il rapporto con la banca: investimenti consistenti che richiedono una direzionalità di parte più forte che in passato.
Questo comporta delle ricadute urbane, metropolitane dell’università considerevoli.
Ad esempio a Torino questo meccanismo può combaciare con il cosiddetto Master Plan. Un progetto di residenze universitarie, che mira a rimodellare le strutture metropolitane e il mercato immobiliare legato agli studenti.
Pensiamo si possa scommettere su queste impressioni, ma crediamo vadano verificate nei fatti.
Ritornando sulla possibilità del blocco e dello sciopero di questa università dobbiamo provare ad immaginare come i segmenti della forza lavoro dentro l’università possono essere un grimaldello per aprire una contraddizione. Come possono esserlo là dove c’è la soggettività iper-disciplinata e iper-proletarizzata che non riesce a realizzarsi, vedendosi negate le proprie prospettive soggettive.
Lo sciopero alla rovescia dei ricercatori è interessante nella misura in cui può rappresentare-agitare il tradimento della promessa. Che viene costruita nelle aule di lezione; sulla base del merito e dell’ideologia del sacrificio a oltranza.
Se è prima di disciplinarsi completamente che la soggettività dell’universitario «riformato» ha la tendenza (umana!) ad una irriducibilità, allora quella è la crepa da aprire nel muro.
L’esplosività potenziale di queste tensioni interne, per ora telluriche, possono essere fatali per questa università.
Se usiamo le lenti giuste sembra aprirsi una sfida. Forse un nuovo ciclo di lotte?
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