Facchini e libri: scrittori, editori e istinto di classe
Dopo giorni di pioggia e nuvole nere, ma mai nere come le anime dei benpensanti della nostra politica e della connessa loro industria (non solo) editoriale, cercavo giusto un’occasione per cimentarmi con un argomento con cui sarà facile rendersi impopolare.
Questo argomento riguarda i libri, la loro presunta sacralità e quell’aura di “garanti della democrazia e della libertà” da cui vengono artatamente circondati.
“I libri,” sostengono facendo la faccia da cerbiatto stuprato orde di cittadini-buonidemocratici-mediamenteacculturati, “non dovrebbero mai essere toccati…”; e, immancabilmente, proseguono il loro noioso discorso ricordando a chiunque metta in discussione questo assunto che erano stati i nazisti a permettersi il più grave dei peccati: bruciare i libri.
Singolari paragoni. Perché in casi come questi chi ha tanto a cuore il destino dei libri, facilmente si dimentica dell’unico destino per il quale valga davvero la pena di lottare: quello degli uomini e delle donne; persone in carne e ossa, non cellulosa sporcata d’inchiostro.
Il nazismo ha fatto naturalmente ben altro rispetto al bruciare i libri. Artefice dell’olocausto – mai abbastanza bestemmiato e combattuto: ma dove sono quelli che gridano al nazi quando il fascismo si manifesta davvero? – il nazismo ha rappresentato la cristallizzazione estrema di precisi interessi capitalistico-padronali, alimentati con la frustrazione nazionalistica e patriottarda e sostenuti attraverso l’individuazione di un nemico ben preciso: la lotta di classe.
Soltanto tenendo presente questo passaggio, allora, si può ripetere – e assolutamente condividere – quanto sostenuto dal sansimonista Heinrich Heine, secondo il quale “dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli esseri umani” (Heine, a dire il vero, sosteneva anche che “dovremmo perdonare i nostri nemici, ma non prima che siano impiccati”).
Altrimenti la realtà è quella dove – di fatto – gli essere umani vengono bruciati tutti i giorni, in modo metaforico, certo, attraverso la generalizzata privazione dei diritti di ogni tipo a cui stiamo assistendo più o meno inermi, ma comunque nell’acquiescenza generale, capitanata dai tanti pronti a indignarsi per i libri perduti… gli stessi che, quando il 15 febbraio del 2012, con la cancellazione di una moltitudine di testi elettronici e nel nome della “lotta alla pirateria”, si è consumata la distruzione del portale library.nu (solo per fare un esempio: http://www.webnews.it/2012/02/15/library-nu-cancellati-migliaia-di-e-book-pirata/), “colpevole” di mettere a disposizione gratuitamente milioni di testi in formato elettronico, non hanno sprecato una sola parola, pianto una sola lacrima, animato una singola protesta o, perlomeno, avanzato una sola domanda. Una domanda tipo: si difendono i libri o si difende il capitale?
In questo contesto, naturalmente, la parola “capitale” può essere presa come sinonimo di “potere”. Ma la precisazione serve soltanto a raccontare la storia che i tanti difensori dei libri non hanno mai letto: quella della scrittura e delle prime forme di pubblicazione.
Già. Perché quando venne messa a punto la scrittura in quanto tecnica, i suoi primissimi impieghi – e a lungo pressoché gli unici – non riguardarono la stesura di delicate liriche sul male di vivere o di amene prose sulla passione romantica, niente di tutto questo. Con la scrittura, per prima cosa, vennero affrontati i lati di massicci obelischi. Per incidere sulla pietra lunghe liste di nomi di laghi, fiumi, montagne… accompagnati da elenchi altrettanto lunghi di dinastie reale che, quella stessa scrittura e quegli stessi supporti, spacciavano come depositari di un potere millenario, naturalmente voluto da Dio.
Da quel momento in poi, il destino della “Scriba” è uno solo: affondare lo stiletto nella gola del potente di turno… o restare un semplice servo di quel potere che ha partorito lui e la sua scrittura.
Compito tutt’altro che facile, a cui pure generazioni di scribi infedeli si sono votati subendo in cambio persecuzioni di ogni genere: a cominciare proprio dal rogo dei propri libri.
Per il resto bruciare i libri può essere un atto bellissimo e liberatorio. Penso per esempio alla rivolta del Matese, quando un nugolo di ribelli capitanati dagli anarchici Errico Malatesta e Carlo Caffiero devastò tutti i municipi della zona – le case del potere – producendosi, come primo atto, nel rogo dei libri comunali che si arrogavano la pretesa di certificare lo stato di semi-schiavitù legalizzato a cui i braccianti locali – come milioni di altri lavoratori in tutto il mondo – erano stati condannati.
La vera e propria gioia dei lavoratori di fronte a quel rogo affonda le sue radici nella nascita infame della scrittura e dei libri e costituisce l’oggetto di una realtà dimenticata: la diffidenza naturale del proletariato nei confronti dei libri e di chi ne fa parte è giustificata dal rapporto incestuoso che da sempre unisce i libri al potere e si tramuta spesso in atti dettati da ciò che una volta era detto “istinto di classe”.
Nell’analisi gramsciana l’istinto di classe va temperato alla luce di elementi di “folklore regressivo”… ma ecco che in questi giorni la storica diffidenza provata da ogni lavoratore degno di questo nome nei confronti di chi non svolge compiti manuali, trova nuove ragioni d’essere nelle uscite pubbliche di alcuni importanti (?) esponenti dell’intellettualità italiana a proposito della battaglia di lunga durata che, a Bologna, oppone i lavoratori della logistica alla Granarolo.
Secondo il giallista/scrittore/autoretelevisivo bolognese Carlo Lucarelli: “Non entro nel merito di una vertenza in corso, e se questa situazione ha generato della rabbia, dico che esiste sicuramente una rabbia sacrosanta e legittima, è quella che grida dei contenuti a cui si deve dare risposte, ma è anche quella che a un certo punto si ferma e si trasforma, diventa un atto politico che si svolge entro i limiti della democrazia ed è costruttivo (…) la rabbia non può legittimare la violenza, altrimenti diventa dannosa, inutile, strumentalizzabile e non fa l’interesse di nessuno, tanto meno dei lavoratori. Il clima è preoccupante, e spero come tanti che tutto possa tornare nei confini della civiltà e del rispetto delle regole”.
Lucarelli, insomma, invoca nientemeno che “i confini della civiltà”: poteva usare tante parole per esprimere la comune veste neo-centrista che ha assunto l’arroganza padronale; ma da buon scrittore ha usato la più giusta: “civiltà”; la stessa civiltà dei libri e della scrittura che torna a servire il potere – oggi il capitale – come ha sempre fatto quando non ha imparato ad alzare la testa dai facchini della Granarolo.
Le dichiarazioni di Lucarelli sono rivoltanti, e per quanto mi riguarda quella pretesa di giudicare ciò che fa parte della civiltà e cosa non ne fa parte resterà indelebile nei riguardi del giudizio che si può dare a un simile intervento (nessun padrone poteva esprimersi meglio di un padrone che fa lo scrittore). Che a dare manforte a Lucarelli via Twitter sia intervenuto un altro scrittore come Sandrone Dazieri non mi stupisce, dopo le dichiarazioni dello stesso a favore della nuova legge elettorale detta “Italicum” in esame al parlamento. Dichiarazioni in cui, elogiando il bipolarismo renziano (quello dove si potrebbe ottenere un governo di larghissimi poteri con una minima percentuale di voti, alla faccia di qualunque formalismo democratico) affermando che: “Facciamo un caso pratico. Prendiamo la Valsusa. Secondo voi che cosa farebbe il partito o la coalizione all’opposizione nel caso di una mobilitazione sociale diffusa e duratura come la No Tav. Ve lo dico io. Prima delle elezioni offrirebbe uno scambio.
Ahh, voto di scambio, urlate ora tutti assieme! Schifezza, orrore. Figliole e figlioli: è sempre un voto di scambio. Si vota per ottenere qualcosa che riteniamo utile, conveniente o giusto. Un governo migliore, le tasse più basse, quel cazzo che volete. L’ideologia ci forma, ci aiuta a scegliere quello che riteniamo utile, conveniente o giusto, e tutti noi, credo, dovremmo interrogarci su qual è il modo migliore per ottenere quelle riteniamo utile, conveniente o giusto. I risultati, quando coinvolgono la vita di milioni di persone, contano”; si invita in buona sostanza a prepararsi a sostenere il PD.
Non mi stupisce il sostegno dato da Dazieri a Lucarelli proprio per quella che è la principale, almeno a mio giudizio, caratteristica della lotta dei facchini della Granarolo. La lotta della Granarolo, infatti, non scaturisce “semplicemente” da una delle tante storie di ordinario e brutale sfruttamento padronale, ma mette a nudo un meccanismo in cui, attraverso il paravento delle cooperative (chiamarle ancora “rosse” è ormai anacronistico come convertire l’euro in lire), lo sfruttamento è legato a doppio filo al potere piddino bolognese: autentico laboratorio neocapitalistico dove si gioca il futuro di repressione e di sfruttamento che di certo non riguarderà soltanto il comparto della logistica, ma assolutamente chiunque… altro che “voto di scambio”!
Questa, infatti, è la situazione che si sta prospettando. Anzi, che si è già concretizzata e di cui è frutto l’esperienza di lotta bolognese. Con la triplice alleanza sindacale che abiura a qualunque forma di conflittualità e si fa scoperchiatamente “concertativa” (un sindacato “giallo”); con la rappresentanza politica completamente slegata dagli elettori, sia attraverso una legge elettorale liberticida, sia attraverso l’asservimento a macrodecisioni economiche prese a livello extraterritoriale, si entra in una nuova epoca coorporativa, cioè in un nuovo stato di tipo fascista.
Ed è esattamente in questo stato che una casa editrice come la Rizzoli, cioè la casa editrice della famiglia-padrona del capitalismo italiano, “compra” una pagina del Corriere della Sera, sempre di proprietà della stessa famiglia capitalistico-rapinatrice, per venire a dire al “popolo” che… i libri non si bruciano.
Il riferimento dovrebbe essere al fuoco di paglia che ha riguardato qualche non immortale opera dello scrittore/giornalista/autoretelevisivo Corrado Augias, responsabile di aver accusato di “fascismo inconsapevole” gli esponenti del M5S: cioè, la Rizzoli avrebbe comprato (si fa per dire, è tutta roba loro) un’intera pagina di un quotidiano a fronte di un post su twitter in cui un militante grillino bruciava alcuni libri dello stesso?
Cioè, la Rizzoli, creatura immonda del turbocapitalismo non si accontenta più di sventolare la bandiera del profitto ma pretende di inalberare quella della libertà – o magari, come la chiamerebbe Lucarelli, quella della “civiltà”?
La stessa proprietà che, a più riprese e attraverso i suoi strumenti di informazione, tanto per fare un esempio, non ha mai avuto remore ad attaccare e a diffamare nei più volgari dei modi qualunque forma di lotta popolare, adesso si permette di utilizzare i libri per darsi una verniciatura quietamente democratica?
Proprio così. Lo fa e miete consensi su questo proprio in virtù di quel legame antichissimo tra scrittura e potere, tra libri e capitalismo che, in tempi di crisi, è tutt’altro che “fascismo inconsapevole”, ma vero e proprio fascismo: propaganda-spazzatura che tenta di sommergere ogni fenomeno autenticamente progressista, come quello di cui i facchini della Granarolo sono protagonisti. D’altronde dov’è che Lucarelli ha rilasciato le sue dichiarazioni: sul “Corriere di Bologna”, dorso locale del “Corriere della Sera” naturalmente…
E francamente non ho bisogno di aspettare né le dichiarazioni di Lucarelli, né tantomeno di dichiarare la mia siderale distanza dell’opzione grillina per dire che francamente per un rogo di pubblicazioni targate “Corriere della Sera”, quindi Agnelli, quindi Fiat… beh, che dire?
Non piangerei certo lacrime amare di cordoglio per la democrazia.
Per fortuna, in ogni caso, Lucarelli, e poi Dazieri, hanno avuto la loro messa in discussione attraverso una lettera aperta firmata da Wu-Ming, Valerio Evangelisti, Alberto Prunetti e Girolamo De Michele. Un’accusa decisa, dove, tra l’altro, si legge: “i quotidiani sembrano voler contrapporre, con una furbesca titolazione, due generi di scrittori: quelli “buoni” e quelli “politicamente scorretti” che legittimerebbero la violenza. Una distinzione inaccettabile. La «violenza»: ma quale violenza? Non c’è stato alcun atto di violenza da parte dei lavoratori in lotta, in massima parte migranti. C’è stato quell’uso della forza che è proprio di ogni sciopero e si esprime nei picchetti, nei blocchi, nell’intenzione di danneggiare gli interessi economici della controparte. Al contrario, la violenza fisica delle manganellate e degli spray urticanti, gli arresti ingiustificati dei delegati sindacali (in violazione delle norme), i licenziamenti, il mancato reintegro dei lavoratori in spregio agli accordi sottoscritti (ed anche, a Milano, il pestaggio in stile mafioso del sindacalista del Si Cobas Fabio Zerbini) sono forme di violenza padronale”.
Personalmente non ho particolari problemi a fare un altro passo, aggiungendo che la “violenza” di cui si sta trattando è: 1) prima di tutto figlia del “potere” di chi può decidere cosa chiamare violento e cosa no (secondo “Il Corriere della Sera”, per esempio, un picchetto è “violenza”, affamare uomini, donne e bambini è “applicare le forme contrattuali stabilite dalla legge”); 2) in secondo luogo è frutto di rapporti di forza: sarà molto difficile, infatti, anche al di là delle proprie volontà e intenzioni, essere “violenti” (malgrado decine di processi affermino poi il contrario) a mani nude contro battaglioni di polizia schierate in assetto antisommossa, ben armati, addestrati e con tanto di copertura aerea e mezzi blindati al seguito…
Questo per dire che se un facchino fosse effettivamente riuscito, non so, a dare uno schiaffo al caporione di turno, non credo proprio starei a gridare allo scandalo.
Lo scandalo lo grido quando non si riesce più a mettere a tavola il pranzo con la cena.
Quando non c’è neppure la tavola.
Quando un regime neocorporativista (se non si vuole dire “fascista”) avanza inesorabilmente – meglio: violentemente – sopra qualunque voce decisa a reclamare la riconquista dei propri diritti.
Per questo, preso atto delle “scuse” di Lucarelli (pubblicate qui insieme alla lettera aperta di cui sopra), resta il risentimento e, legittima o meno che possa essere considerata dai padroni di turno, la rabbia per tutto quello che sta succedendo a Bologna come altrove. Una rabbia dolorosa come quella espressa da un bracciante lucano intervistato da Ernesto de Martino e che, vista la data e il luogo dell’intervista (la Basilicata degli anni Cinquanta), poteva benissimo essere mio nonno: “Sono a questo mondo come se non ci stessi”, diceva il bracciante lucano nella sua lingua, “mi hanno messo nel libro degli spersi”.
Era, questo “libro degli spersi”, un altro di quei registri comunali destinato a contenere chi veniva portato via dalla malamorte, quella che rendeva impossibile i rituali di sepoltura e le procedure del cordoglio. Un registro che fissava nero su bianco la destorificazione a cui il potere e il capitale volevano e vogliono condannare le masse: i facchini di Bologna come chiunque altro. Anche me. Che per farla finita con i libri e la loro finta aura di libertà (mai scontata ma tutta da guadagnare), ricordo sempre le parole di Claude Levi Strauss, quando demistificando l’innocenza della scrittura e dei libri ammonì: “Ad ognuno sarà insegnato a leggere affinché nessuno possa dire di non conoscere la legge”.
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