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Foggia-Sliven andata e ritorno: Appunti per un’inchiesta militante sulle ‘altre braccia’

 

Tutto ha inizio nei territori di Capitanata – il Tavoliere delle Puglie, tristemente famoso per il grave sfruttamento che caratterizza chi qui raccoglie il pomodoro. L’informazione mainstream ormai da alcuni anni restituisce lo spettacolo dello sfruttamento di una manodopera ‘extracomunitaria’, qui come altrove – si pensi a Rosarno, un caso eclatante che dal 2010 ricorre agli onori delle cronache. La morbosa riproposizione di immagini dei ‘ghetti africani’ su giornali e siti web fa il paio con la progressiva sistematizzazione di una lucrosa macchina umanitaria i cui ingranaggi – governo, sindacati confederali, amministrazioni locali e associazioni del terzo settore – alimentano un sistema di tipo assistenzialista e insieme concentrazionario. I campi di lavoro proliferano con la compiacenza di molti, da nord a sud. E ‘accolgono’ quell’eccesso di manodopera le cui fila, già cospicue grazie soprattutto alle politiche migratorie e più in generale ad un sistema globale di sfruttamento dei territori e delle persone, vanno ingrossandosi come conseguenza della crisi economica e dei fallimenti delle guerre umanitarie a firma NATO, che forzano i tanti africani sub-sahariani presenti in Libia a prendere la via del mare.

 

Ma lo spettacolo, si sa, si regge sul backstage. E a trovare la strada del dietro le quinte si scopre una realtà ben più complessa, in cui molti tra i lavoratori delle campagne sono…europei, e per giunta spesso comunitari. Per diverse ragioni, tra cui l’organizzazione della loro mobilità a ritmi stagionali, risultano meno “visibili”. A volte alloggiano in affitto nei piccoli centri abitati, o in casolari abbandonati vicini ai luoghi di raccolta, in cui molto spesso sono costretti a pagare affitti molto alti per vivere ammassati e senza servizi. Accanto ai ‘ghetti’ africani, poi, scopriamo anche quelli bulgari, o rumeni. Già da qualche anno sappiamo che molti raccoglitori di pomodoro sono rom: intere famiglie, a volte con figli anche piccolissimi al seguito. Ma nell’estate del 2014 finalmente entriamo nella baraccopoli di Borgo Tressanti, che sorge accanto ad un inceneritore e che ospita circa trecento persone – uomini, donne e travestit*, provenienti dalla Bulgaria. Tra di loro, probabilmente, c’è anche chi si prostituisce più o meno abitualmente, almeno a giudicare dalla presenza di donne rom sulle strade di Capitanata (come su quelle della Piana di Gioia Tauro). La prefettura di Foggia da qualche tempo parla di sgombero, ma sinora nulla di fatto. Gli abitanti di questa come di tante altre baraccopoli non hanno molta voglia di parlare: con tutta probabilità tra loro ci sono, come spesso accade, i caporali. Ma una cosa è certa: tutti vengono dalla medesima cittadina, Sliven. Qualche settimana dopo, riceviamo la telefonata di uno di loro: il padrone non paga. Organizziamo un incontro, sono in tre – due uomini e una donna, tutti giovani. Insieme proviamo a parlare con il proprietario del campo dove hanno lavorato che, a malincuore, alla fine sarà costretto a cedere.

 

Da qualche tempo abbiamo contatti con compagne e compagni in Bulgaria, perlopiù ricercatrici e ricercatori che fanno capo ad uno dei due centri sociali di Sofia. Con loro stiamo iniziando un percorso di ricerca militante, e ci sembra perciò naturale partire alla volta di Sliven con il loro aiuto.

Una cittadina di circa 100000 abitanti, di cui circa 30000 rom, Sliven ha una lunga tradizione di industria tessile (e non solo) – che ovviamente è collassata insieme al blocco sovietico, ma che un imprenditore di Alba, in provincia di Cuneo, ha rivitalizzato. Edoardo Miroglio a Sliven è una celebrità: oltre a diverse fabbriche, possiede anche una fiorente e rinomata azienda di vini e un lussuoso albergo. Ed è uno dei maggiori investitori stranieri nel paese. Ciononostante, sono pochi gli abitanti dei quartieri rom a beneficiare di questa ‘opportunità’ (se così la si può chiamare, visti gli stipendi alquanto miseri pagati ai dipendenti), o di quella offerta da altri investitori stranieri come i giapponesi Yazaki, un’azienda produttrice di circuiti elettrici per automobili. I rom non hanno istruzione: è il mantra che durante la nostra permanenza a Sliven ci ripeteranno tutti, rom e gadzho – e anche quando ce l’hanno sono discriminati ed è raro che li prendano a lavorare. Molti non hanno nemmeno accesso all’assistenza medica: in Bulgaria, la legge prevede un’assicurazione sanitaria privata, che per i lavoratori dipendenti è in parte pagata dal datore di lavoro e in parte detratta dallo stipendio. Se disoccupati, i cittadini bulgari possono iscriversi ai servizi sociali ed avere così diritto all’assicurazione e ad un minimo contributo mensile (24 euro). Ma, nelle migliori tradizioni neoliberiste, non solo devono risultare disoccupati per almeno sei mesi per ricevere il contributo – sono anche costretti a lavorare gratuitamente per almeno 14 giorni al mese, part-time. Così, per non perdere l’opportunità di reddito offerta, nonostante tutto, da lavori saltuari e malpagati, magari all’estero, molti non hanno nessun tipo di copertura. Anche se gli ospedali dovrebbero comunque garantire le cure e poter ottenere rimborsi dallo stato, spesso si rifiutano di farlo. E le ambulanze, se chiamate, ai quartieri rom non arrivano mai. Proprio come nei ghetti d’Italia, rom o africani che siano.

 

Così, chi ha esperienze migratorie in Europa occidentale – e nei due quartieri rom di Sliven sono moltissimi, uomini e donne – racconta invariabilmente di quanto sia stato curato bene, anche negli ospedali del profondo sud italiano, pur con tutte le difficoltà e discriminazioni del caso. Scendendo dal taxi a Nadezhda, il quartiere rom più popoloso, veniamo salutati da un ragazzo con il viso tatuato che ci parla in italiano, e da un uomo dall’età indefinibile che ci chiede se crediamo in Gesù. Probabilmente pensa che siamo missionari di qualche chiesa evangelica, molto popolari da queste parti. La mediatrice sanitaria impiegata dal comune ci spiega che di 20000 abitanti ufficialmente censiti, circa 8000 sono partiti in cerca di fortuna. Ma da Nadezhda, che letteralmente significa ‘speranza’, sono poche le famiglie che si dirigono verso l’Italia – forse una decina, ci dirà il rappresentante municipale del quartiere. Qui molti parlano il turco, e per questo scelgono come meta la Germania, dove possono trovare impiego tramite la nutrita e ben connessa comunità turca. Altri vanno in Spagna, o in Grecia. Molti svolgono lavori stagionali, principalmente nel settore agricolo e delle costruzioni, altri lavorano in fabbrica o, se donne, come badanti. Sono soprattutto i ‘turchi’ e i ‘musicanti’ del quartiere a partire: i cosiddetti ‘naked Roma’, i rom ‘nudi’ – quelli più poveri e marginalizzati fin dall’800 – non possono permettersi nemmeno di emigrare, come anche quelli recentemente immigrati dal vicino villaggio di Gradez che, ci spiegano, finiscono spesso in carcere.

 

Per l’Italia partono invece dall’altro quartiere, Nikola Kochev, arroccato tra il centro della città e le montagne, o dai vicini villaggi di Sotirya, di Nova Zagora e di Tvarditsa. Prima dell’89, molti dei residenti di Nikola Kochev lavoravano in fabbrica, e per questo sono più ‘integrati’, ci dicono. Qui, la prima persona che approcciamo tramite il nostro compagno bulgaro, paziente traduttore e guida insuperabile, dice che sì, molte persone vanno in Italia a lavorare, ma lui non vuole parlarne perché c’è chi, qui, ci lucra e lui non vuole mettersi nei guai. Ma poi attacchiamo bottone con un uomo affacciato alla finestra della casa di fronte, che ha lavorato in Italia per molti anni e ci invita ad entrare. Sono anni ormai che lui e la sua famiglia non partono più – era diventato un peso più che una fonte di sostentamento, se il padrone non pagava lui e la moglie dovevano rimetterci di tasca propria per placare gli altri della squadra, essendo i ‘responsabili’. E poi i Carabinieri di Foggia gli hanno sequestrato anche il furgoncino con cui organizzavano i viaggi, 600 euro divisi per otto persone, tutta una famiglia allargata. Adesso lei lavora nella fabbrica giapponese, per 225 euro al mese. Da Sliven si parte non solo per la Capitanata, ma anche per la Piana di Sibari o per quella di Gioia Tauro, tutti luoghi di sfruttamento a noi noti, o anche per Napoli. I nostri ospiti ci fanno diversi nomi di padroni e intermediari, e ci mostrano contratti, CUD, codici fiscali di tutti i parenti. Così funziona a Sibari, tramite le agenzie italiane che trattengono parte della paga – a loro rimanevano 30 euro per ogni giornata di lavoro, ma da questi, pare, se ne devono scalare altri 5 per i contributi. A Foggia, invece, tutto in nero. Da una parte si pagano 120 euro al mese per dormire, all’agenzia, e dall’altra 100, direttamente al padrone dei terreni – prezzi che ci verranno confermati da altri. E ovviamente il cibo è a parte.

 

Più di una persona ci racconta che qualche anno fa le paghe erano migliori, si arrivava anche a 7 euro all’ora o a cassone di pomodoro, ma negli ultimi anni la situazione è peggiorata – al punto che chi può cerca altrove. A Foggia sono stati gli ucraini, o i rumeni, ci dicono, a rovinare tutto: sono loro che hanno iniziato ad imporsi come intermediari con i padroni delle terre, pretendendo di trattenere parte del salario. Ma in molti continuano a fare la spola a seconda della stagionalità. In entrambi i quartieri, gli effetti economici della migrazione sono ben visibili: le case degli emigranti, almeno in alcuni casi, sono dipinte di fresco, costruite da poco, hanno decorazioni elaborate. Le persone con cui parliamo ci raccontano sempre di viaggi organizzati autonomamente, a costi che variano tra i 40 e i 70 euro a tratta per persona. Ma sappiamo, dalle conversazioni intrattenute a Foggia e dalle allusioni di qualcuno, che c’è chi da Sliven paga anche 300 euro andata e ritorno. E la sensazione è che, nonostante siano in pochi ad ammetterlo, c’è chi organizza l’intero pacchetto per i lavoratori – i ‘caporali’, ancora una volta. Quasi tutti lamentano i soprusi dei datori di lavoro, e chi non lo fa ci viene indicato come un ‘capo’.

 

Le maglie dello sfruttamento, poi, assumono forme diverse anche a seconda dei soggetti interessati: mentre i rom si affidano a persone della loro comunità, anche i bulgari gadzho partono per l’Italia, ma tramite altri canali. Su un giornale locale di annunci, si leggono offerte di lavoro in Italia da parte di agenzie non meglio identificate. Il nostro compagno di viaggi si presta al gioco, e all’altro capo del telefono una donna piuttosto scortese gli domanda se chi cerca il lavoro sia un uomo o una donna. Per gli uomini, spiega, c’è lavoro nella raccolta delle arance e dei mandarini, oppure in una fabbrica di smistamento della frutta. Nel primo caso, la paga è di un euro a cassetta (come effettivamente accade in Calabria), nel secondo sono 30 euro al giorno. Per dormire si pagano 100 euro al mese, e per partire con il minibus da Sofia (ogni giovedì e venerdì) ci vogliono 350 euro. C’è lavoro tutto l’anno, dice la rappresentante dell’agenzia, l’Italia è un paese molto grande dove tutto è coltivato. Alla richiesta di un contratto non sembra particolarmente accomodante – si può fare, se proprio è necessario. E i contatti con i datori italiani si possono avere, ma di solito ci pensano loro per questioni di lingua. Di annunci così se ne trovano frequentemente, e spesso le condizioni di lavoro e di vita che chi parte trova in Italia sono molto più dure di quelle che si aspetta. In molti casi, come abbiamo potuto constatare di persona, i lavoratori vengono truffati e sottopagati, o non sono pagati affatto. Lo stesso è accaduto ad alcuni abitanti di Sliven che nel 2013 hanno lavorato come braccianti in Francia, affidandosi ad un’agenzia. Nonostante nell’ultimo decennio siano emersi numerosi casi di questo tipo in Italia – uno per tutti, quello dei lavoratori polacchi scomparsi nelle campagne pugliesi, raccontato nel libro di Alessandro Leogrande, “Uomini e caporali” – nulla sembra cambiare davvero, se non la nazionalità di chi viene sfruttato, soprattutto dopo che qualcuno si ribella.

 

Un capitolo a parte riguarda poi la manodopera femminile: anche in questo caso, le conversazioni con la gente ci danno la conferma di quanto già sentito in Italia. Se non sei disponibile con il padrone, rischi di perdere il posto. Un anziano signore, chiamato appositamente dal fratello per raccontarci la sua storia, spiega: ‘nelle campagne di Foggia, gli uomini e le donne venivano divisi. Gli uomini venivano mandati più lontano, mentre le donne rimanevano vicino alla casa del padrone. Dopo qualche giorno, iniziavano le avances.’ Più di una persona, tra chi ricopre ruoli istituzionali, ci racconta anche che Sliven è considerata una ‘capitale della prostituzione’. In città, sono le donne e i travestiti, soprattutto rom, a fornire servizi sessuali a pagamento, nella zona del mercato. Ma sul giornale si trovano offerte alquanto esplicite di giovani donne che offrono i loro servizi per una decina di euro. Qui come altrove, la questione del lavoro sessuale è considerata un taboo dal punto di vista morale, e chi lo esercita è trattata come criminale – oppure, nel migliore dei casi, come una vittima da salvare. Come in Italia, anche qui la prostituzione è decriminalizzata, ma il suo sfruttamento è reato e le autorità locali trovano il modo di multare le prostitute di strada per reati relativi alla sicurezza stradale e simili. I rappresentanti delle comunità rom ci tengono a sottolineare che nella loro cultura la prostituzione è considerata immorale, che chi la esercita lo fa per ‘problemi economici e sociali’, ed è comunque emarginata dalla comunità – oppure, negano che le donne (o gli uomini) del loro quartiere lo facciano. ‘A Nadezhda siamo tradizionalisti,’ dice la mediatrice. ‘Sono quelle di Nikola Kochev che si prostituiscono, perché lì sono più integrati e moderni’. Sono molte le donne di Sliven – rom o meno – che si prostituiscono in paesi come il Belgio, l’Olanda o la Germania, dove il lavoro sessuale è legalizzato. Sull’Italia, invece, nessuna notizia.

 

La vittimizzazione della prostituzione rimane un problema politico spinoso, il giudizio morale e un atteggiamento paternalista, unito ad una patina di omertà, uno scoglio culturale difficile da superare. Il ‘dispositivo anti-tratta’ globale, poi, è arrivato anche qui: in Bulgaria esiste una Commissione Nazionale sulla Tratta di Esseri Umani, di cui esistono diversi rappresentanti locali, nell’amministrazione comunale, nella procura regionale, nelle associazioni. Quasi tutti quelli con cui abbiamo a che fare sembrano avere le idee piuttosto confuse circa la definizione della tratta, e spesso danno per scontato che tutte le prostitute debbano per forza essere vittime – come da copione. Ma nella realtà dei fatti non è stato possibile in alcuna evenienza dimostrare la presenza di reato di tratta: i casi arrivati sulla scrivania della procura dall’estero riguardano contenziosi tra le prostitute e i loro protettori, spesso i mariti, per via della spartizione del denaro derivato dai proventi del lavoro. ‘Un tempo’, ci racconta un’altra mediatrice, ‘le donne erano costrette a partire per prostituirsi, adesso sono loro a chiederlo’. Per lei questo appare inconcepibile, ed è una questione che va affrontata attraverso un lavoro di ‘prevenzione’, di cui tutti i membri della Commissione sono convinti sostenitori. La mediatrice accoglie i nostri racconti circa la presenza di donne rom sulle strade italiane, che presumibilmente vengono da Sliven, con occhi sgranati e uno stupore un po’ posticcio che ci lascia stupiti a nostra volta. Per noi è ovvio che la scelta tra il lavoro in campagna mal pagato, che include una forma di lavoro sessuale completamente gratuito e sotto il ricatto del padrone, e quello della prostituta – certamente non idilliaco, ma senz’atro più remunerativo – possa pendere in favore della seconda opzione. Difficile approfondire questo tema così stigmatizzato senza riuscire ad inserirlo in un più complesso contesto, che investe lo sfruttamento dei corpi nella loro totalità.

 

A Sliven veniamo guardate con curiosità, l’ospitalità che non è dovuta è non è scontata, viene però in molti casi naturale e rende più facile fare domande, spiegando il motivo che ci ha spinte fin lì. Parlando con le persone per strada, o invitate nelle loro case, proviamo ad aggiungere ulteriori tasselli al puzzle che abbiamo iniziato a ricomporre nelle campagne italiane qualche anno fa. Lasciamo contatti e informazioni, sperando che questa visita possa essere un passo in avanti nel difficile contrasto a condizioni di sfruttamento selvaggio. La sensazione, intrattenendosi anche solo di sfuggita con le persone, o semplicemente osservando l’articolazione fisica della discriminazione e dell’impoverimento, è quella di poter toccare con mano gli effetti concreti delle politiche europee e del mercato mondiale. Nonostante i chilometri che ci separano da Foggia, da San Ferdinando o da Corigliano Calabro, le forme di apartheid e di precarizzazione non sono diverse, e rendono questi luoghi tutt’altro che periferici nell’organizzazione economica globale. L’invisibilizzazione di questa forza lavoro, di queste altre braccia, anche attraverso la spettacolarizzazione degli ‘africani’ vittime di feroci caporali (africani anch’essi, e sempre senza padroni) nelle campagne è essenziale per mantenere in piedi un sistema fondato sull’estrema ricattabilità, in Italia come in Bulgaria e in molti altri luoghi.

 

Nelle nostre intenzioni, questo breve ma illuminante viaggio non è che l’inizio di un lungo percorso di ricerca e di militanza ancora tutto da costruire, che senz’altro ci porterà in altri luoghi allo stesso tempo simili e profondamente diversi da questo – per costruire ed allargare reti, rapporti, forme di lotta e di conoscenza.

 

Rete Campagne in Lotta

 

 

 

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