Grandi Opere. Un lenzuolo per coprire le magagne italiche
Segnaliamo un articolo di Sergio Bologna dalla rivista SudComune
Grandi Opere: un lenzuolo per coprire le magagne italiche
Cosa intende concretamente Piero Fassino quando dice che l’Italia resterà “isolata” se non si realizza la Torino-Lione? Che non mangeremo più camembert? Che per andare a Parigi dovremo passare da Londra? Oppure che ci mancheranno luce, acqua e gas? Non sto scherzando, vorrei che Fassino mi facesse un esempio concreto d’isolamento dell’Italia (o, se preferisce, dell’economia italiana) se il tunnel di base del Fréjus non venisse realizzato. Non è un politico qualunque Piero Fassino, è stato ministro, sindaco di una grande città, non può buttare parole al vento. Anche se il termine “isolamento” lo usasse come metafora o come iperbole, resta il fatto che è un’affermazione, in quel contesto, che fa dubitare della sanità mentale o dell’onestà intellettuale di chi la pronuncia.
Una “Grande Opera” ha senso solo quando “cambia la vita”, quando modifica in maniera sostanziale il sistema degli spostamenti con effetti sociali, economici, urbanistici, territoriali di vasta portata. L’allargamento del Canale di Suez, per esempio, è stato definito una “Grande Opera” ma i suoi effetti sul sistema degli scambi sono stati pari a zero. L’unica ragione per realizzarlo è stata quella di aumentare gli introiti dello stato egiziano ma anche questo obbiettivo è fallito: certe compagnie di navigazione preferivano circumnavigare l’Africa piuttosto che pagare dei pedaggi più cari e lo stato egiziano ha dovuto abbassare le tariffe e in certi casi dimezzarle per non avere un crollo degli attraversamenti. In compenso l’allargamento del Canale ha innescato un riscaldamento delle acque del Mediterraneo dalle conseguenza imprevedibili su uno degli ecosistemi più splendidi del pianeta. Bel risultato vero?
Vent’anni di (non) politica dei trasporti in Italia
Ho fatto parte del gruppo di esperti che ha elaborato il Piano generale dei Trasporti e della Logistica di questo paese, tra l’altro proprio nel periodo 1998-2001, dei governi Prodi, d’Alema e Amato, quando della compagine ministeriale faceva parte anche Piero Fassino. Avevo la responsabilità delle politiche per le merci e la logistica. Ricordo che non eravamo affatto convinti della necessità di costruire la Torino-Lione e diplomaticamente la definimmo un’opera “non prioritaria”. Quel Piano fu approvato dal CIPE e dal Parlamento con voto bipartisan. Ma vennero le elezioni, il Cavaliere, appena sceso in campo, vinse ed il suo Ministro delle Infrastrutture Lunardi prese il nostro Piano, lo buttò nel cestino e fece passare la famosa Legge Obbiettivo, che di Grandi Opere ne prevedeva parecchie ma non riuscì a realizzarne nessuna. Tornato Prodi al governo, il suo ministro Bianchi tentò un “Piano della mobilità” senza storia ed esito non dissimile ebbe il Piano della logistica del sottosegretario Giachino nell’ultimo governo Berlusconi. Fui chiamato ancora a dare una mano e fu il secondo lavoro inutile. Lì a buttare tutto nel cestino fu l’esimio Passera, Ministro del governo Monti. Più impegnative le mosse del Ministro Delrio con il governo Renzi, che riuscì ad avviare alcune riforme importanti e soprattutto richiamò in servizio alcuni dei miei colleghi del Piano del 2001 con la costituzione di quella “Unità di missione” che aveva, tra gli altri compiti, quello di verificare se tutte le scelte sulle Grandi Opere da fare erano giuste o andavano riviste. Prima che arrivassero i 5 stelle al governo. In tutto questo periodo i partiti del centro-sinistra, ma soprattutto il Partito Democratico ed al suo interno con particolare accanimento la sua componente “torinese” (Fassino, Chiamparino ecc.), spalleggiati dal quotidiano di Carlo De Benedetti, continuarono ad alimentare l’entusiasmo per la Torino-Lione, diventandone dei fanatici sostenitori, in particolare per il ruolo che il traforo del Fréjus avrebbe avuto nel trasporto ferroviario delle merci.
Trasportare merci su ferrovia: qualche regola da mandare a mente
Proprio al trasporto delle merci su treno, al trasporto “intermodale” o “combinato”, mi dedicai negli anni successivi al 2001, come consulente dell’AD di Trenitalia, studiando – per conto del committente – i problemi della cosiddetta “Autostrada Viaggiante” sulla tratta Torino-Orbassano – Aiton, visitando i principali centri intermodali europei (Germania, Francia, Spagna, Svizzera, Olanda, Belgio), occupandomi di porti e di terminal portuali, prestai la mia assistenza tecnica per un breve periodo anche all’AD di Intercontainer e alla Cemat. Insomma, non mi considero un esperto, però un pochettino quel mercato lo conosco e mi sento di dire la mia. Orbene, all’interno del mondo FS in quel periodo, e questo vale anche per RFI, non ricordo particolari entusiasmi per la Torino-Lione, anzi, molte perplessità. Trenitalia stava facendo allora delle scelte strategiche importanti (e azzeccate, una volta tanto), acquistava i primi treni ad Alta Velocità, nel campo delle merci acquistava la società tedesca TX Logistik, che oggi in Germania è il secondo operatore merci ferroviario dopo DB Cargo. Se si guardano le statistiche di quel periodo, quando responsabile del settore merci era Giancarlo Laguzzi, oggi Presidente di Fercargo, si può constatare che Trenitalia era riuscita a realizzare una ripresa del traffico nazionale. A nessuno veniva in mente di dire che i problemi del traffico merci erano problemi d’infrastruttura. Erano – e lo sono ancora! – problemi dovuti al fatto che le imprese italiane hanno sempre preferito il trasporto su strada, perché più flessibile, perché più “permissivo”, perché più semplice da gestire soprattutto per imprese di medio-piccola dimensione, con volumi ridotti, che necessitano di un’intermediazione per accorparli, perché il trasporto su rotaia richiede un’organizzazione specifica ed un know how specifico (con il camion basta una telefonata), perché si paga vuoto per pieno, perché ci vogliono dei carri specializzati, perché ha delle regolamentazioni rigide e talvolta farraginose ecc. ecc.. Non è un caso che in Italia, a differenza della Germania o del Belgio, sono poche le aziende che acquistano direttamente dei treni merci ma sono i trasportatori, quelli con grandi flotte di camion, a mettere sul treno i semirimorchi. Oppure, nel settore marittimo, nel settore dei container, gli armatori, ma qui subentra un altro problema e cioè la posizione dominante di operatori in grado di dettare i prezzi all’operatore ferroviario. Nessuno di questi problemi è di carattere infrastrutturale, la favola che il trasporto merci in Italia soffre perché i terminal sono inadeguati e non si possono fare treni lunghi 750 metri, è buona appunto per gli incompetenti. E’ vero invece che ci sono troppi terminal intermodali e troppi Interporti, che non servono a niente. Il problema è come riempire un treno, lungo o corto che sia, come trovare il carico di ritorno, è un problema di domanda, è un problema di redditività del servizio. Per far partire e stabilizzare una relazione regolare, cioè un treno che va da A a B a scadenze fisse settimanali – questo e non altro significa oggi, 2018, fare traffico merci ferroviario – certe volte ci vogliono anche due anni. Questi sono i tempi di start up. Ne sappiamo qualcosa noi a Trieste, che siamo riusciti a fare l’unica storia di successo della portualità italiana proprio grazie alla ferrovia, malgrado un’infrastruttura ferroviaria portuale dove gli scambi si azionano ancora a mano. Le grandi infrastrutture di per sé non garantiscono minimamente il successo in termini di trasporto. Questo dipende da fattori che al 90% nulla hanno a che fare con l’infrastruttura. Dipende da condizioni specifiche di mercato e queste in Italia non sono cambiate in maniera sostanziale oggi rispetto a quindici anni fa, la sola cosa che è cambiata sta sul lato dell’offerta, ci sono più imprese ferroviarie di trazione, imprese private. Ma dal lato della domanda, anzi, siamo messi peggio con la concorrenza selvaggia che domina nel settore del trasporto su strada. Dipende anche dalla regolazione del mercato, ma qui l’Unione Europea ha combinato solo disastri, con una liberalizzazione scriteriata del trasporto su strada, codificata, per di più, in una normativa di surreale farraginosità (si pensi alle norme riguardanti i cosiddetti “distacchi degli autisti”) e di zero efficacia nel prevenire o regolare fenomeni di concorrenza sleale. Dobbiamo buttare miliardi nel costruire linee ferroviarie, nel bucare le montagne, mentre a tanti autisti – soprattutto stranieri – basta pagare il costo della benzina perché ti facciano una consegna a 300 chilometri di distanza?
Come ragiona un esperto di trasporto merci con la testa sul collo
Dura da cinquant’anni il grande “tormentone” delle politiche del trasporto merci: com’è possibile trasferire il traffico merci dalla strada alla ferrovia. In questi anni ho imparato che è possibile – se si tengono a mente certi parametri della specifica struttura di costo di questo mercato – portare sulla rotaia della roba, anche tanta. Quasi sempre con incentivi o sussidi. Ma ho imparato anche che la cosiddetta “inversione modale”, cioè la diminuzione proporzionale del trasporto su strada rispetto ad un aumento proporzionale di quello su ferro, resterà un’utopia a livello di sistema, potrà al massimo verificarsi su nicchie di mercato, in qualche situazione locale, ma non a livello di sistema. Inutile sperarci, noi dobbiamo invece cambiare il paradigma mentale e convincerci che l’unica strada per sopravvivere è quella di (tentare almeno) di diminuire l’intensità di trasporto del sistema di produzione e circolazione delle merci. Così come può esistere un sistema più o meno labour intensive così può esistere un sistema più o meno transport intensive. Lo slogan del “chilometro 0” almeno fa capire cosa s’intende per “diminuzione dell’intensità di trasporto”. Questo modo di pensare sembra che sia scomparso dall’orizzonte dei pianificatori, fa capolino in qualche impressa di logistica avanzata o in qualche impresa manifatturiera con un minimo di visione di lungo periodo. Ma il mercato sta andando drammaticamente nella direzione opposta con l’e-commerce o con certe piattaforme digitali. L’e-commerce sta mandando all’aria tutti gli sforzi in direzione della city logistics ed i tentativi di convincere il pubblico a usare mezzi di trasporto più sostenibili. L’altra cosa che ho imparato in questi anni è che non ha nessun senso costruire infrastrutture di eccellenza sulle grandi direttrici quando ai due capi del percorso, alla partenza e all’arrivo, ci sono delle forti strozzature. E’ il cosiddetto problema dell’”ultimo miglio”, che vale soprattutto per le merci. Certe Grandi Opere possono in questo senso creare più problemi di quanti si pensa possano risolvere. Per tornare al trasporto ferroviario delle merci, sono convinto che, per reggere, dovrà essere pesantemente sussidiato e la famosa “inversione modale” resterà un miraggio, usato solo per giustificare investimenti ferroviari faraonici. La Svizzera insegna. Ed è proprio qui che l’inutilità della Torino-Lione risulta più evidente e più sfacciata la malafede dei suoi sostenitori.
I francesi sono tutti a favore della Torino-Lione?
Un documento stilato da un gruppo di esperti di trasporto francesi e datato 6 giugno 2018 ricorda che le previsioni di traffico sia stradale che ferroviario al 2017 in assenza del tunnel di base del Fréjus sono state clamorosamente smentite. Si era previsto un traffico merci su rotaia di 16,2 milioni di tonnellate, quello effettivo è stato di 3,5 milioni, erano stati previsti 75 treni merci al giorno quelli effettivi sono stati 20. Ma non meno sballate furono le previsioni del traffico stradale. Era stato previsto per il 2015 sulle due autostrade, della Maurienne e del Monte Bianco, un traffico di 2 milioni di camion, quello effettivo è stato di 1,3 milioni. Ho incrociato alcuni degli estensori di questo documento, di cui il nostro Ministero è al corrente – dunque il sottosegretario Rixi non può far finta d’ignorarlo – nella mia attività ultradecennale di membro italiano di un gruppo di ricerca, tuttora attivo, con sede a Parigi, finanziato dal Ministero dei trasporti francese ed ho potuto constatare di persona lo scarso entusiasmo per quest’opera da parte di colleghi d’oltralpe, la cui expertise viene riconosciuta di continuo a livello internazionale. Quando la Corte dei Conti francese espresse dei forti dubbi sulle ricadute economiche della Torino-Lione, mi recai a Parigi assieme al segretario generale del CNEL ed abbiamo avuto degli incontri molto interessanti al Senato francese, constatando una volta di più i molti punti interrogativi che il progetto sollevava. Rimango perciò piuttosto incredulo quando leggo su “Repubblica” che la Francia vuol fare a tutti i costi la Torino-Lione, posso pensare che Macron, tra le tante sciocchezze che sta accumulando il suo governo, ne voglia aggiungere anche questa ma se lo dovesse fare non è certo per risolvere problemi di trasporto e in particolare di trasporto merci ma semmai per questioni di diplomazia europea, convinto forse di consolidare l’Unione mentre di fatto non farebbe che screditarla ulteriormente. Ma ammettiamo per un momento che l’opera si faccia, con un salasso per il contribuente italiano. Dovremo anche mettere dei soldi su ogni treno merci, dovremo sussidiarlo, se non altro per controbilanciare tutti i soldi che la Svizzera elargisce a chi attraversa il suo territorio su ferrovia invece che su camion. Sono sussidi che possono coprire anche un terzo del costo del treno in un mercato dove 10 centesimi di euro possono fare la differenza e che sono tali da indurre qualcuno a scegliere il percorso svizzero anche per andare verso certe destinazioni francesi. E’ ben vero che il contribuente svizzero, visti i risultati, non sarà disposto a continuare a sussidiare in tal modo la ferrovia ma a quel punto reggerà ancora il mercato? Pertanto è bene che si sappia: la migliore delle infrastrutture, la più avanzata delle tecnologie di controllo della circolazione, l’abbondanza delle tracce, non sono di per sé garanzia assoluta che l’opera abbia efficacia sul piano della ripartizione modale. Ancora una volta: sono soldi che rischiano di essere buttati via inutilmente da un paese dove mancano risorse per la scuola, gli asili nido, gli ospedali, la conservazione del patrimonio artistico, la ricerca scientifica, la manutenzione delle strade e dei parchi, il trasporto pubblico locale ecc. ecc..
Aperitivo a Milano, cena a Venezia
Una Grande Opera ha senso dunque solo se “cambia la vita”, cioè se modifica in maniera sostanziale certe relazioni di spostamento. L’Alta Velocità sulle tratte Milano-Napoli e Torino-Milano questo effetto lo ha avuto e lo sta dimostrando. Ma l’Alta Velocità Milano-Venezia che senso ha? Intendo una nuova linea ad alta velocità parallela a quella esistente, non intendo un adeguamento dell’attuale. Da Milano a Venezia in un’ora può “cambiate la vita” per qualche spedizione turistica, per far vedere la Madonnina a un po’ di crocieristi prima d’imbarcarli, certo si può fare, a condizione di attraversare il Veneto senza fermate, saltando Brescia, Verona, Vicenza e Padova. Un bel vantaggio. Eppure tutta la classe politica e imprenditoriale veneta, e in parte sindacale, si agita per avere l’AV in quanto tale, con linee nuove o vecchie non importa, dimostrando quanto provinciale sia la mentalità di questa classe dirigente di piccoli parvenus, che certe volte pretendono di avere un aeroporto dietro casa perché pensano in tal modo di esser dentro la globalizzazione. Una classe dirigente, una borghesia, ben rappresentata nei drammi di Veneto Banca o della Banca Popolare di Vicenza. Un carrettiere del primo Novecento aveva un’idea delle infrastrutture di trasporto più avanzata della loro.
Con il Terzo Valico conquisto l’Europa
Perciò rimango veramente di sasso quando leggo prese di posizione d’imprenditori eccellenti, leader nel loro mercato, che danno per scontata la necessità di costruire certe grandi infrastrutture. E’ il caso del Terzo Valico di Genova. Indubbiamente il problema è diverso dalla Torino-Lione, l’opera viene giustificata come infrastruttura necessaria all’economia portuale, indispensabile per collegarsi ai nuovi tunnel del Gottardo e permettere agli operatori genovesi di allargare il loro mercato oltre la barriera alpina. Sulla carta può essere credibile ma ancora una volta non si può astrarre completamente da una storia e da una sequela di comportamenti di una classe imprenditoriale e di una classe politico-amministrativa che almeno dalla fine degli anni 70, dalla comparsa del container, non hanno fatto nulla per assicurare un’alternativa seria al trasporto merci su strada e si trovano oggi in una situazione – gli ultimi scioperi lo hanno dimostrato – completamente alla mercé dei camionisti, che possono, se decidono, con un fischio, paralizzare il porto (senza per questo, colmo dei colmi, trarre da questa posizione di forza condizioni di vantaggio economico, cioè tariffe e condizioni di lavoro migliori). Una tipica situazione opposta al win win, dove invece di guadagnarci ci perdono tutti, terminalisti, compagnie marittime, autotrasportatori, normali cittadini, residenti. Genova è passata dal fordismo al postfordismo, dall’industria pesante alla deindustrializzazione, è entrata nell’èra digitale, ha conosciuto il gigantismo navale ma nulla è cambiato. Il modello che si è voluto costruire per il porto è quello di un sistema di servizi che, per riluttanza a investire, in particolare in risorse umane e tecnologie, ha scelto la comoda strada di limitare il proprio raggio d’azione al mercato del Nord Italia. Le infrastrutture non c’entrano niente. Mentre dagli anni 80 in poi dietro ai porti di Amburgo e di Rotterdam fioriva un tessuto fittissimo di imprese di logistica, capaci di creare valore aggiunto, a Genova si continuava a perseguire il modello dell’intermediazione priva di asset, sfruttando la rendita di posizione che ogni porto offre oggettivamente per puntare su un modello imprenditoriale, su un modello di business, che richiede il minimo sforzo, il minimo investimento. Poi ci si lamenta di avere imprese eufemisticamente classificate come “sottocapitalizzate”. E mi volete far credere che con il Terzo Valico o con la nuova diga cambierà qualcosa? Che di colpo nasceranno imprese di logistica in grado di servire i mercati del centro Europa? Accadrà probabilmente l’inverso e cioè che i porti nordeuropei e la rete di servizi che li supporta, in grado oggi di estendere il loro raggio d’azione fino a Novara, si spingeranno fino a Busalla, a Sampierdarena con il Terzo Valico. Non dimentichiamo che ci sono importanti opere di adeguamento dell’infrastruttura ferroviaria da parte di RFI, la stazione di Campasso e altre, ma nemmeno quelle riescono a tenere il passo di un’evoluzione dei traffici marittimi che è travolgente e si somma con altri fenomeni che producono congestione sulle strade e sulle autostrade, come l’e-commerce. Queste opere non riescono – e non ci riuscirà il Terzo Valico, secondo me – a modificare un modello di sviluppo, un modello di business, perseguito con ostinazione per decenni. E’ mancata per tempo una visione di sistema, qualcosa per cui l’interesse privato deve trovare una sua collocazione dentro un interesse collettivo. Si sono sprecate occasioni irripetibili e si mortificano in ultima analisi i non pochi esempi di eccellenza a livello mondiale che Genova ha saputo creare e continua a creare. Per nascondere questa storia d’imprenditoria dalle corte vedute si è inventata la favola che i porti del Nord “rubano” traffico a Genova, la leggenda dei due milioni di TEU che Genova potrebbe “riprendersi” con il Terzo Valico. Un’idiozia irredentista che dimentica tra l’altro come una quantità di merce destinata all’Italia che passa per i porti del Nord è merce che noi importiamo dall’Irlanda, dalla Gran Bretagna, dalla Norvegia, dalla Svezia, dalla Finlandia, la quale segue la via più rapida e conveniente, quella di venir portata su un porto del continente – Rostock, Zeebrugge, Anversa – e lì trasbordata su treno; raggiunge l’Italia in 36 ore, anche meno. Cosa si dovrebbe fare, secondo certi politici e opinionisti genovesi, imbarcarla a Liverpool, a Goeteborg, e metterci una settimana/dieci giorni per sbarcarla a Genova? La vicenda della Carige mi sembra proprio lo specchio di una classe dirigente e imprenditoriale, mi piacerebbe sapere chi sono quelli che hanno avuto i crediti e non li hanno restituiti. Questa purtroppo è la “vera” Italia, quella che nasconde le sue magagne e le sue scelte miopi con il lenzuolo (o con il sudario) delle Grandi Opere.
Peggio di tutti il sindacato
Ma se certe prese di posizione mi lasciano di sasso, trovo semplicemente sconcertante, se non indecente, l’entusiasmo che le Grandi Opere suscitano in certi dirigenti sindacali. Un entusiasmo fideistico, privo di qualunque senso critico, come se il radioso futuro promessoci dalla Torino-Lione o dall’AV veneta potesse farci dimenticare la terribile situazione di vastissimi strati del mondo del lavoro, il cui futuro è segnato, tracciato, da un presente che parla per sé. E’ stagione questa in cui ritorna il tema del caporalato, ne ha parlato di recente in TV anche un ministro in carica, ma si continua a trattare questo problema come un fenomeno collaterale in un’economia sostanzialmente ”regolare”. Tutti sappiamo che cosa succede nella raccolta della frutta e della verdura, non solo nel Sud. Le inchieste del quotidiano cattolico “L’avvenire” ci hanno fatto intravvedere solo degli spiragli di una situazione che si allarga a macchia d’olio. Lavoratori extracomunitari e italiani pagati 3 o 5 euro all’ora, alloggiati in condizioni primitive, ricattati, che ormai stanno fissando i nuovi standard del costo del lavoro in agricoltura. Mi chiedo: com’è possibile tornare indietro? E’ appurato che i controlli e le sanzioni non servono a niente, quindi è ovvio che il fenomeno è destinato a dilatarsi ed a diventare “la nuova normalità”. Ciò significa, se vogliamo parlare al futuro, che mettiamo in conto che l’agricoltura italiana è destinata a reggersi su forme di schiavismo “strutturale”. Ma l’agricoltura non è l’unico settore dove questo accade, in misura ridotta lo incontriamo anche in settori dove l’Italia pretende di essere leader mondiale, come la cantieristica. Il sindacato ha fatto molte denunce. A che sono servite? A mettere in pace qualche coscienza. Se poi dalle situazioni estreme passiamo a quelle che sono invece le situazioni maggioritarie, per esempio il primo impiego dei giovani oppure, all’estremo opposto, le opportunità che il mercato italiano offre ad alte professionalità e competenze, credo si possa concludere che a) questo, della qualità del lavoro, è il più grave, il più drammatico dei problemi del Paese, b) che le infrastrutture non c’entrano nulla. I giovani fisici, biologi, ingegneri, medici, ricercatori d’alto livello che fuggono dal Paese lo fanno perché mancano le infrastrutture? E realizzando le cosiddette “Grandi Opere” pensiamo di farli tornare indietro, pensiamo di eliminare il caporalato dalla raccolta dei pomodori? Con quale faccia un sindacalista può sostenere che le “Grandi Opere” possono contribuire a risolvere il problema occupazionale, sapendo oltretutto che questo problema oggi è di tipo qualitativo non quantitativo? Il sistema dei grandi appalti pubblici si è rivelato invece un sistema fallimentare, avrebbe potuto almeno creare il terreno adatto alla costituzione e alla crescita di grandi imprese di costruzioni, invece ne abbiamo viste fallire una dietro l’altra, sia dell’universo confindustriale che di quello cooperativo. Viviamo nella knowledge economy, viviamo nell’epoca della digitalizzazione, ma al posto della materia grigia abbiamo messo il cemento.
Grandi progetti: dove tutto è ammesso, anche l’idiozia
Può succedere allora che un organismo di ricerca privato che ha come missione “di rendere accessibile e fruibile, ad una platea sempre più vasta, il patrimonio di conoscenza e di esperienza accumulato in trent’anni” abbia la buona idea di presentare davanti a un folto pubblico di amministratori, operatori e cittadini, in quel di Palermo, uno studio nel quale propone la costruzione di un terminal portuale di transhipment dalla capacità di 16 milioni di TEU, in grado di creare migliaia di posti di lavoro nel contesto di un progetto più ampio di risistemazione del fronte mare che dovrebbe produrre occupazione per circa mezzo milione di persone. Per chi ha un minimo di conoscenza di economia portuale è come se un primario d’ospedale si presentasse ad un congresso dicendo che il cancro al seno si può curare con successo con la tachipirina. Il traffico totale dei porti italiani governati da un’Authority (sono circa una ventina) da più di dieci anni non supera i 10 milioni di TEU. Si tratterebbe oltretutto, nell’idea dei proponenti, di un porto di transhipment, cioè di una tipologia che non produce occupazione né ricadute sul territorio in quanto la merce non esce dalla cinta portuale, viene sbarcata da una nave, messa a piazzale e reimbarcata su un’altra nave. Operazioni che vengono fatte a Gioia Tauro, a poca distanza, ma con sempre maggiori difficoltà perché le compagnie marittime oggi o fanno dei servizi diretti, senza transhipment, o fanno trasbordo in porti come Port Said, il Pireo, Malta, Tanger Med per ragioni che qui è troppo lungo spiegare ma che si presume siano note a chi pretende di avere una certa expertise in materia.
Confesso però che non ero presente a questo evento memorabile, l’ho letto sui giornali e quindi mi rimane il dubbio trattarsi di una fake news. Strano che non ci sia stata nessuna smentita, però. Pare inoltre che sia il Presidente del porto di Palermo sia il sottosegretario Rixi abbiano espresso in quella sede la loro “perplessità”. Ma se fosse vero, mi sembra indicativo di un clima, di una cultura, di un costume presenti nel Paese e cioè che di “Grandi Opere” se ne possono immaginare e proporre con fantasia da Giulio Verne, sapendo che una parte del pubblico ci crederà e sarà disposta ad applaudire la spesa. Per la “rinascita” del Mezzogiorno o per rompere l’ “isolamento” dei piemontesi.
Sergio Bologna (L’autore è Presidente dell’Agenzia Imprenditoriale Operatori Marittimi (A.I.O.M.) di Trieste)
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