Guida al pensiero vigoroso e creativo di Romano Alquati
Una recensione di Diego Giachetti a “Un cane in chiesa” a cura di Francesca Ioannilli e Francesco Bedani
Nel libro di Gigi Roggero, L’operaismo politico italiano (DeriveApprodi 2019), Guido Borio sostiene che nella storia dell’operaismo emergono tre figure emblematiche: Mario Tronti, Toni Negri e Romano Alquati. Mentre i primi due sono nomi «noti» e ricorrenti, Romano Alquati è poco valorizzato in Italia e quasi sconosciuto all’estero. Nell’operaismo, Alquati si colloca come «un cane in chiesa», scrive Borio, non solo nell’università ma ovunque si è trovato, anche tra molti compagni, è sempre stato uno che dava fastidio e per questo il suo pensiero è stato quasi sempre ignorato, ma dare fastidio è forse la più significativa qualità di una soggettività rivoluzionaria.
Tutto rivolto a Romano Alquati (1935-2010) è invece il testo curato da Francesco Bedani e Francesca Ioannilli, Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati (DeriveApprodi, 2020), che prelude alla pubblicazione dei suoi inediti da parte della suddetta casa editrice. Il libro raccoglie, oltre alle due dei curatori, le relazioni svolte presso il corso di formazione politica tenutosi a Bologna nell’autunno 2019 da Federico Chicchi, Maurizio Pentenero, Salvatore Cominu, Anna Curcio, Guido Borio, Raffaele Sciortino, che introducono il lettore all’articolato e complesso pensiero di Alquati.
A dieci anni dalla sua scomparsa, si legge nell’introduzione, Alquati è un giacimento d’oro ancora in larga parte inesplorato e inutilizzato, un pensatore che non pensa per compiacere ma per sovvertire, che vive nella costante tensione dell’anticipazione. Passato alla storia per i suoi trascorsi nei Quaderni Rossi e Classe Operaia, quasi del tutto sconosciuta è la sua produzione degli anni Ottanta, Novanta e dei primi anni del 2000, un periodo importante e fecondo della sua elaborazione. In decenni di trionfo del pensiero debole, il suo è forte, costruito, coeso, strutturato, espresso con uno stile che lo differenzia da Tronti e Panzieri, per certi versi vicino a Negri anche se critico verso il suo pensiero. È un marxista certo, ma tratta con spavalderia i concetti marxiani, non cerca in essi rassicuranti postulati, se mai il suo pensiero si segnala per l’inquietudine, l’agitazione dovuta al bisogno di conoscere. Guido Borio così descrive la metodologia pedagogico-politica proposta da Alquati: non lasciava tempo al compiacimento, non si accontentava del già noto; quando «ti sembrava di aver afferrato il suo discorso e provavi a ripeterlo, immediatamente lui evidenziava i punti critici e lo problematizzava, costringendoti a fare un nuovo salto in avanti» (p. 111).
Il modellone
Alquati è un pensatore sistemico? Sì e no. Sì, perché, come le varie relazioni indicano, egli costruisce categorie sistemiche intrecciate tra loro. No, perché le categorie non costituiscono postulati validi per sempre, sono strumenti che nascono dal rapporto di conoscenza con la realtà per diventare variabili da pensare, verificare e ripensare, senza diventare feticci. Di certo il suo è un pensare da sociologo e i riferimenti ai temi sollevati dai «classici» della sociologia sono molteplici a cominciare dal modellone, una proposta di interpretazione del capitalismo contemporaneo, del suo farsi sistema. Non si tratta di un modello funzional-strutturalista costruito al di sopra della società, è la realtà capitalistica che si fa sistema. Divisa e gerarchizzata per livelli di realtà, interconnessi fra loro e «percorribili» secondo il principio dell’astrazione determinata, unico metodo valido per sfuggire al rischio di rinchiudersi all’interno di un pensiero generale e astratto, incapace di scendere al livello di osservazione del fenomeno storico-sociale. Il paradigma del modellone consente di muoversi con agilità e consapevolezza fra diversi gradi di astrazione e la realtà empirica, costruisce una tipologia di ricercatore «immaginativo e sistematico», per dirla col sociologo Charles Wright Mills, che sicuramente Alquati conosceva.
Per il sociologo Robert K. Merton i sistemi sociali sono strutturalmente ambivalenti, attraversati da tensioni imputabili alle incompatibilità che esistono tra alcuni dei suoi elementi costitutivi, causa inevitabile di comportamenti antisociali dovuti all’accesso differenziato ai mezzi per perseguire gli obiettivi valorizzati socialmente e culturalmente. Le grandi risorse della società industriale sono state curvate nel corso del tempo per fini capitalistici, ma contengono dimensioni generiche che non nascono col capitalismo. Tecnica, razionalizzazione dell’uso delle risorse e del lavoro, sono caratteristiche riscontrabili in diverse formazioni economiche-sociali. Quindi il sistema industriale potrebbe «ricollegarsi anche a fini diversi», sostiene Alquanti, perché ambivalente, piegabile in una direzione diversa se matureranno le condizioni soggettive e intenzionali dell’iperproletariato, trasformando la possibilità in realtà.
Società iperindustriale
A partire dagli anni Ottanta l’insieme dei cambiamenti in atto non definivano per Alquati una società postindustriale anzi, indicavano uno straripamento del modo produttivo e organizzativo dell’industria-fabbrica nella società che inglobava attività riproduttive e altre fino allora trattate come improduttive. Quindi altro che fine del lavoro, dello sfruttamento, del proletariato anzi, se mai si è in presenza di una iperproletarizzazione composta da una moltitudine di lavoratori nel sociale, nei servizi, il cui lavoro è stato frazionato e scorporato in forme servili di super-sfruttamento e di concorrenza selvaggia tra loro. Da qui il suo farsi iperindustriale e il conseguente rifiuto della categoria di post, anche rispetto al fordismo, che lui ridefiniva come iperfordismo per sottolineare non la cesura bensì la radicalizzazione di quella specifica modalità di organizzazione del lavoro e dei lavoratori all’intera società, dai servizi alla burocrazia amministrativa e politica.
Col termine industria infatti non intende solo la fabbrica, luogo dove avviene la produzione di merce-valore, ma il modo di organizzare tutti gli ambiti della società, la progressiva sottomissione alla razionalità capitalistica di numerosi ambiti della sfera riproduttiva e politica, già denunciata da Max Weber. In questa accezione l’industria non ha il suo luogo emblematico nella fabbrica; la fabbrica contiene l’industria come sua modalità specifica, ma non necessariamente la presuppone, laddove l’industria può essere potenzialmente usata anche per fini differenti da quelli fatti propri dal capitalismo.
Nell’analizzare questo tipo di società Alquati riprende, in una certa misura, categorie tipiche della sociologia: la produzione (la fabbrica), la riproduzione e il consumo (la società) e la politica (lo Stato). Il suo modellone di sistema sociale è costituito da quattro ambiti intrecciati fra loro: la produzione di beni o servizi venduti sul mercato; il consumo distruttivo, il consumo riproduttivo, cioè consumo e riproduzione; la sfera della politica, che include l’amministrazione pubblica. Questi ambiti tendono a divenire «fabbriche», luoghi che producono valore e capitale. Sono produttivi, di beni intermedi, merci speciali che incrementano altre merci.
Importante è la riproduzione della capacità umana intesa non solo come ripristino delle abilità psico-fisiche, che continua a svolgersi in parte importante nella sfera domestica, ma anche nel sistema educativo e della formazione, della salute, dei servizi materiali e intangibili per la vita quotidiana. Anche il comunicare e certi aspetti del consumo, contengono una componente riproduttiva. Sono settori dove lavora un iperproletariato composto soprattutto da donne che porta Alquati a ipotizzare una crisi del patriarcato e a prefigurare l’orizzonte di un matriarcato capitalista, secondo quanto scrive nella sua relazione Anna Curcio.
Rispetto al recente passato si tratta di una riformulazione complessiva del sistema che crea nuove contraddizioni, nuove faglie, nuove soggettività nella composizione di classe, perché il capitale mette al lavoro aree sociali non immediatamente riconducibili alla fabbrica e ridefinisce ambiti e ruoli sociali intersecati tra loro: il produttore, il consumatore (distruttivo e riproduttivo) e il cittadino. L’azione sociale ha tre modalità differenti: l’attore sociale, interprete asservito di ruoli e norme poste dal sistema e ad esso funzionali; la persona che esprime potenzialità e fini non tutti riconducibili alle norme e ai ruoli previsti dalla razionalità sistemica; il soggetto, portatore in potenza di finalità autonome e antagoniste.
Alla ricerca della soggettività perduta
Tema centrale è quello della soggettività che si manifesta in varie forme: c’è la soggettività della classe capitalistica, egemone, manifesta in atto, e quella degli strati subalterni che esiste in potenza ma incontra difficoltà a esprimersi in controsoggettività organizzata al sistema e si pone in maniera diversa rispetto al passato, quando si ragionava su una classe data, un soggetto fondato da politicizzare passando dall’in sé al per sé. Invece già nei trenta gloriosi del neocapitalismo e poi, dopo le sconfitte degli anni Settanta, il soggetto si smarrisce, non è più un dato evidente: di qui la necessità di focalizzare l’attenzione al processo del costituirsi del soggetto, della soggettivazione.
Va detto che per Alquati soggettività non è un sinonimo di soggetto, innanzi tutto perché riferita non tanto ai singoli individui, ma a collettività, gruppi, classi sociali e si definisce in percorsi e rapporti di trasformazione in cui si rispecchiano elementi esperienziali volti a realizzare una reazione-contrapposizione alla realtà. Quando siffatto processo sfocia nella negazione, nel rifiuto di adempiere a ruoli stabiliti, assume la forma di conflitto antagonistico, allora diventa controsoggettività in atto che ridefinisce una nuova composizione di classe e riformula lo strumento della conricerca perché, non essendo più data per certa l’autonomia di classe, occorre riconsiderare la vecchia questione dell’organizzazione politica.
Conricercare tra le potenzialità dei residui
Per quanto potente sia il sistema sociale esso non è in grado di sottomettere totalmente l’uomo alla soggettività del capitale. Esso è capace di sottomettere a ruoli e norme l’attore sociale, ma non la persona e tantomeno il soggetto, sottoposto a forme mutevoli di sfruttamento. La soggettività umana, spiega, contiene un fondo di irriducibilità dato dalle risorse timico cognitive del lavoro contemporaneo e del lavoro riproduttivo in particolare (affetti, linguaggio, sapere/conoscenze), che sono esclusive dell’agente umano e lasciano un residuo irrisolto come possibilità tendenziale di fuoriuscita dallo sfruttamento del lavoro. Il termine residuo irrisolto è di evidente derivazione sociologica e Alquati lo utilizza nella forma che gli è necessaria. Si deve a Vilfredo Pareto la prima riflessione sistematica sui residui definiti come istinto delle combinazioni e persistenza degli aggregati. Per istinto delle combinazioni s’intende la caratteristica tipica dell’uomo di creare connessioni e nessi tra elementi, attiene al potere creativo proprio dell’agire umano. Per persistenza degli aggregati s’intende la tendenza a mantenere intatte e a conservare le relazioni create. Pareto utilizza la categoria di residui per segnalare l’incompletezza dell’analisi della condotta umana fondata sulla razionalità strumentale che non considera il problema degli effetti indiretti delle scelte, quelli non desiderati, imprevedibili, imprevisti. Non a caso, in un passo citato da Guido Borio, Alquati scrive: «La realtà cambia… ma ci sono degli effetti perversi, gli imprevisti, ecc. per cui raramente l’esito è quello che all’inizio si voleva» (p. 115). Alquati si riferiva in particolare al sociologo Robert K. Merton, da cui riprendeva il concetto di conseguenze inattese: nel rapporto fra obiettivi e risultati, tipici dell’agire sociale, i partecipanti producono condizioni nuove, non tutte previste nei loro intenti.
La questione del «residuo irrisolto» è ricorrente nei suoi testi, indica ciò che sopravvive e non è integrabile nel sistema, le differenze inassorbibili derivate da un passato di sconfitte o di conquiste, residui quindi di precedenti percorsi di emancipazione, senso di rivalsa e frustrazione per fini mai raggiunti, persistere di un radicamento o combinarsi imprevisto di fattori particolari. È in quegli interstizi che occorre ricercare la soggettività e la conricerca è d’aiuto. A essa è affidato il compito di conoscere la realtà e, simultaneamente, attivare una pratica per la sua trasformazione. È un procedimento che vuole superare la dicotomia ricercatore-oggetto, osservatore-osservato per mettere in azione un processo di costruzione di conoscenza comune e reciproca trasformazione dei soggetti coinvolti, senza più bisogno dello strumento politico esterno, il partito. È un modo di organizzarsi che nasce dal superamento della dicotomia tra produzione di sapere e produzione di organizzazione. Non è una conoscenza delle lotte, ma è dentro le lotte, prende spunto dalla metodologia di ricerca sociologica per andare oltre.
La conricerca è lo strumento nuovo e necessario del militante politico contemporaneo, per Alquati chi non fa conricerca non è un militante, nel senso che non pratica forme di contro-organizzazione tra soggetti in lotta il cui fine è la ricomposizione politica di un corpo sociale, potenzialmente antagonista, ma inceppato nel passaggio dalla potenza all’atto. Ci tiene a sottolineare di essere non tanto un sociologo professionale, quanto un militante politico a tempo pieno, per cui ciò che scrive è in funzione di un contesto storico e sociale e ha come scopo l’individuazione delle scappatoie per fuoriuscire dal sistema capitalistico. Militanza quindi intesa come radicamento, come internità, come conricerca che genera una prassi capace di leggere, proporre e attivare comportamenti, conflittualità, processi di ricomposizione dei soggetti.
Da Commonware
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