Il cammino stretto per strappare una vita diversa
di Luca Perrone da Commonware
Sono passati dieci anni dalla morte di Romano Alquati e la casa editrice DeriveApprodi pubblica nella collana Input il libro Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, che sistematizza, attraverso nove contributi a cura di Francesco Bedani e Francesca Ioannilli, il corso di formazione politica svolto alla Mediateca Gateway di Bologna nell’autunno dell’anno scorso. Questo in attesa che la stessa casa editrice inizi a pubblicare i testi inediti di Alquati, mettendoli finalmente a disposizione di un più vasto pubblico militante.
Un cane in chiesa, metafora che efficacemente definisce la condizione di Alquati rispetto al mondo dell’accademia e non solo, segnala l’importante lavorio sotterraneo che negli ultimi anni cerca di preservare, sviluppare e far conoscere le categorie interpretative elaborate dal sociologo cremonese, ma torinese di adozione, utilizzando la forma seminariale oltre che a Bologna, anche a Torino. Non si tratta solo di salvare la memoria del ruolo di Alquati nella storia dell’operaismo italiano, della sua originalità di pensiero, di quel suo «stile molto diverso dagli altri operaisti» che lo ha caratterizzato. Per questo è sufficiente dare un’occhiata anche solo superficiale ai primi capitoli de L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo di Steve Wright e al volume di Gigi Roggero L’operaismo politico italiano. Genealogia, storia, metodo: si ha così la certezza di quanto l’operaismo italiano debba ad Alquati. Oppure basta raccogliere i ricordi degli altri principali esponenti operaisti: Mario Tronti racconta che «Romano Alquati era il disordine intellettuale che si fa genio. Vedeva meno quello che c’era. E più quello che stava per esserci. Ci raccontava che quando, ormai in età matura, ebbe la possibilità di comprarsi degli occhiali da vista, solo allora si accorse per la prima volta che i prati erano verdi. Inventava e così indovinava. Era, diceva di essere, sempre un passo più avanti. Ma i comportamenti di lotta delle giovani leve operaie entrate in Fiat, ce li fece conoscere lui»[1]; e Toni Negri gli fa eco ricordando che «Alquati è, fra gli uomini raccolti da Panzieri intorno ai Quaderni Rossi che stanno per uscire, la figura più interessante: è l’inventore della “conricerca”, di quell’analisi sociologica condotta con gli operai al fine di organizzare le lotte, conoscere meglio il ciclo produttivo e permettere un’organizzazione vincente in fabbrica e nella società»[2].
È un fatto però che le riflessioni di Romano Alquati abbiano avuto una ricezione piuttosto limitata, e non solo nel mondo accademico. Dopo Sulla Fiat e altri scritti, pubblicato da Feltrinelli nel 1975 e il numero 154 della rivista aut aut nel 1976, fascicolo speciale su L’Università e la formazione, gli scritti di Alquati hanno avuto una eco piuttosto ristretta, quasi al limite del cenacolo. Certo, nel 1997 è ancora uscito il suo Lavoro e attività. Per una analisi della schiavitù neomoderna, edito da Manifestolibri, ma gran parte della sua produzione più tarda è sostanzialmente sconosciuta, confinata nell’editoria universitaria o in quella militante minore.
Il suo straordinario lavoro teorico resta così un «giacimento in gran parte inesplorato». Questo libro ha il merito di dare per scontato l’Alquati della conricerca e della invenzione della categoria di composizione tecnica e politica di classe, i suoi due lasciti più importanti alla teoria, e alla pratica politica rivoluzionaria e al marxismo eterodosso italiano, per gettarsi a capofitto in testi più recenti e sconosciuti, sostanzialmente gli scritti che dagli anni Ottanta arrivano fino ai primi anni del Duemila e che sono in parte inediti, in parte semplicemente irrintracciabili. Quello che Raffaele Sciortino definisce «il secondo Alquati», o ancora meglio «l’esperimento Alquati», che più di altri e prima di altri prende atto della radicale discontinuità segnata dalla fine dell’operaio massa, e che pone il problema del salto teorico necessario per comprendere cosa sta avvenendo «nel passaggio a una piena sussunzione reale, non solo del lavoro, ma della vita sotto il capitale, ovviamente in senso tendenziale».
Ma per affrontare questi testi, la difficoltà è dichiarata: confrontarsi con la scrittura di Alquati è un’impresa non sempre facile. Chi ha avuto il piacere di conoscere Alquati, sa che narratore straordinario sia stato, quale potenza discorsiva, quale acutezza nell’osservazione e nell’analisi avesse, quale enorme capacità di arricchire il suo racconto intrecciandolo con mille divagazioni, senza perdere il filo del suo dialogo, spesso arricchito di disegni e schemi. Ma sa anche quanto invece il suo scrivere risulti ostico e faticoso, arricchito di prefissi che non aiutano sempre la scorrevolezza della lettura, («quella forma espositiva che poneva problemi anche a chi lo frequentava», quell’incastrarsi in «complicazioni difficili da seguire») che amplifica la complessità della sua analisi che strutturalmente, volutamente, procedeva per spirali ascendenti e discendenti, che attraversavano i livelli di realtà di quel suo «modellone», la sua interpretazione del capitalismo contemporaneo di cui nel libro a lungo si parla. «Non gli importava un fico secco di “scrivere per tutti”, aveva sviluppato un linguaggio tutto suo, uno stile di scrittura inimitabile, chi era in grado di seguirlo bene, chi lo trovava astruso, peggio per lui», ha scritto Sergio Bologna. Ma al contempo è la scrittura di un pensatore «che non rassicura mai», come giustamente sottolinea Francesco Bedani nel suo saggio su Lavoro e attività, che «mette una grande inquietudine, agitazione, a volte disorienta. Ed è proprio questo il suo grande merito: pensare per pensare oltre, ipotizzare per mettere a verifica sul campo, in un continuo movimento circolare o meglio a spirale», i cui testi si possono leggere «decine di volte e trovare altrettante sfumature diverse… a ipotesi di ricerca nuove e su cui ragionare».
La ripresa degli studi su Marx rende oggi possibile rileggere gli scritti di Alquati senza più la sensazione di affrontare scritti di un’altra epoca. Perché in questo libro si ribadisce una cosa ovvia, ma fondamentale, cioè che Alquati è stato «un grande studioso di Marx», che ha mostrato una grande capacità di trattare con «una certa “spavalderia” i concetti marxiani», nell’ambito di una riflessione critica del marxismo. Questo a partire dall’utilizzo dei concetti di Lavoro e attività, titolo del saggio di Francesco Bedani che analizza il testo pubblicato da Manifestolibri nel 1997, collocati nella prospettiva di smontare la concezione lavorista anche di stampo marxista, affinando una critica radicale del lavoro, inteso come agire speciale, storico e specifico.
I saggi che si susseguono nel libro, ci permettono di avvicinarci al cuore della riflessione matura di Alquati, semplificandone la forma e rendendola così fruibile anche a chi non è iniziato al suo linguaggio, con il fine dichiarato di verificare l’importanza delle sue ipotesi di lavoro e di ricavarne strumenti e chiavi di lettura utili per interpretare e trasformare il presente.
Alquati, ci viene ricordato, scrive macchine teoriche (le «macchinette») per i militanti rivoluzionari. Questo è il suo pubblico: chi agisce all’interno dell’orizzonte del superamento del sistema capitalistico. Guido Borio dedica un intervento al tema Soggettività e militanza nella riflessione di Alquati. Sullo sfondo, naturalmente, si profila l’altro grande cremonese, il Danilo Montaldi di Militanti politici di base. Alquati è stato lui stesso, fino alla fine, un militante politico. Borio ci conduce all’interno di quello «stile della militanza» tratteggiato da Alquati, percorso arricchito chiaramente dai mille dialoghi intessuti direttamente con lui, in cui il militante è quella figura particolare in grado di muoversi su più piani, «salendo, scendendo e risalendo tra i differenti livelli di realtà», armato della sua «macchina» più forte, la conricerca. Una militanza intesa come alterità, come progettualità per perseguire rotture rivoluzionarie, per saper individuare e prefigurare una fuoriuscita dal capitalismo che deve essere sempre pensata come possibile. Perché lo stesso «modellone» di Alquati, non semplice descrizione di un sistema, è imperniato su categorie che permettono di pensare questa fuoriuscita: l’antagonismo tra le due macro-parti, capitalistica e proletaria, informa il sistema, ne determina un elemento di ambivalenza (termine chiave nel suo pensiero), che vive nell’incarnazione e nella soggettivazione (o contro-soggettivazione) di quella contraddizione fondamentale. Alquati analizza la complessità del sistema capitalistico nella sua fase iperindustriale, diviso e gerarchizzato per livelli di realtà stratificati, al cui livello apicale troviamo la dimensione del dominio e discendendo quella della valorizzazione e dell’accumulazione fino alla trama delle attività utili e differenti.
Entrare nel «modellone» (grazie in particolare ai contributi di Maurizio Pentenero e di Salvatore Cominu) significa entrare davvero in una macchina complessa e difficile, dinamica e processuale, uno strumento utile per comprendere la complessità del sistema in cui viviamo immersi. Salendo e scendendo vorticosamente di livello, possiamo cogliere gli elementi di stabilità e di continuità del sistema, nei livelli alti, dove l’asimmetria specifica su cui si basa il capitalismo resta intatta, e il suo inesausto innovarsi e modificarsi delle forme di estrazione del valore e dello sfruttamento ai livelli più bassi, senza perdere la bussola e senza farci confondere dalle apparenze.
Il libro, nel susseguirsi dei vari contributi, ci permette di toccare concetti diversi e complementari del pensiero di Alquati: l’iperindustria, come processo di progressiva lavorizzazione della sfera riproduttiva, la sua sottomissione alla razionalità capitalistica; la capacità attiva umana, quella risorsa calda che sta all’interno del corpo umano sottoposta a processi di mercificazione e mezzificazione sempre più ostili; la formazione come riproduzione della capacità attiva umana, che può rovesciarsi in contro-formazione. La Centralità della riproduzione, titolo del denso intervento di Anna Curcio, ci consegna una delle ipotesi di fondo dell’interpretazione della realtà capitalistica contemporanea di Alquati, che si ritrova in particolare in un suo (finora) inedito saggio dal titolo Sulla riproduzione della capacità-umana-vivente oggi: la riproduzione come luogo «centrale sia per l’accumulazione di capitale sia per il possibile agire autonomo di soggetti che riproducono e si riproducono senza incrementare capitale», quindi luogo privilegiato dell’ambivalenza e della politicità.
L’analisi dell’iperproletariato, altra categoria alquatiana, ne attraversa gli scritti, e di questo iperproletariato occorre indagare e organizzare, attraverso la conricerca, la soggettività, che è «il campo di battaglia decisivo». Non a caso, Maurizio Pentenero definisce Alquati un «instancabile ricercatore di una soggettività capace di incidere sui livelli alti del sistema capitalistico». E la soggettività, come componente decisiva della composizione di classe, è per Alquati «il sistema delle credenze, delle visioni e concezioni, delle rappresentazioni, dei saperi delle conoscenze e della cultura per certi aspetti e valenze; e dei desideri, di certi aspetti dell’immaginario e pure delle passioni e della volontà, delle opzioni, ecc. Sistema caratterizzato da storicità e socialità e quindi che evolve processualmente. Infatti la formazione concorre a produrre e trasformare anche la soggettività». Ricchissima definizione di questo concetto, che fa impressione per vastità, rimanda a forme di inchiesta e di ricerca dense e ampie e che apre continui orizzonti di autonomia possibile, perché l’agire umano è comunque irriducibile alla logica del capitale, si apre «al contro-percorso dell’agire autonomo del soggetto», percorso difficile, raro, ma possibile.
Questo libro ci accompagna nella profondità dell’analisi alquatiana della poliedrica forma dell’umano messa a valore nel capitalismo, in quel rapporto sempre «asimmetrico ma reciprocamente vincolante tra capitale-mezzi e capacità umana». Probabilmente è questo ad affascinare di più della riflessione di Alquati: quell’umano che è al contempo attore, interprete dei ruoli previsti dal programma, che non esaurisce però la persona, che eccede l’attore; con un capitalismo che paga solo l’attore ma pretende tutta la persona; ma all’orizzonte la dimensione del soggetto, portatore di finalità autonome e antagonistiche. Per Alquati la persona non è mai completamente mezzificabile e la contraddizione tra potenza e ricchezza può avviare percorsi di soggettivazione, di contro-formazione, anche appoggiandosi a quel «residuo irrisolto» di cui spesso parla, residuo non riducibile a una «sopravvivenza non sussunta, quindi potenzialmente fonte di alterità», ma riconducibili «a differenze inassorbibili che si costituiscono come insorgenze ricche di politicità intrinseca, di varia provenienza: da un passato di sconfitte, residuo di precedenti percorsi di emancipazione, al senso di rivalsa e di frustrazione per fini mai raggiunti, al persistere di un radicamento o al combinarsi imprevisto di fattori particolari, che hanno lasciato uno strascico intrecciato con una persistente resistenza al nuovo, sollecitata dall’agire sussuntivo stesso. Oppure, è bello pensarlo, qualcosa di inafferrabile…», come scrive Pentenero.
Infine, e per tutto questo, non possiamo che dirci d’accordo con Federico Chicchi che apre il suo saggio scrivendo che oggi in un momento di transizione particolarmente complesso e difficile da decifrare, in cui a livello di questo capitalismo sembra essere in gioco ormai la soggettività umana in quanto tale, non possiamo fare a meno delle riflessioni di Romano Alquati. Per fare un esempio concreto, quanto sarebbe stato importante in questo momento parlare con Alquati di quell’incredibile sperimentazione sociale che ha preso il nome di DAD, didattica a distanza, nel mondo della scuola italiana, una incredibile accelerazione dei processi di mezzificazione, appunto, del mondo della formazione, che implicano forme di quella lavorizzazione dell’agire umano così importanti nella trama del suo discorso.
Raccogliamo quindi l’invito a rileggere Alquati oggi, perché il suo sguardo lungo ci aiuta a continuare a cercare il cammino stretto «per strappare una vita completamente diversa» da quella a cui noi iperproletari siamo costretti.
[1] M. Tronti, Noi operaisti, Roma, DeriveApprodi, 2009, pp.28-29.
[2] T. Negri, Storia di un comunista, Milano, Ponte alle grazie, 2015, p. 202 e seguenti.
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