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Una «macchinetta» per la critica della formazione

Recensione a Cultura, formazione e ricerca di Romano Alquati (DeriveApprodi, 2023)

di Elia Alberici e Riccardo Boeri, da Machina

Cultura, formazione e ricerca (DeriveApprodi, 2023) è sicuramente il testo migliore per famigliarizzare con il pensiero di Romano Alquati perché, a differenza degli altri è estremamente chiaro. Questo libretto infatti, trattandosi della trascrizione di un intervento tenuto in occasione di un convegno organizzato dagli studenti della Pantera, può godere della limpidezza espositiva che caratterizzava, al contrario della sua scrittura, l’oralità di Alquati. Questa che presentiamo è la prima di una serie di recensioni che pubblicheremo nelle prossime settimane e che arricchiranno il lavoro editoriale di Machina sugli anni Novanta.

* * *

Vuoi per la sua natura orale – l’intervento che Romano Alquati tenne ad un convegno a Torino del movimento studentesco della Pantera nel febbraio del 1990– vuoi per il suo modo di argomentare (che è, per stessa ammissione dell’autore, a spirale, cioè privo di conclusioni, ma continuamente votato a (ri)problematizzare ogni passaggio, ogni concetto, ogni definizione) il testo Cultura, formazione e ricerca. Dentro e contro l’industria del sapere (DeriveApprodi, 2023) possiede una ricchezza concettuale e discorsiva sbalorditiva. Seguendo questo stesso stile di scrittura e pensiero, non ci proponiamo di fornire una rassegna, un compendio di questo testo; al contrario, armati di una irriducibile parzialità, vogliamo interrogare alcuni luoghi del testo che riteniamo utili per comprendere e criticare il nostro tempo. Ci limitiamo ad aggiungere una seconda premessa a questa breve introduzione: vogliamo discutere il volume a partire da uno sguardo collocato dentro l’università e, nello specifico, di chi ritiene la formazione un laboratorio strategico della produzione di soggettività nel mondo contemporaneo.

Formazione, sapere, critica

Anche un lettore sbadato si accorgerebbe come un aspetto ricorrente del testo potrebbe essere sintetizzato nella semplice asserzione «la conoscenza è una merce». Ma non solo, la conoscenza e le capacità umane come l’intelligenza, l’emotività e il linguaggio sono le merci centrali nel mondo contemporaneo, afferma Romano Alquati, citando la figura imprenditoriale di Silvio Berlusconi come esempio. Vedremo in che modo queste considerazioni siano gravide di conseguenze teoriche e politiche, tuttavia, a questa altezza ci interessa problematizzare la relazione che l’autore individua tra conoscenza e formazione. Quest’ultima viene definita – vale la pena riportare la citazione – come «riproduzione allargata del valore della capacità-attiva-umana[1] come merce, quindi il suo incrementarla» (pag. 50). Il ragionamento dell’autore mira proprio ad indagare la logica di questo incremento: si tratta di un passaggio molto complesso, ma che vale la pena riportare. Le odierne merci centrali vengono valorizzate attraverso la loro alienazione nelle macchine e nel sapere sociale. In questo modo, le macchine si soggettivizzano e le soggettività si macchinizzano: basti pensare alla dibattutissima intelligenza artificiale per intuire le linee di fondo di questo ragionamento. Ora, quello che interessa ai fini di questo scritto è che Alquati non si limita a contemplare la potenza costituente del general intellect, come altri pensatori in quello stesso periodo storico proponevano. Al contrario, insiste lungamente sui modi in cui la formazione (re)incorpora nella soggettività le capacità-umane macchinizzate e alienate nel sapere sociale. Ecco svelato il significato dell’idea di incremento presente nella definizione, d’altronde la formazione serve per acquisire competenze, abilità, skills, giusto?

Si tratta di un ragionamento, dopotutto, intuitivo e lineare, per lo meno fino a quando Alquati domanda agli studenti della Pantera: ma per chi viene incrementata la capacità umana? A cui segue una risposta lapidaria: «la merce esiste innanzitutto per i bisogni del suo compratore» (pag. 39). In una società capitalistica, suggerisce Alquati, la formazione è sempre formazione organizzata dal capitalista collettivo e favorevole ai suoi fini. Cioè, le competenze e le conoscenze che si acquisiscono all’università sono necessariamente indirizzate verso i bisogni dell’accumulazione. Ma questo equivale ad affermare che l’incorporamento di quote del sapere sociale nella soggettività (formazione) non è un processo neutro. In altre parole, l’incremento della formazione capitalistica è un «semplice potenziamento», secondo il lessico alquatiano, della soggettività ai fini produttivi; dunque, la formazione (la conoscenza) intrattiene un rapporto di ostilità con la capacità umana. Al netto dei barocchismi del vocabolario alquatiano, questo ragionamento riflette su come la formazione capitalistica altro non sia che un processo di alienazione e di reificazione della capacità umana. Dunque, si tratta di un processo ostile poiché produce impoverimento della soggettività: il capitalista collettivo mira a formare capitale umano da immettere nella produzione e non ad arricchire gli individui.

Non si tratta di un discorso intellettualistico ed eccessivamente astratto: individuare nella formazione capitalistica un processo di impoverimento della soggettività è un discorso denso di conseguenze teoriche e politiche. Tra le tante individuabili vale la pena soffermarsi sul tema della cultura «esplicita» o «umanistica», riprendendo la terminologia di Alquati. Il bersaglio polemico dell’autore è chi ritiene che la conoscenza possieda un valore in sé, perché no, capace di produrre emancipazione. L’autore ritiene che questa sia una posizione ideologica, poiché impedisce di comprendere il carattere merceologico della conoscenza, arroccandosi sulla difesa di una supposta cultura immacolata dalle logiche produttive che, di fatto, non esiste.

Discutendo con gli studenti torinesi, l’autore collega alcune posizioni espresse dal movimento con questa logica. Nello specifico, si riferisce alla richiesta di sapere critico, avanzata dal movimento, posta in antitesi con l’università della formazione industriale e delle imprese. In queste rivendicazioni, si ritrova, commenta l’autore, una difesa acritica di un valore intrinseco della conoscenza e della cultura. Allo stesso modo, Alquati domanda agli studenti come e perché la musica rock venga accolta positivamente, mentre l’automobile sia considerata uno specchio dell’alienazione. Certo, la prima possiede un’aura di «alternatività», ma è una merce al pari della seconda, conclude risolutamente l’autore. Il lettore avrà già notato come il testo alquatiano sia ricco di notevoli intuizioni che, dagli anni Novanta ad oggi, hanno nettamente trovato conferma, rendendo superflua la necessità di segnalarlo esplicitamente. Dunque, non è per amore del contraddittorio che discutiamo queste posizioni, quanto per rilanciare l’analisi all’altezza del mondo in cui viviamo.

L’impoverimento, la standardizzazione e lo specialismo della formazione e della ricerca universitaria mettono in crisi la retorica del sapere esplicito. Intendiamoci, si tratta di una retorica che gode di perfetta salute nella società[2] e, allo stesso modo, viene solitamente avanzata dalla torre d’avorio dell’università al fine di legittimare sé stessa e i suoi poteri corporativi e feudali. Tuttavia, nel ventre dell’università stessa questa retorica si afferma sempre di più come un significante vuoto. Quanti professori, ricercatori, dottorandi e studenti (non importa di quale disciplina) raggiungono le vette gerarchiche dell’istituzione senza avere letto Dante e Boccaccio, cioè radicalmente privi di cultura umanistica? In questo senso, una cartina tornasole di questo processo si trova nel discorso aziendalista che gode di molta legittimità nel dibattito pubblico. Che la ricerca instupidita e autisticamente iper-specializzata non sia in grado di produrre cultura esplicita è il segreto di pulcinella, il non detto e il rimosso di cui tutti i lavoratori dei saperi universitari tacciono ma di cui, in fondo, sono consapevoli. Questo non significa che la retorica della Conoscenza sia necessariamente destinata all’auto-dissolvimento e sia impossibile da evocare. Al contrario, ci preme evidenziare come i suoi spazi di agibilità siano costantemente erosi, esponendola al rischio di essere gettata nella pattumiera della storia.

Allo stesso modo, vogliamo puntualizzare la questione del sapere critico. Lo slogan rivendicativo della Pantera ha goduto di un’effettiva realizzazione e istituzionalizzazione dentro le mura dell’università. Il rimando ad un atteggiamento critico è una condizione indispensabile per ottenere fondi per la ricerca, come dimostra la proliferazione degli studies (di genere, ambientali e postcoloniali), cooptando e rimuovendo il potenziale critico-politico contenuto nelle loro origini. Come abbiamo chiarito per il caso della cultura esplicita, questo non significa che questa retorica sia estinta. Al contrario, essa può essere facilmente ravvisata in svariati discorsi avanzati da gruppi e collettivi che sembrano essere semplicemente incapaci di osservare le mosse della controparte.

Questa discussione dei passaggi di Cultura, formazione e ricerca relativi alla cultura esplicita e al sapere critico, dimostrano come non si possa in alcun modo criticare la formazione capitalistica invocando un sapere altro, valevole di per sé. Se, da un lato, è necessario riconoscere i processi di «ostilizzazione» e alienazione insiti nella formazione capitalistica, dall’altro, dobbiamo assumere questo piano quale unico possibile orizzonte entro cui elaborare una critica alla formazione capitalistica. In altri termini, per pensare una formazione contrapposta a quella dello stato di cose presenti, bisogna assumere che un sapere altro può solo essere la posta in palio di un rapporto di forza e l’esito di un processo conflittuale che rifiuti il sapere-merce e la formazione impoverita.

A questo punto, vorremmo soffermarci su un esempio preso da un altro libro[3]: Albert Chang è un programmatore di una compagnia indiana che ha visto multinazionali fallire dall’oggi al domani. Allora, Chang è pronto ad andarsene prima che lo facciano i suoi padroni, ma di una cosa è certo: «la mia conoscenza verrà via con me. Non può essere trasferita a nessun’altro». Chang fa un uso tattico del suo know how poiché, in quanto formazione, la conoscenza rimane appiccicata alla sua soggettività. In un contesto specifico anche il sapere tecnico del programmatore, quello per eccellenza alienante e impoverente, può essere potenzialmente conflittuale.

Allora, riteniamo che il compito di chi vuole sottoporre a critica la formazione capitalistica sia quello di indagare ed inchiestare i meccanismi concreti con cui, nell’università contemporanea, il sapere sociale viene incorporato nella soggettività. L’obiettivo è comprendere le discontinuità, le potenziali frizioni, le ambivalenze e le eccedenze insite in questo processo di produzione di soggettività[4]. Di una cosa siamo certi: la rottura della formazione capitalistica e la stessa possibilità di pensare una formazione a questa opposta (contro-formazione) non assumerà la fenomenologia del sapere alternativo (il seminario autogestito) condito con la retorica da cittadella della Conoscenza. Si darà in forme spurie, ambivalenti ed ambigue che dovranno essere organizzate da chi detesta la realtà odierna.

Identità, consumo, problemi aperti

In questa seconda parte vorremmo trattare ulteriori temi presenti nel volume Cultura, formazione e ricerca, partendo dagli effetti di realtà che essi producono nelle nostre vite. Uno di questi temi è il rapporto degli studenti con la merce e la moda. Infatti, se Alquati cerca disperatamente di proporre una ricomposizione della soggettività iperproletaria, spezzettata e alienata dalla mezzificazione delle proprie capacità, gli studenti sembrano non volerne sapere. Il motivo è semplice, il capitale propone una propria modalità di ricomposizione: l’identificazione con la merce. Dopotutto, il sogno del consumismo è avere una merce per ogni necessità: anche l’identità pare essere una necessità tra le altre.

Alquati rintraccia, sulla scorta di Baudrillard, un ruolo semiotico della merce che si fa sempre più ideologica, portatrice di valori e anche di conflittualità; si apre, allora, una società differenziale in cui un consumo è sempre e solo «diverso» da quello altrui, quello che Freud chiamava «narcisismo delle piccole differenze». Ed è proprio il narcisismo l’unico parametro secondo cui gli studenti della Pantera preferiscono il rock «spaccatimpani» all’automobile,con il primo si identificano perché, è «alternativo», con la seconda no perché «tradizionale».

Come è ovvio che sia, queste lotte ideologico-generazionali si incontrano sul terreno della merce e, perciò, volendo fare una forzatura, sono lotte utili all’incremento del capitale. La microconflittualità tra merci è sussunta dal capitale come moda, come tendenza a distruggere merci intonse perché non vanno più bene, perché non mi permettono di identificarmi con il canone annuale di vestiario o con altri canoni. Così gli studenti sono, come dice Alquati, perfettamente inseriti nel capitalismo e anzi, in certi casi, addirittura micro-innovatori: portando avanti certe lotte «per la merce», non fanno altro che chiedere merce migliore e diversa. Per avere un assaggio di questa micro-conflittualità basta vedere come i social, in cui ognuno è opinion maker di sé stesso e di nessuno, abbiano il potere di stabilire quali merci vadano bene e quali no. Una sorta di democrazia in cui il kratos si estende solo e rigorosamente al campo della merce.

Questo tema che può sembrare marginale risulta assolutamente centrale se lo si lega alla tesi di fondo del testo: la cultura è merce. Solo così capiamo perché gli studenti e gli «intellettuali sinistri di professione» (pag 43), come li chiama Alquati, si ostinino a mantenere la cultura nella sua presunta sacralità. Essa è un segno identificativo come gli altri: senza cultura esplicita, sacra, non-mercificabile, non ci sarebbero né studenti né «intellettuali sinistri di professione».

Fino a qui, però, sembrerebbe che la criticità di Alquati possa limitarsi ad un moralismo di chi assiste al cambiamento delle lotte (diventate lotte per la merce) e non è contento di come cambino; sembrerebbe quasi che il rimprovero di Alquati verso l’identificazione sia semplicemente segnico e narcisistico a sua volta. C’è un motivo effettivo per cui la lotta per la merce non va bene? Dopotutto è lo stesso Alquati a dire che qualcuno, in fondo in fondo, vive bene la vita sotto il capitalismo. In che cosa il discorso di Alquati è veramente «alternativo» rispetto a quello della Pantera?

Arriviamo dunque alla «scabrosa e delicata ipotesi» (pag. 101) che si lega direttamente a quella della cultura-merce: il «consumo distruttivo». Quello stesso consumo che distrugge invece di riprodurre la capacità umana, che consuma l’iperproletario nei suoi averi, nel suo tempo e nella sua soggettività[5].

Con il mezzificarsi della capacità umana si apre il campo ad uno sfruttamento ulteriore dell’iperproletario che così vende in modo perverso la propria capacità anche dopo il turno di lavoro; il farsi macchina della capacità umana rende quest’ultima virtualmente obsoleta e, perciò, distruttibile nella fruizione di merci. Così l’iperproletario (si) consuma e il capitalista, vendendo merce, può guadagnare sul suo consumarsi, può sfruttarlo ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Il capitalista collettivo non si deve più preoccupare di avere un iperproletario sempre tutto intero e funzionante (intanto ci sono le macchine), lo lascia consumarsi e questo ha effetti a lungo termine come, ad esempio, la nostra insaziabile fame di stimoli dovuta allo scrolling sui social; oppure al consumo di fast-fashion o altre merci contenenti microplastiche che impattano sulla salute e provocano, in certi casi, infertilità. Con queste premesse si potrebbe, a partire da questo testo, problematizzare l’effettivo antagonismo delle lotte per il tempo libero. La tendenza odierna al «lavorare meno» potrebbe non essere così un costo per il capitalista collettivo se nel tempo libero consumiamo; infatti, non staremmo facendo altro che lavorare «da casa».

Lo sfruttamento totale dell’iperproletario rivela il lato sinistro di certe conclusioni della «liberazione sessuale», ossia della fine di tutti i tabù e della moralità che ci separava dal consumo di certe merci. Il consumo non deve essere limitato da nulla, altrimenti il capitalista avrebbe meno profitto. La libertà di provare piacere come si vuole, eredità dei movimenti libertari del ’68, è servita ad aprire la possibilità ad un «obbligo al piacere» che ancora oggi sperimentiamo nell’ingiunzione alla felicità in ogni momento. Così il piacere, come sottolinea Alquati, in quanto richiesto e imposto dal capitalista collettivo, deve a sua volta capitalizzarsi e passare a ruolo segnico: non più il piacere del sesso, ma il piacere di averne fatto più degli altri. La gara tra imprenditori di sé stessi penetra fin nelle profondità della sfera sessuale.

E allora cosa accade? Se il corpo dell’iperproletario è distrutto e consumato dalla stessa merce l’unica cosa che lo può aiutare (illudendolo di riprodursi) è altra merce. Pensiamo all’esempio dei sex toys che servono per rendere «interessante» il rapporto sessuale, una merce che arriva in soccorso ad una fruizione poco soddisfacente; una merce per ricomporsi e sentirsi meglio.

Con ciò Alquati ci mostra che finché la nostra capacità umana rimane una merce il capitalista ne avrà il controllo, sia al livello della politicità e della modalità ricompositiva, sia al livello del suo uso nel tempo libero sostituendo in questo ambito il consumo riproduttivo con quello distruttivo[6]. Per queste ragioni Alquati si dimostra veramente alternativo, perché l’identificazione con la merce è dannosa per l’uomo in quanto tale, basta guardare alla distruzione ecologica. Come alternatività reale, non solo segnica, Alquati propone una «fruizione critica», che sia in grado di ricomporre la capacità attiva umana e di arricchirla, ossia di aumentarne la gamma delle utilità (cfr. 37). Da qui l’idea di una formazione che sia effettivamente tale, ossia che non si limiti a distruggere la capacità umana. Per Alquati questa formazione dovrebbe essere critica, ma in un senso diverso da quello adottato dalla Pantera, ossia far sì che gli studenti non fuggano dai problemi aperti. Un problema è aperto quando non presenta modelli standardizzati di risoluzione, quando il professore stesso non sa come risolverlo. Nel momento in cui i modelli standard di pensiero e risoluzione di problemi, vengono incorporati nella soggettività dello studente (formazione), questi inizia a pensare che non ci siano più problemi, che tutti siano già stati risolti o che siano risolvibili tramite quei modelli. In questo modo il valore d’uso della capacità umana è diminuito, ossia non è in grado di risolvere problemi che non siano in gran parte già risolti: la formazione capitalistica impoverisce la soggettività.

L’iperproletario diventa sempre più superfluo, la formazione che gli viene data non gli permette nemmeno di risolvere i problemi nuovi e radicali, i problemi aperti. Per questo motivo Alquati dice, a ragione, che gli studenti fuggono dai problemi e che valutano un professore in base alla sua capacità di risolverli per loro. Sono solo pochi, secondo Alquati, gli studenti che si rendono conto che la capacità di risolvere problemi è quella veramente richiesta dal mercato e dall’innovazione. Questa soggettività è solo potenzialmente autonoma: ossia, da un lato riesce a far valere la propria capacità umana rispetto al suo macchinizzarsi e distruggersi (arricchimento), dall’altro gode di maggiori possibilità di successo, anche retributive.

Su questo punto, però, ci sembra che oggi la macchinetta che è Cultura, formazione e ricerca (Alquati definiva così i propri libri in nome della loro funzionalità politica) potrebbe avere bisogno di una revisione. La ricchezza è per Alquati: «la gamma delle sue [della capacità umana] utilità, anche solo potenziali» (37). Se questa ricchezza, questa gamma, implica una certa capacità critica, ossia sapere risolvere problemi che non siano modulari, e se essa era già in tendenza richiesta dal mercato (come Alquati stesso individua già in questo testo), in cosa è differente dalla flessibilità? Per flessibilità, infatti, intendiamo la capacità di adattarsi, di saper svolgere mansioni che esulano da quelle per cui si è stati assunti (e per cui, presumibilmente, si ha studiato) e di saper gestire e convivere con situazioni economiche di precarietà e disagio. La flessibilità è adattamento e l’adattamento è il contrario della standardizzazione e modularità. Vediamo, allora, che il proletario «toyotista», iper-specializzato in una sola mansione è obsoleto e che perciò l’arricchimento è una condizione minima richiesta dal mercato. Con ciò pensiamo che ritorni anche su questo punto il problema dell’essere merce della capacità umana che rimane tale anche se arricchita dato che, nella quasi totalità dei casi, la flessibilità è la capacità di risolvere problemi del padrone (svolgere ulteriori mansioni a parità di stipendio) o dell’economia (gestire la precarietà e la povertà).

Alla luce del discorso odierno sulla flessibilità l’arricchimento, così come emerge nel testo alquatiano, presenta un intrinseco carattere ambivalente. Detto altrimenti, oggi un certo grado di arricchimento della soggettività è richiesto dal mercato stesso. Ne consegue che molte attività che, in tendenza, possono aprire a spazi di autonomia e contro-soggettivazione sono pericolosamente esposte a diventare esperienze da curriculum. Basta pensare a quanto volontariato e attivismo siano, alla fine, i mezzi più efficaci per millantare «capacità e competenze relazionali» nel curriculum vitae. Ciononostante, la formazione che non lascia spazio a problemi aperti (non critica ), come dice Alquati, rimane un dato di fatto della realtà capitalistica odierna.

Proprio da qui si dovrebbe ripartire, dalla domanda che guida tutto il volume di cui si è parlato: qual è il ruolo della formazione oggi? Una contraddizione reale, che lo stesso Alquati rileva, tra formazione e richiesta del mercato sembra oggi farsi sempre più importante. Come si risponde a questa contraddizione? I capitalisti lo fanno capitalizzandoci sopra, come accade nella sanità, erodono un sistema funzionante per poi privatizzarlo. Ma questo non è tutto, il problema reale è più profondo, i capitalisti possono decidere quale formazione va bene e quale no, perché la capacità umana rimane merce e perciò rimane a loro usufrutto. Per tale ragione la formazione dovrebbe essere un punto di ri-partenza, non individuale, bensì collettivo: solo in questo modo si può creare un orizzonte di senso che non sia il cursus honorum che impone la mercificazione di tutta la capacità umana. Già Alquati lo propose come «formazione critica», un’ alternatività che non sia quella tra pubblico e privato, ma che sia quella veramente antagonistica. E per provare a costruire una tale formazione si deve solo guardare con occhio attento al presente e mettere al lavoro certe macchinette che il passato ci ha lasciato in eredità, una di queste macchinette è proprio Cultura,formazione e ricerca.

Note [1] Si tratta del concetto marxiano di forza-lavoro a cui Alquati attribuisce una diversa sfumatura. [2] Rimandiamo al lavoro di Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata (Minimum Fax, 2017) che discute magistralmente l’importanza della cultura come bene posizionale e di status nel mondo contemporaneo. [3] Si tratta del volume di Gigi Roggero, La produzione del sapere vivo (OmbreCorte, 2009), p. 86. [4] Un tentativo di inchiesta in questa direzione si può trovare nel seguente articolo: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/liberare-l-intelligenza-dalla- professionalit%C3%A0 e https://www.machina-deriveapprodi.com/post/l-universit%C3%A0-e-il-sapere-pratico. [5] Si tratta della stessa logica discussa per il caso della formazione: il puro e semplice consumo della capacità umana da parte del capitalista e, dunque, il suo impoverimento. [6] Per quanto riguarda il discorso dei livelli di realtà del Modellone alquatiano si consiglia la lettura di una raccolta curata da Francesco Bedani e Francesca Ioannili: Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati (DeriveApprodi 2021).

* * *

Elia Alberici si è laureato in scienze storiche presso l’università di Bologna con una tesi sull’Operaismo degli anni Sessanta. Ha svolto attività di ricerca con il gruppo londinese «Notes from Below».

Riccardo Boeri si è laureato in filosofia all’Università di Bologna con una tesi su una rilettura del populismo in chiave Lacaniana. Attualmente studia presso l’università di Amsterdam (UvA).

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