
Hessel non abita in Italia. La crisi permanente della forma movimento basata sul primato dell’opinione pubblica

Colui che finalmente si accorge quanto e quanto a lungo fu preso in giro, abbraccia per dispetto anche la più odiosa delle realtà; cosicché, considerando il corso del mondo nel suo complesso, la realtà ebbe sempre in sorte gli amanti migliori, poiché i migliori furono sempre e più a lungo burlati (Nietzsche)
La  constatazione della fine dell’epoca liberale, alla quale segue una   necessaria critica del fenomeno dell’opinione pubblica, non è di questi   giorni ma degli anni ’20. Quando la finanza della prima  globalizzazione,  quella nata nella seconda metà dell’800 mise in crisi,  assieme al  protagonismo delle masse uscite dalla guerra ’14-’18,  la  democrazia  liberale. Uno dei padri fondatori della sociologia  contemporanea,  Ferdinand Toennies, legò la crisi della democrazia  liberale al problema  della critica dell’opinione pubblica, elemento  regolativo della vita  politica ufficiale, strumento di selezione delle  istanze politiche di  quel mondo. Senza entrare, anche se farebbe bene,  nelle questioni  teoriche poste da Toennies riportiamo una discussione  nelle aule  parlamentari del Regno d’Italia utile a focalizzare un  problema del  presente: il rapporto tra opinione pubblica e politica.  Siamo nella  primavera del ’25, Mussolini ha già fatto il primo atto del  suo colpo di  stato il 3 gennaio di quell’anno e si appresta a  concludere la  struttura politica e statale di una dittatura che durerà  fino al 25  luglio del 1943. Alla Camera si confrontano Gramsci e  Mussolini, il  primo oramai messo all’angolo politicamente mentre il  secondo risplende  di boria essendo ormai il vincitore di fatto dello  scontro politico, tra  destra e sinistra, apertosi con la fine della  guerra. Gramsci, per  trovare un argomento che condizionasse il vincente  Mussolini, comincia a  parlare delle critiche che il Corriere della  Sera aveva mosso al  comportamento del fascismo. Mussolini non fa una  piega: dice chiaramente  che il potere dell’opinione pubblica, composta  da centinaia di migliaia  di lettori, è ormai stato travolto da quello  di un partito organizzato,  il suo. Di lì a poco tempo Mussolini, oltre a  sciogliere il parlamento e  a far arrestare Gramsci, si impadronirà  anche del Corriere della Sera.  Trasformandolo nella voce più  prestigiosa del regime fino alla sua  caduta. Dopo la fine del fordismo  il rapporto tra opinione pubblica e  politica organizzata si è  rovesciato rispetto a quel dibattito della  primavera del ’25. Per cui  la capacità di esercitare pressione politica,  dopo innumerevoli  ristrutturazioni tecnologiche e mutazioni sociali, è  tutta a favore  dell’opinione pubblica rispetto ad una politica  disorganizzata, succube  e senza idee. Non  a caso le nostre società  hanno tornato a definirsi  liberali in un rapporto strutturato con temi e  dibattiti politici  definiti dal fenomeno dell’opinione pubblica.  Egemonizzato da media  verticali, di mercato, pronti a celebrare precise  gerarchie di potere e  di comportamento. L’architettonica del potere  nelle società  neoliberali, insomma. Gli stessi movimenti hanno  istintivamente seguito  questo rovesciamento di rapporto tra opinione  pubblica e politica  organizzata. Mentre i movimenti antagonisti degli  anni ’70, in modalità  molto diverse tra loro, cercavano di condizionare i  partiti o  costruire una forma dell’organizzazione tutta propria quelli  delle  ultime due decadi, non a caso, si sono strutturati nel tentativo  di  influenzare l’opinione pubblica o di costruirne una propria. Il  mitico  spartiacque della nonviolenza altro non è, prima di tutto, che il   tentativo di entrare pienamente sul terreno dell’opinione pubblica. Per   il terreno del politico forza e diplomazia sono strumenti   intercambiabili mentre in quello dell’opinione pubblica, che si   struttura attorno allo schema antropologico che supporta la discussione   razionale infinita attorno ai problemi, riduce la forza a mera  violenza.  E a questo schema i movimenti si sono adattati per un  ventennio nella  speranza di suscitare una massa critica tale da  condizionare la politica  istituzionale. E qui sono sorti tre problemi,  mai analizzati, che hanno  pesato in questi vent’anni: il primo è che le  istituzioni vivono ormai  in autonomia dall’opinione pubblica (Iraq del  2003 e referendum del 2011  dovrebbero insegnare qualcosa); il secondo è  che l’opinione pubblica è,  in ultima istanza (internet compresa), è  governata da un intreccio tra  media e politica istituzionale che è  costituito efficacemente contro le  istanze dal basso; il terzo è che  questo intreccio non è mai stato  destrutturato e messo a conflitto, nei  temi che propone e nella sua  struttura sociale interna. Eppure il  potere di connessione generale  nelle società contemporanee risiede lì. E  non solo quello ma anche  correnti consistenti di quello biopolitico.  Occupy Wall Street ha  chiesto l’abolizione della pubblicità televisiva  per i prodotti per  bambini. Perché questa è una società che addestra,  nei termini del  dressage foucaultiano, dei consumatori prima ancora di  qualsiasi altro  genere di figura sociale. Invece del politicismo della  dissociazione dai  “violenti” i movimenti potrebbero occuparsi di temi  come questi,  indubitabilmente con maggior efficacia.
 I movimenti  basati sul primato dell’opinione pubblica si sono così  trovati a subire  questo potere. Le istanze di contenuto e i temi sono  dettati da chi la  governa non dal suo segmento dal basso. Oltretutto è  notevolmente  mutato lo schema sociologico che legittimava questo genere  di  movimenti. Nel profondo degli anni ’80, quando si incubavano queste   concezioni, una società postmateriale, sostanzialmente garantita poteva   costruirsi uno dispositivo di selezione del contenuti politici basato   sulla circolazione di opinioni espresse razionalmente. C’era una base   materiale per tutto questo. Trent’anni dopo, larghi strati di società   sono precipitati in drammi che, per quanto emersi a livello di opinione,   non trovano ascolto in un sistema politico che dell’autonomia da tutto   questo ha fatto ragione di sopravvivenza. Inoltre i movimenti basati  sul  primato dell’opinione pubblica si sono ritirati, nel loro  complesso,  dal quotidiano ritmo sociale della vita sui territori. Che è  fatto di un  intreccio di comportamenti sul terreno, piattaforme di  comunicazione  innestate su questi comportamenti, e linguaggi mediali  che i movimenti  non conoscono e ai quali non sanno parlare. Non resta  quindi, come dalla  fine degli anni ’90, che organizzare grandi eventi  di piazza. Che  dovrebbero parlare all’opinione pubblica. E che  finiscono invece per  essere travolti dalla complessità sociale attirata  dal grande evento e  fatti a tranci dai media che governano l’opinione  pubblica. Questo  modello di movimento ha quindi storicamente fallito:  non ha  rappresentanza mediale, non riesce ad autorappresentarsi,  evapora sempre  velocemente e non ha inciso su nessuno dei nessi di  potere strategici  nelle società contemporanee. Nei prossimi tempi non  ne mancheranno gli  epigoni, che si faranno forza a colpi di “siamo  oltre il ‘900”, ma  l’esito negativo dei loro sforzi sembra scontato.  Come lo sarebbe stato  quello di un ipotetica rifondazione di Lotta  Continua all’inizio degli  anni ’80. Le forze del politico stanno  andando altrove.
-CUCCHI + RACITI
 Questa  scritta “- Cucchi + Raciti” campeggiava in bella mostra durante  gli  scontri del 15 ottobre. Spiega più la distanza tra i movimenti  pacifici  e radicali di quanto si possa immaginare. Perché, mentre sulle  banche e  il precariato il linguaggio può anche trovare punti in comune  tra  diverse esperienze di movimento, da parte dai movimenti che si  vogliono  maturi non c’è mai stata attenzione su questi temi. Dei diritti  civili  in ambiti tipicamente giovanili. Non solo ma tra i manifestanti   “maturi”, nella piazza del 15, c’erano esponenti di partiti che le leggi   militari del dopo Raciti le hanno velocemente approvate. Accentuando   distanza e incomprensibilità tra culture di movimento. E’ evidente poi   che la dinamica di scatenamento dei riot è quella del rovesciamento   simbolico del’ordine del potere vigente. Per cui torna trasfigurata la   figura dell’ispettore Raciti, si devastano banche, si distruggono   madonne, si bruciano tricolori. Più che alla dinamica dello scontro di   piazza è a questo rovesciamento simbolico che bisogna guardare per   capire il significato del comportamento di questo tipo di movimenti. Si   interviene direttamente per rovesciare nell’immediato un ordine   simbolico ritenuto, non a torto, insopportabile. E si parla, sempre   direttamente, all’immaginario profondo della società. In questo senso   possiamo definire questo tipo di comportamenti come una radicalizzazione   del modello di movimento basato sul primato dell’opinione pubblica. E’   frutto della sua crisi come lo era lo Schwarze Bloc tedesco rispetto  al  modello di partecipazione civica nella Germania dei primi anni ’80.  Si  parla al resto della società, evocandone la sollevazione,  direttamente  con il linguaggio del suo sostrato simbolico profondo  piuttosto che con  quello dei linguaggi mediati dai comportamenti  ritenuti ragionevoli,  creativi e politicamente razionali. In questo  modo si scatena, come  sempre in questo genere di riot, un’enorme  energia sociale sollevata. I  simboli del potere sono archetipici, si  innestano profondamente nel  corpo sociale ed è infatti forte la  reazione all’operazione del loro  rovesciamento e della loro  trasfigurazione. Non a caso i media sono  avidi di questo: condannano e  trasmettono allo stesso tempo. La diretta  Sky degli scontri a piazza  San Giovanni si è rivelata un prodotto  adrenalinico perfetto, specie  nel tardo pomeriggio, tra uno stacco  pubblicitario e un posticipo e  l’altro della serie A. Il potere  dell’immaginario del rovesciamento dei  simboli immesso nel palinsensto,  in una società mediale, non va  trascurato. Ma va anche capito che la  maggior parte di questo genere di  comportamenti non ha ancora fatto il  salto di complessità che va dai  comportamenti radicali alla  strutturazione politica, al radicamento nel  territorio, alla capacità di  governo delle stesse proprie immagini  proposte. Si parla, e con forza,  alla società ma non si è  complessivamente in grado di connettersi  complessivamente con il corpo  sociale scosso dalla crisi.
 La giornata del 14 è stata quindi  caratterizzata, anche nello specifico  dei comportamenti di piazza, da  movimenti in crisi di complessità che si  riproducono secondo schemi  declinanti del primato dell’opinione  pubblica e da movimenti che o si  fermano sul piano del rovesciamento  simbolico degli archetipi del  potere o sono ancora embrionali rispetto  al salto di complessità  necessario per fare politica, per rovesciare  l’asse del potere in  questa società. E qui chi dice che in Italia  accadono cose che non  accadono altrove deve aver ben in testa che in  altri paesi, UK e Usa  per dirne due, tutto è filato via pacificamente  perché questo tipo di  piazza è stata in mano solo alla middle class  impoverita. La Londra dei  riot ha passato il testimone a quella degli  indignati. In Italia c’è  stata sovrapposizione, mescolanza che ha  generato una complessità  sociale insostenibile. Se si vogliono movimenti  estesi lungo interi  assi di società è la capacità di governare questa  complessità che ci  vuole.
IL FUTURO DELLA POLITICA DI MOVIMENTO
 L’Italia non ha bisogno degli Hessel, figure paternali, la cui   indignazione è uno strumento di una politica costruita su un dispositivo   che non funziona. Garantisce sempre dignità morale, spesso incolumità   fisica ma non funziona più, non ottiene risultati. Come in Spagna o in   Israele. Perché basa la propria energia morale entro uno schema di   regole del gioco che tende a far pressione su un’opinione pubblica che è   strutturata per rendere inefficaci i movimenti. Si tratta invece di   costruire movimenti che passano dal primato della sfera dell’ opinione   pubblica a quello dell’occupazione del territorio. E qualsiasi campagna   globale che incontra questo genere di radicamento non ne può che essere   beneficata dall’incontro di pratiche reali, coestensive con la vita   sociale.
 Questa non è una situazione in cui l’energia sociale, come  emerge dai  movimenti più radicali, deve essere esorcizzata. Al  contrario i  cambiamenti necessari per garantire diritti universali in  questa società  necessitano di una lunga stagione di energetica sociale.  Ma questa  energetica sociale  deve entrare su un piano di microfisica  dei  territori che permette un un governo politico delle spinte radicali   verso la mutazione reale della morfologia microfisica della società,  dei  rapporti di forza territoriali , stutturando forza per l’  ottenimento  dei diritti universali concreti. E qui bisogna considerare  che i  territori non sono più quelli degli anni ’60 e ’70 e nemmeno  quelli  degli anni ’80. Il territorio, come dicevamo, è regolato da un  intreccio  di comportamenti sul terreno, piattaforme di comunicazione  innestate su  questi comportamenti, e linguaggi mediali che ne  costituiscono la  sostanza attuale. E non c’è solo bisogno di energetica  sociale,  necessaria, per plasmarlo. Ma anche di intelligenza  strutturata. E qui i  movimenti che vivono la crisi della concezione del  primato  dell’opinione pubblica possono trovare un loro ruolo.   Ristrutturandosi  completamente, per trovare anche il modo di costruire  campagne nazionali  e globali efficaci, radicate, permanenti che non  fluttuano al primo  accidente. Dopo il 14 ottobre una certa tipologia di  movimento, che oggi  ha trovato collocazione nella forma indignata,  rischia di essere in   mano ai media che oggi la preservano dai  “violenti”. Per finire nel  binario della più conclamata inefficacia.  Allo stesso tempo la potente  simbolica del riot può risultare  inefficace nel momento in cui si ferma  alla soglia dell’emergenza  sociale evocata. Se la sollevazione può dare  respiro ad ampi strati  sociali oggi sottomessi dalla crisi, senza  politica e senza strategia  si rischia anche qui l’inefficacia.
 Mentre, per la gravissima situazione sociale che viviamo, è di efficacia che abbiamo tremendamente bisogno.
Per Senza Soste, nique la police
16 ottobre 2011
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