I nodi vengono al pettine: i “Forconi” a Torino (di Salvatore Cominu)
Ancora sul 9 dicembre torinese, riprendiamo dai Quaderni di San Precario/Effimera questo interessante contributo di Salvatore Cominu che ha il pregio (tra gli altri) di evidenziare le linee di frattura che compongono il pluriverso mondo del lavoro autonomo di prima generazione e, soprattutto, come stia venendo meno tutto un sistema negoziale di lobby e contrattazione, che è anche un sistema di governance di pezzi di economia e di territorio.
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In questa settimana, le manifestazioni e i blocchi attuati dal cd. “movimento dei forconi” sta interessando un po’ tutta l’Italia. Partendo dall’esperienza di Torino, Salvatore Cominu analizza il fenomeno in atto, anche alla luce di alcune preoccupazioni relative alle possibili infiltrazioni di estrema destra. Si tratta di impressioni a caldo: la situazione è in continua evoluzione e per analisi più compiute servirà più tempo. Ma cominciamo a ragionarci.
Quanto sta accadendo in questi giorni (soprattutto a Torino e nel Ponente Ligure, altrove per caratteristiche e intensità la mobilitazione dei “forconi” si presta ad altre valutazioni) è troppo importante e complesso per essere liquidato con poche battute impressionistiche. Peraltro molte compagne/i hanno seguito in modo continuo la situazione ed è soprattutto alle loro analisi che mi sento di fare riferimento, oltre che ad alcune impressioni dirette che mi sono fatto seguendo per un po’ di tempo uno dei blocchi stradali in città e parlando con conoscenti vari.
Molti dei nodi di cui abbiamo discusso in questi anni stiano venendo al pettine.
Ad esempio la “crisi della rappresentanza”: è evidente che il dilagare e la proliferazione dei blocchi stradali dentro la città, ma particolarmente nelle periferie e anche nella metropoli estesa che sono le aree peri-urbane, nonostante la probabile regia iniziale che ne ha favorito l’innesco, siano andati ben al di là. La stessa componente dei lavoratori autonomi di “prima generazione” (autotrasportatori, ambulanti, commercianti, ecc.) che ha lanciato i blocchi (il Comitato 9 dicembre) lo ha fatto “contro” le organizzazioni tradizionali di rappresentanza della piccola impresa(Confartigianato, CNA, Confcommercio, Coldiretti, ecc.). Qua è tutto un sistema negoziale, di lobby e contrattazione, uno schema di governance, ad essere saltato. Basti dire che il Viminale “non sa con chi parlare”!
Poi, la “composizione sociale”. A prima vista a Torino si sono intrecciati e “saldati” (ma è proprio così?) tre mondi, che hanno ovviamente molti punti di contatto, sono porosi e non mutuamente escludibili. Il primo è quello delle diverse categorie del lavoro autonomo di I° generazione; meno omogenea di quanto appaia a prima vista. Ad esempio, lunedì 9 dicembre i commercianti avevano aderito in blocco e lo spettacolo di un giorno feriale senza vetrine era quasi surreale, ma da martedì i commercianti (che in diverse aree della città sono stati forzatamente obbligati a chiudere da non meglio identificate “squadre” di intuibile matrice politica) hanno iniziato a richiedere “protezione” e “legalità”. Il collante è dato dal fisco (quello locale, con l’aumento spropositato delle tasse rifiuti, ha rappresentato un detonatore formidabile), Equitalia, la classe politica, ma tra padroncini, ambulanti, commercianti è difficile saldare in maniera duratura le pratiche di lotta!
Mercoledì 10 dicembre la polizia ha forzato il blocco degli autotrasportatori ai Mercati Generali e sono certo che molti mercatari avranno in cuor loro applaudito. Ancora il 10, tuttavia, le “squadre” di cui sopra battono vie e mercati minacciando ambulanti e commercianti. Per quanto ci interessa, però, in questa componente (che ha negli ambulanti il gruppo più coeso), convivono situazioni molto diverse. Il secondo mondo, del tutto sbrindellato, è dato, per dirla rozzamente, da un neo-proletariato urbano da molto tempo senza fabbrica e con pochi luoghi di riconoscimento diversi dalle curve di Juve e Toro (tante le sciarpe delle due squadre nei blocchi), i bar dove spendere le giornate senza lavoro, qualche piazzetta. Cosa c’entrano con il lavoro autonomo? Qualcuno di loro ha anche la partita iva, ma non mi sembra il dato rilevante.
Già la scorsa settimana, però, c’era tutto un tam tam, passaparola e messaggi smartphone, che invitava a unirsi alla lotta, che teneva insieme disoccupati, precari che lavorano nelle pulizie, nel facchinaggio, nei servizi dequalificati, e che si dava appuntamento a lunedì. Infine, gli studenti o i giovani “neet”, spesso figli dei primi due, ma che vanno visti in parte come mondo a sé. E’ possibile che la mobilitazione nelle scuole sia stata trainata da giovani della destra e fascisti tout court, ma – almeno tra gli studenti – l’elemento spontaneo mi sembra prevalente. I blocchi in città sono soprattutto loro a tenerli (con diversi giovani stranieri 2G nei minicortei!) . E i discorsi sono quelli che abbiamo sentito mille volte ai cortei “nostri”: no future, “è tutto una merda”, i politici pensano ai fatti loro (per dire, un ventenne insiste sul fatto che Fabrizio Corona ha pagato le sue colpe, ma i “politici” sono molto più colpevoli e non hanno pagato niente). Certo siamo lontani anni luce dalla meritocrazia, dalle start up, dai talenti in fuga e dai giovani millenials descritti dai nostri fini analisti – quelli, mi spiegano, delle tre C, connected, confidence e change! Qua siamo nei sottoscala della “generazione tradita”.
Ora per non farla lunga, sembra che se di saldatura, parziale e instabile quanto si vuole, si possa parlare, questa di Torino sia stata soprattutto quella dell’altro Quinto Stato. Dei giovani senza laurea e spesso senza diploma, che non hanno il mito di Berlino o San Francisco, o di quelli che se hanno un negozio o un banco al mercato non esibiscono il marchio Slow Food; quelli che nel discorso sulle smart city e delle nuove “geografie del lavoro” non esistono. E spesso non esistono neanche nelle analisi della sinistra, e chissà perché sono tornati di colpo a essere le “classi pericolose”. Tra loro, si “riconoscono” a pelle. E’ possibile (probabile) che i fascisti, Forza Nuova, ma testimoni e cronache ci dicono anche di gruppi inquietanti non meglio qualificati (malavitosi?) e probabilmente anche gente che gravita intorno a Forza Italia (che sicuramente hanno avuto il semaforo verde con il passaggio all’opposizione), abbiano agito da “facilitatori” – certamente hanno fornito immagini e slogan, che sono poi quelli che finiscono nei servizi televisivi. Secondo me ha pesato più, però, questo riconoscersi tra “senza merito”.
Al di là di una valutazione sui numeri reali della mobilitazione (non oceanica ma che non sminuirei troppo, come non sottovaluterei l’iniziale consenso, più ampio e diffuso di chi materialmente è sceso in piazza), è importante guardare a chi ha manifestato. E sono quelli che non hanno credito né crediti, ma spesso tanti debiti, ragionano in soldoni e soprattutto si sentono quotidianamente preso per i fondelli. Da questo punto di vista vi è certo un rischio populistico ma vedere i blocchi di questi giovani un po’ di sensazione di aria pulita l’ha anche data. Il sollievo si ferma qui.
Veniamo al tema. Questa è la materia sociale giusta per dare sostanza agli spettri della storia. Qualcuno dovrebbe anche spiegarci perché questa composizione dovrebbe guardare da un’altra parte. Non vedo oggi grandi prospettive liberatorie in questo “riprendersi la strada” e la destra si trova nel suo mare, purtroppo. Che di brutti ceffi tra i blocchi e soprattutto nelle squadre che si aggirano in città ve ne siano molti, sembra evidente. Oggi, sui grandi numeri, solo un certo immaginario M5S è in grado di fare presa su parte di questa composizione e contrastarne una deriva apertamente di destra (parlo di immaginario, di grillini in piazza non penso ce ne fossero). Bastava tuttavia stare mezzora nei blocchi per capire che non di plebaglia eterodiretta si trattava, e che le ragioni che li avevano portati in strada non hanno nulla da spartire con i sogni autoritari di qualche becero. I buoi non sono già usciti dalla stalla, insomma. Questo non significa certo sottovalutare i livelli organizzativi (questi sì, inquietanti) delle squadre che si aggiravano nelle vie, in una città in cui la destra estrema non ha un vero radicamento sociale.
Le compagne e i compagni che a Torino hanno scelto di “sporcarsi le mani” hanno fatto la sola cosa ragionevole e militante possibile in questa fase e in queste condizioni. Dopo il disorientamento iniziale, hanno scelto da che parte stare (nel senso “classista” del termine), per capirci qualcosa prima di tutto, rifiutando, in secondo luogo, di restare subalterni al discorso delle élite che presidiano i media ufficiali e che hanno il monopolio della rappresentazione di tutto ciò che accade in questo paese (a cui le partita iva piacciono solo quando si suicidano). Solo così si può scoprire che nel rifiuto a pagare l’ennesimo tributo alla crisi c’è anche lo spazio per agire una possibile ricomposizione di segno diverso, che connetta su un piano comune questo pezzo di città con gli altri declassati e senza futuro, il Quinto Stato con più appeal, sembra, anche per la sinistra radicale (i cognitari, per farla breve). E, aggiungo, solo così si può contrastare l’affermarsi di una destra sociale nei quartieri popolari, nei mercati, ai margini della nuova Torino decantata dalle amministrazioni e dai ceti (tutti educati, tutti politicamente corretti – quante filippiche contro la “rozzezza” dei manifestanti abbiamo sentito, quanti sorrisini sconsolati di chi si riconosce tra persone per bene … qui sì verrebbe da dire, compagni, svegliatevi!) che si sono “ripresi la città” espellendone ai margini gli indesiderabili. Per diversi compagni, soprattutto per quelli che sul territorio ci stanno sul serio, il dilemma in questi giorni è stato anche come posizionarsi tra difesa delle forme di socialità del quartiere (al limite, “difendendo” anche i commercianti), e rischiare così di finire tra quelli del “ripristino della legalità” – gli stessi che di solito ci troviamo contro – o limitarsi a capire e osservare, rischiando di lasciare spazio a queste squadre.
Qualcosa di importante, per chiudere, queste lotte ce lo dicono: tra le altre, che lo sciopero precario metropolitano si può fare, e accidenti se fa male! Perché qui non ci si limita a cliccare “mi piace”. I tricolori sono simbolo ambiguo e inquietante, per alcuni apertamente nazionalista, ma per i più sembra che evochi soprattutto il diritto a esserci, a contare, a dire “il paese reale siamo noi”. Strappato dai marchi patinati del made in Italy e riportato nelle strade, cambia significato. Ciò detto, la strada è impervia e noi non siamo certamente egemoni, ma almeno una confusa direzione, tra il 19 ottobre, le cinque giornate di Genova, e l’impazzimento torinese di questi giorni, sembra essere tracciata.
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