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Storie romantiche e di traverso. Tre libri sul calcio e non solo

Per questa volta nella nostra rubrica sulle recensioni dei libri, abbiamo deciso di farne uscire più insieme. Un filotto di tre libri sullo sport che abbiamo avuto modo di leggere ed apprezzare. Profondamente diversi tra loro nello stile, nella caratura, nelle implicazioni morali, nella stesura e nel significato, però uniti da un denominatore comune, il calcio e la società.

di Daniele Poma da Sport Popolare

Tutti e tre si muovono in contesti molto simili, quell’Italia che va da metà anni Settanta e che attraversa gli anni ’80 fino a spegnersi dentro i terribili anni ’90. Il periodo del calciatore/lavoratore sta lasciando spazio al calciatore divo, patinato e sex symbol. Si parla dentro questi scritti, di malattia, di politica, di reflusso, di criminalità, di provincia e di città simbolo della decadenza. Sono state scelte casuali ma è come se questi tre libri mi avessero squarciato dentro lasciandomi però un filo per rilegare i pezzi. I libri quelli belli ti fanno anche questo. E chi sa leggere un libro può non vivere solo la sua, a volte, normale vita, ma le vite di altri, dei protagonisti nel bene e nel male.

Si soffre per un libro, si soffre per la vita, si gioisce per la vittoria. Tutto questo per dire che avere del tempo strappato all’ingombrante e soffocante ritmo della vita nel circuito consumista e dai ritmi di lavoro dà la possibilità di concentrarsi sulle cose belle e leggere amici e compagni è un’attitudine che va conservata e onorata. Noi di sportpopolare.it dal conto nostro cerchiamo di ingolosirvi a tale pratica parlando appunto dei libri che ci sono piaciuti. E a volte, raramente a dire la verità, anche di quelli che ci piacciono meno. Ma iniziamo questa carrellata di consigli per gli acquisti valevoli anche post feste natalizie, propriamente dette.

Copertina Favetto

Il primo libro rigorosamente in ordine di lettura che recensisco, è un libro del 2011, edito da Mondadori e scritto da un grandissimo Gian Luca Favetto dal titolo A undici metri dalla fine. Qui colgo l’occasione di omaggiare se ce ne fosse bisogno, l’utilità della bancarella dell’usato dei libri, quei posti mistici che spesso sfornano e ridanno vita a libri che per altri motivi forse ci saremmo persi. Ero lì, lui mi guardava con la sua copertina non proprio accattivante ma poi letta la quarta ho pensato: “Come ho fatto non averlo letto prima???” e sì perché l’argomento è di quelli che almeno al sottoscritto piace fino a impazzire, ossia le storie di portieri di calcio. Qui c’è la fantasia dell’autore certo, non è una biografia e forse la sensibilità dello scrittore trasborda e così l’ha portato a scrivere la vita, le passioni più intrinseche, le quotidiane angosce e le postume gioie di ogni estremo difensore. Usa il momento catartico del dischetto, del gioco del boia con la vittima sacrificale, appunto l’estremo difensore. Un po’ cogliendo lo scritto, e trasportandolo alla provincia italianissima, del famoso racconto di Osvaldo Soriano, Il rigore più lungo del mondo. Ma è la passione per questo sport, per il calcio fosse anch’esso di provincia, si parla di Eccellenza, quel purgatorio del calcio che anticipa di poco l’inferno delle categorie più infide. Ma a quei tempi è ancora un lavoro giocare in Eccellenza, con i suoi riti le sue liturgie e la passione oltre confine di chi non ce l’ha fatta a sfondare fino in fondo. La storia di Valerio Peraglie non è la storia di un portiere è la storia di migliaia di portieri di provincia, alle prese con la vita che va avanti e l’esigenza della famiglia e di un nuovo lavoro, per combattere una fine della gioventù molto ritardata ma che prima o poi doveva arrivare. Libro profondissimo, ben scritto che parla di tutte le sfaccettature di un’esistenza e lo fa con poesia anche quando parla dello sport più bello del mondo praticato su campi con sassi e zolle. Un autentico elogio alla passione del calcio giocato.

Copertina Tomaselli

Il secondo libro edito da 66thand2nd è un lavoro lungo e meticoloso del giornalista Paolo Tomaselli, firma tra l’altro del Corriere della Sera dal titolo Giuliano Giuliani, più solo di un portiere. Restituisce con un lessico molto mainstream, pulito e attento la vita del portiere più vincente della storia del Napoli Calcio, Giuliano Giuliani appunto. Uomo di sport ed eccezionale portiere di calcio quando in Italia i nostri numeri uno erano dei ragazzoni mostruosi, come Zenga, Tacconi, Garella giusto per citarne alcuni, ma con una storia di unicità che dal ’96, anno della sua morte, ha fatto sì che il suo ricordo sprofondasse nel dimenticatoio. Il primo calciatore di Serie A italiano a essere morto per l’AIDS, unico che si sappia ad aver giocato sieropositivo. Una sorta di Magic Johnson, senza però il suo coraggio o meglio con un diverso coraggio di affrontare la malattia. Certo Udine è diversa dall’America, ma la risposta dell’individuo fu quella di celare, celare e nascondere un fatto che emanava aure di vergogna e sottili allusioni. In Italia dove la prevenzione al virus, “il virus dei degenerati, omosessuali e tossici, flagello di Dio” a detta delle principali istituzioni ecclesiastiche seguite a ruota dalle istituzioni laiche, che hanno omesso a lungo la gravità di uno dei virus più letali che ci sono e che all’epoca mieteva milioni di vittime. E quindi nel calcio microcosmo innaturale, bolla della più bieca società del benessere e del si salvi chi può, per quei compagni, ex direttori, allenatori che ruotavano attorno alla figura di Giuliano non fecero che assecondare le allusioni antiscientifiche che ruotavano attorno chi fosse malato di HIV. La paura del contagio, la mala informazione, la superstizione religiosa del circuito di amici e compagni si riversarono sul portiere nato a Roma, precisamente a San Lorenzo e cresciuto ad Arezzo, con tutto il corollario di imbarazzi, fughe per evitare incroci, cose che farebbero male a tutti, anche a un inespressivo e controllato Giuliano. Ancora oggi Tomaselli racconta della difficoltà di ex compagni con cui aveva condiviso l’esperienza affratellatrice della vittoria, avessero avuto difficoltà a raccontare le proprie esperienze con Giuliano, lo stesso Maradona si capisce che ne fu sempre un poco disturbato, eppure erano amici e molto. La reticenza e forse la vergogna di se stessi in questa vicenda la fanno da padrone, e anche la tristezza perché la vita o la morte, il susseguirsi di eventi, il riscatto, la ricaduta, l’infanzia, l’adolescenza complicata, la mamma morta ammazzata, il padre perdigiorno e il fratello tossico, hanno reso la storia che andava raccontata una storia estremamente triste e ombrosa come la vita di Giulio, portiere ed eroe.

Copertina Chiappaventi

Il terzo libro edito da Milieu, dell’ottima collana Parterre, è scritto da Guy Chiappaventi, anch’ egli giornalista, e dal titolo La scomparsa del calciatore militante. Non so perché leggendo il titolo inizialmente avevo pensato fosse un saggio sulla scomparsa dell’archetipo del calciatore militante, poi l’ovvietà mi ha portato a riflettere, e che si sappia i calciatori militanti sono meno di quelli che giocarono con la sieropositività in campo. Quindi leggendo la quarta di copertina ho capito che in fondo era una storia e che quella storia vera io non la conoscevo, la storia di Maurizio Montesi. Per molti anni ho visto la militanza politica a sinistra inconciliabile con lo spirito capitalista e edonistico del calcio, ieri come oggi e forse come domani, almeno financo le strutture economiche continueranno a sorreggersi sul saggio di profitto piuttosto che sulla gioia del giocare. Detto ciò, che un calciatore romano di Primavalle, comunista e militante di Lotta Continua giocasse in una delle squadre più nere in un momento tra i più neri del calcio, io non lo sapevo e quindi ringrazio Guy e chi mi ha messo in mano questo libro che mi ha restituito un immaginario più ampio e meno tetro. È vero Maurizio era un’anima nobile in mezzo a un mare di niente, proprio mentre i calciatori perdevano il loro ruolo da lavoratori in parte sfruttati come tutti noi, per immergersi nel patinamento e nei flash dei fotografi, le nuove rockstar erano loro. Ma Maurizio no, lui continuava imperterrito a rifiutare l’ordine capitalista, abitava dalla mamma nel suo rione proletario, vestito scaciato si presentava la campo con utilitarie usate, scaciate pure quelle. Eppure, aveva temperamento e forza che gli permise di lavorare nel calcio in una delle squadre e delle società per antonomasia più ostiche, e soprattutto amava il suo lavoro e giocava un gran bene al calcio, era amato dagli allenatori che ne apprezzavano il dinamismo e il sacrificio (ahimè per lui, giocherà meno di cento partite tra i professionisti, vittima di due infortuni devastanti) ma di amici nel calcio pochi come si addice a una primula rossa. Amava la Lazio visceralmente ma non il circo del calcio, Che Paolo Sollier fosse schierato si sapeva, ma l’ineffabile equilibrio di Maurizio, tra militanza, calcio e illegalità credo – sono sicuro – nel panorama calcistico italiano, sia assolutamente un unicum. Eppure la storia di Montesi è segnata da una macchia che lo perseguitò da destra a sinistra: quella legata al ruolo di “gola profonda” del calcio, colui che confermò e denunciò uno dei malcostumi italiani dell’epoca, uno dei mali assoluti, il Totonero. Fece bene e certo non si può etichettare come spia o traditore o informatore, era un ragazzo che non si vendeva, che pure alle folle di adoranti e spensierati supporter domenicali affibbiava il quanto mai severo aggettivo di “stronzi!”. Ma sì, come dargli torto? Lui vedeva giovani forti che dedicavano il loro tempo libero invece che a risolvere le dinamiche di una società ingiusta ad affrontarsi in un marasma di violenza campanilista fine a se stessa. Questa era la sua ottica. Ebbe problemi ad Avellino per i suoi ragionamenti anticapitalisti mai domi, ebbe problemi con gli stessi tifosi biancocelesti che invece di onorare un uomo che non vendette i loro sogni di tifosi ma anzi denunziò il malcostume proprio toccando il tasto dolente dell’amore ossia il tradimento, lo ignorarono. Chi si può vendere una partita non merita di calcare i campi e Maurizio fu chiaro e tranciante.

La sua vita romanzata e dura lo ha portato a conoscere il carcere, l’illegalità, la droga, un processo in contumacia, un animo desaparecido che ha ritrovato casa solo quando non poteva finite in gabbia. Dentro al libro c’è una lettera magnificamente scritta dal protagonista al suo alter ego identificato con l’anima buona di Felice Mosè Pulici una lettera che vale un’analisi antropologica di una parte della storia di questo strano, stranissimo paese che è l’Italia, nella città più sorniona di sempre, la nostra Roma.

Daniele Poma

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