
Il futuro delle rivoluzioni arabe

 D: La repressione di ogni attività politica da parte delle dittature ci  ha fatto dimenticare l’impegno politico degli ambienti intellettuali,  del movimento operaio, della popolazione in generale nel dopoguerra e le  loro lotte antimperialiste. Questo sottofondo politico non riemerge  oggi nelle rivoluzioni in corso?
 
 Ciò che accede oggi si iscrive, in effetti, nella lunga storia moderna  degli Stati arabi. Senza risalire troppo nel tempo, possiamo collocare  l’attuale ondata rivoluzionaria nel percorso compiuto dopo l’ondata  regionale che è seguita alla Nakba, la sconfitta araba in Palestina del  1948. La crescita del movimento nazionalista tra gli arabi negli anni  1950 e 1960 riuscì allora a incanalare e arginare la protesta popolare,  ma l’ha anche seguita nella sua radicalizzazione socioeconomica e  politica. La nuova sconfitta araba del giugno 1967 da parte di Israele  ha segnato l’inizio del declino del nazionalismo arabo. Gli anni 1970  sono stati anni di transizione durante i quali tre correnti si sono  disputate l’egemonia: il nazionalismo declinante, una nuova sinistra  radicale in parte venuta fuori dal nazionalismo e l’integralismo  islamico alimentato dai petrodollari sauditi e favorito dai regimi al  potere come antidoto alla sinistra.
 Dopo la rivoluzione iraniana del 1979, si è entrati in una nuova fase  storica di tre decenni durante i quali la protesta popolare regionale è  stata dominata dalle correnti religiose, con il declino e  l’emarginazione della sinistra. In questi anni tuttavia le conseguenze  socioeconomiche della mondializzazione neoliberale hanno prodotto una  nuova crescita della protesta sociale, della lotta di classe, favorita  dagli effetti della crisi e dal degrado delle condizioni di vita. In  Egitto il 2008 ha visto l’inizio di un’ondata di lotte operaie che, fino  al 2009, è stata la più imponente della storia di questa regione.
 Questo rilancio della lotta di classe –  terreno sul quale i movimenti  religiosi che predicano la conciliazione sociale sono quasi del tutto  assenti – segnalava che si era all’inizio di una nuova fase politica, di  una nuova fase della transizione. Con l’ondata rivoluzionaria attuale,  si vede affermarsi la mobilitazione e il ruolo della classe operaia in  Tunisia e in Egitto, i due paesi all’avanguardia.  Si registra anche,  seppure in termini più modesti, una nuova crescita della sinistra  radicale. Si registra anche l’apparire in forza di un nuovo liberalismo  nel senso statunitense del termine, un liberalismo politico, piuttosto  progressista sul piano sociale, i cui esponenti più conosciuti sono i  giovani del movimento del 6 aprile in Egitto.
Se è molto esagerato parlare di  “rivoluzioni Facebook”, è vero però che esiste una generazione  politicamente orientata al neoliberismo, cui le nuove tecnologie hanno  fornito i mezzi per organizzarsi. Dal Marocco fino alla Siria, le lotte  sono state organizzate attraverso le reti di comunicazione elettronica  che raggruppa in grande maggioranza dei giovani animati da aspirazioni  liberali, democratiche e laiche, combinate ad un riformismo sociale. C’è  un potenziale importante di radicalizzazione che la sinistra – se ne  sarà capace- potrebbe influenzare.
 Siamo entrati in un nuovo periodo di transizione con una redistribuzione  delle carte che vede una forte concorrenza tra, da una parte, le nuove  forze in crescita – il movimento operaio, la sinistra e la gioventù  liberale – e, dall’altra, i movimenti islamici.
D: Tu parli delle rivoluzioni come se si trattasse di uno stesso processo. Qual è il posto del panarabismo nelle coscienze e in questa evoluzione?
 Bisogna usare l’espressione “arabo” tra virgolette. Si può  definire questa regione come araba nel senso geopolitico della Lega  degli Stati arabi, anche nel senso che in essi l’arabo è la lingua  ufficiale, sebbene non esclusiva. Il Marocco e l’Algeria, soprattutto,  sono arabi-amazigh.
 Il panarabismo, altrimenti detto nazionalismo arabo, è stata l’ideologia  dominante nel movimento di massa su scala regionale durante il periodo  degli anni 1950 e 1960. Allo stesso tempo questo nazionalismo  rappresentava l’aspirazione ad una unità sul tipo delle grandi  unificazioni borghesi europee, rappresentato nel punto più alto dalla  persona del presidente egiziano Nasser. Il fallimento del movimento  nazionalista arabo si è accompagnata al rifiuto dell’ideologia  nazionalista. Oggi il fatto che il movimento di contestazione si sia  esteso rapidamente in tutta la zona arabofona delimitata dal Sahara,  l’Iran e la Turchia si può spiegare solo con i legami creati da questa  comunità culturale, linguistica e storica. Il canale satellitare Al  Jazeera ha fortemente contribuito ovviamente, così come la comunicazione  elettronica.
 Una nuova coscienza regionale sta per emergere, ed essa non è più  l’aspirazione ad una unità che venga dall’alto, attraverso la dittatura,  ma un’aspirazione molto più democratica ad una unità alla base.  Piuttosto che i modelli europei dei secoli passati, è il modello  confederale e democratico dell’Unione europea attuale (con l’eccezione  del suo contenuto sociale, ovviamente) che meglio corrisponde alle  aspirazioni dei giovani di oggi.
 I concreti tentativi di unificazione che si sono fatti fino ad oggi nel  mondo arabo hanno avuto il volto che ci si può attendere da una unione  tra regimi dittatoriali. Essi erano sia destinati a rompersi, per il  fallimento del controllo di un paese sull’altro, come l’unione  siro-egiziana del 1958, sia priva di consistenza come l’Unione del  Maghreb arabo del 1989. Oggi vi è consapevolezza del fatto che, prima di  giungere ad una unificazione, bisogna realizzare profondi cambiamenti  democratici nei paesi coinvolti.
D: A che punto sono le rivoluzioni arabe e quale futuro per esse?
 La cosa su cui sono tutti d’accordo è che siamo solo  all’inizio. Anche nei due paesi in cui la rivolta ha vinto, la Tunisia e  l’Egitto, ci sono al momento più elementi di continuità con il vecchio  regime che di discontinuità. Quello che è stato rovesciato è la parte  visibile dell’iceberg; tutto il resto è ancora là, vale a dire il grosso  della classe dominante e degli apparati di potere. E’ per questo che la  lotta continua, come in Egitto la mobilitazione contro il consiglio  militare che ha assunto il potere dopo la fuga di Mubarak.
 La formula più appropriata per descrivere quello che accede nella  regione è “processo rivoluzionario”, piuttosto che “rivoluzione” nel  senso di un processo compiuto. Scoppiato con gli avvenimenti del  dicembre 2010 in Tunisia e proseguito in Egitto, il processo  rivoluzionario è in corso su scala regionale: siamo solo all’inizio. Non  ha ancora riportato la vittoria iniziale in Bahrein, in Yemen, in Libia  e in Siria – senza parlare degli altri paesi dove le manifestazioni non  sono ancora riuscite a diventare molto imponenti – e resta largamente  incompiuto in Tunisia e in Egitto. Gli Egiziani hanno avuto ragione a  chiamare la loro rivoluzione con la data d’inizio: “rivoluzione del 25  gennaio”.
 Sono ancora ben lontane dall’essere terminate ed è difficile fare  previsioni perché, come in tutti i periodi di rivolgimento  rivoluzionario segnati dalla irruzione delle masse sulla scena politica,  la storia si accelera fino a dare le vertigini.
 Detto ciò, è escluso il ritorno al passato. Non si può far girare la  ruota della storia all’inverso. Il mondo arabo è entrato nel 2011 in un  periodo di transizione che apre diverse possibilità, come tutti i  processi rivoluzionari.
 La prospettiva più augurabile a mio avviso è l’approfondimento e il  consolidamento delle conquiste democratiche in modo da permettere il  proseguimento della costruzione di un movimento operaio sociale e  politico capace di avviare una nuova fase di radicalizzazione del  processo, su una base di classe. La principale prospettiva alternativa  oggi è la limitazione della trasformazione democratica a profitto della  continuità del regime, a costo di cooptare i movimenti integristi. E’  quello che gli USA definiscono “transizione nell’ordine” in vista del  quale hanno adesso stabilito dei rapporti ufficiali con i Fratelli  Mussulmani.  Resta così, bene inteso, la prospettiva di una fase di  instabilità prolungata con le sue conseguenze economiche e sociali che –  come all’indomani della rivoluzione del 1848 in Francia, sfociata nel  “18 Brumaio di Luigi Bonaparte” – potrebbe sboccare in un regime  autoritario che sopprima la rivoluzione e le sue conquiste. Non si può  escludere una simile situazione.
 E’ per questo che è fondamentale che la sinistra sappia battersi per la  democrazia politica, con le alleanze che questa lotta richiede,  considerando come cosa assolutamente prioritaria la costruzione di un  movimento operaio indipendente sia sul terreno sindacale che politico.
Hebdo Tous est à nous – 28.7.2011
traduzione italiana: www.ossin.org
Ti è piaciuto questo articolo? Infoaut è un network indipendente che si basa sul lavoro volontario e militante di molte persone. Puoi darci una mano diffondendo i nostri articoli, approfondimenti e reportage ad un pubblico il più vasto possibile e supportarci iscrivendoti al nostro canale telegram, o seguendo le nostre pagine social di facebook, instagram e youtube.




















