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Lo spettro della democrazia

Marco Bascetta (Il Manifesto di martedì 9 luglio)

L’Egitto è in pieno caos. Innumerevoli incognite incombono sull’immediato futuro del paese. Le nubi della guerra civile volano basse e minacciose. Bande armate scorazzano nel Sinai. I soldati sparano sulla folla e uccidono, le carceri si riempiono, l’esercito è l’arbitro e il centravanti della partita. Una infinità di incredibili paradossi si dispiegano sotto gli occhi del mondo. E tutti i nodi delle cosiddette primavere arabe sembrano venire al pettine nella forma più aspra e sanguinosa. Esattamente venti anni prima di questi eventi Bahgat Elnadi e Adel Rifaat , due sociologi di origine egiziana trapiantati in Francia dove pubblicano con lo pseudonimo comune di Mahmoud Hussein, scrivevano: “Nelle grandi capitali dell’emisfero sud, da qualche anno a questa parte la parola d’ordine della libertà mobilita folle numerose come quelle che, nel passato, solo la parola d’ordine dell’indipendenza aveva potuto radunare. E’in atto un cambio di priorità”. Per aggiungere subito dopo: “E nondimeno, la democrazia resta, il più delle volte, tanto desiderata quanto irraggiungibile; tanto necessaria quanto fuori portata”( Versante sud della libertà, manifestolibri 1994).
Non vi è dubbio che da Tunisi al Cairo (ma anche in Libia e Siria dove tuttavia il dispositivo della guerra civile è stato attivo fin dall’origine) la domanda di libertà, (che non è sovrapponibile a quella di democrazia), sfociata poi nell’esercizio di un potere destituente, è stata il carburante della rivolta che ha portato alla cacciata di Ben Ali e di Mubarak. Libertà dall’ arbitrio di uno stato-nazione che, persa da un pezzo la legittimità derivata dalla stagione delle indipendenze, soprattutto di fronte a una sterminata popolazione giovanile che non ne è stata partecipe e se ne sente infinitamente distante, si risolveva in un sistema di intollerabili privilegi e soprusi tanto ramificati da insidiare ogni aspetto della vita quotidiana di tutti e di ciascuno. Questo scontro frontale e per molti versi viscerale contro l’apparato disciplinare dello stato schierato in difesa dei privilegiati e sistematicamente dedito alla corruzione, presenta, a partire dalle sue forme spontanee, caotiche, perfino improvvisate, molti tratti di quello che potremmo definire un movimento antiautoritario, tanto più vigoroso, quanto più spessa e duratura era stata la cappa che soffocava la libertà dei singoli e soprattutto delle singole. E’ la stessa caratteristica che ha segnato, in forma ancora più pura e accentuata, la ribellione turca contro lo “stato etico” in via di edificazione per mano di Erdogan, a colpi di leggi liberticide e precetti morali, seppure in un contesto di soddisfacente crescita economica.
Era inevitabile che questa specifica domanda di libertà entrasse rapidamente in rotta di collisione con la componente islamista delle ribellioni arabe la cui idea di libertà consisteva invece esclusivamente nella possibilità di organizzarsi politicamente alla luce del sole e nel rifiuto degli schemi politici e culturali di derivazione occidentale a cui contrapporre una morale pubblica e privata di stampo tradizionalista e comunitario. Ecco, dunque, il primo paradosso: sull’onda di un movimento antiautoritario viaggiano correnti e formazioni politiche ispirate da una visione autoritaria della politica e della società. E, democraticamente, vincono facendo leva sul disorientamento e su quel tessuto di solidarietà comunitarie e di consuetudini tradizionali che, se non lasciano spazio alcuno alle libertà individuali, consentono tuttavia alla massa degli esclusi dai circuiti economici e culturali della modernità di tirare a campare. Vincono, ma governare con l’ideologia e per l’ideologia non intacca i privilegi e non migliora le condizioni di vita. Gli islamisti non riescono a fare i conti con una società che si è fatta complessa anche negli strati più bassi, né a incarnare una presunta “anima proletaria” contro la presunta “anima borghese” della laicità. Il Corano non prevede la lotta di classe e la passione antimperialista è in evidente declino dopo aver fatto lungamente da alibi a governi corrotti e dittatoriali. Il trucco c’era e tutti lo hanno visto. Il fatto è che il contrasto tra il legame con la tradizione e l’aspirazione a un rinnovamento radicale non attraversa solo la società ma anche gli stessi individui che la compongono. E l’islam politico, anche il più accorto e moderato, non riesce a rinunciare a quel manicheismo che è nei suoi geni, accecato da una pretesa di coerenza fuori dalla storia e dalla vita reale degli individui. Così Erdogan e Morsi si ritrovano in piazza milioni di persone inferocite contro quella che considerano una “dittatura della maggioranza” uscita dalle urne. Impossibile imputare un simile movimento alla manipolazione eterodiretta o alla borghesia occidentalizzata. Lo schema dello scontro di civiltà frana rovinosamente.
E qui, almeno in Egitto, entra in scena il secondo paradosso. Il “movimento antiautoritario”, la diffusa domanda di libertà, ricevono la protezione e l’appoggio della più autoritaria delle istituzioni: l’esercito, il quale la mette in atto nel modo che gli è più consono: sparando. Sulla natura dell’istituzione militare nei paesi postcoloniali, sui fattori che ne hanno determinato la superfetazione e l’invadenza nella vita politica ed economica e nelle relazioni internazionali si possono produrre diverse spiegazioni storiche. Certamente in alcuni paesi ha svolto una sua parte nel processo di modernizzazione accentuandone però i tratti tecnocratici e autoritari. Quel che è certo è che la domanda di libertà, nonché quella di una più equa distribuzione della ricchezza non possono che scontrarsi presto o tardi con il principio d’ordine, la struttura gerarchica e le strategie geopolitiche proprie dell’istituzione militare. Essendone schiacciate o spaccando l’unità dell’esercito con il rischio di scatenare la guerra civile. Vent’anni fa Elnadi e Rifaat la mettevano così: di fronte al fallimento dello stato-nazione postcoloniale, tra promesse disattese e politiche di “sviluppo” fallimentari e conservatrici, i movimenti “giungono a una alternativa fondamentale, a una scelta tra due possibili principi di coerenza: o il ritorno indietro o il salto in avanti, o il ristabilimento di un ordine fondato sui valori prenazionali della religione e del costume comunitario, o la ricerca di una modernità più radicale, di una democrazia più laica”. Ma è esattamente su questa alternativa che si innestano tutti i paradossi, le contraddizioni, i vicoli ciechi, che gli eventi in corso mettono in luce. La domanda di libertà non riuscirà ad imporsi se non combinata con un elemento di classe, decisamente rivolto contro il potere e la ricchezza dei ceti dominanti nonché contro i diktat del Fondo monetario internazionale e degli altri creditori, e dunque capace di includere la vasta area della povertà. Altrimenti saranno la reazione sanfedista e il potere paternalista e autocratico che la governa ad avere la meglio, con la benedizione delle cancellerie e delle banche di tutto il mondo. E’ una lezione antica, quella impartitaci da Vincenzo Cuoco nel suo amaro ma lucidissimo Saggio storico sulla rivoluzione partenopea del 1799.
La laicità può essere garantita da un esercito, perfino da un esercito straniero, la libertà, fatta eccezione per quella dei capitali, non può esserlo. Non è una differenza da poco. Ed è una partita che non si gioca necessariamente nel campo della democrazia parlamentare. I democratici (governi occidentali compresi) che festeggiano un golpe e i comunitaristi che agitano il feticcio della democrazia e del risultato elettorale sono l’esempio evidente della natura spettrale in cui lo schema democratico si dissolve e dell’attrito tra le sue regole formali e la realtà sociale cui pretende di applicarsi. Lo scontro di civiltà è stato inventato, alimentato e agito contro la lotta di classe. Sarebbe ora che quest’ultima, o le forme di conflitto sociale che ne raccolgono l’eredità, si prendessero la loro rivincita.

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