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Tunisia, anniversario amaro

Tunisi, 15 gennaio 2013, Nena News – A due giorni dal secondo anniversario della rivoluzione tunisina, il 12 gennaio scorso, un ennesimo giovane disoccupato si è dato fuoco in pubblico, questa volta a Mnihla, quartiere povero e densamente popolato della periferia di Tunisi. Lo apprendiamo da una velina di due righe, replicata tal quale da tutti i mezzi d’informazione: nessun giornalista, nessuno dei tanto celebrati blogger si è dato la pena di percorrere i pochi chilometri dal centro della capitale a Mnihla per andare a informarsi sulla biografia, la sorte dello sventurato, le ragioni e le circostanze del suo gesto.

Ancora suicidi per fuoco
Questo suicidio per fuoco è solo il più recente di una lunga serie che ha continuato a snodarsi nel corso della cosiddetta transizione. Esso, tuttavia, non potrebbe essere più emblematico. Proprio qui, giusto due anni prima, il 12 gennaio 2011, era scoppiata una delle rivolte popolari che, partendo dalle regioni dell’interno più povere ed emarginate, sarebbero divenute il sollevamento popolare che ha affossato il regime. A Mnihla e Ettadhamen (che costituiscono un’unica municipalità), i rivoltosi saccheggiarono un magazzino, incendiarono una banca e si scontrarono con la polizia, che uccise due giovani e ne ferì altri.

È molto probabile che l’anonimo giovane disoccupato fosse uno di quei rivoltosi. Il che la dice lunga sulla disperazione di massa per la rivoluzione tradita ed espropriata ai suoi protagonisti: la racaille che niente ha guadagnato da un’insurrezione pagata con un pesante tributo di sangue e repressione. Questa «plebaglia», della quale sono parte tanti giovani disoccupati con un livello d’istruzione alto, oggi vive una condizione ancor più intollerabile: colpita dall’aumento vertiginoso della disoccupazione e del costo della vita nonché dall’aggravarsi delle disparità sociali e regionali; emarginata in agglomerati urbani abbandonati al degrado e alla povertà crescenti; stretta nella tenaglia tra il salafismo dilagante nei quartieri popolari e l’arbitrio e la violenza delle forze dell’ordine; sempre pronta, tuttavia, a ribellarsi, con sommosse ricorrenti ed effimere che quasi nessuno è in grado o vuole organizzare. Oppure, quando le organizza, è pronto a sacrificarle sull’altare di qualche accordo col governo di turno.

È accaduto a Siliana alla fine di novembre quando, durante un lungo sciopero generale sostenuto dall’Ugtt, la più importante centrale sindacale, la polizia ha ferito e/o accecato con fucili a pallettoni quasi trecento manifestanti. Per aver denunciato e condannato fermamente la violenza delle forze dell’ordine, il sindacato ha subìto un attacco alla sua sede centrale, a Tunisi, da parte degli scherani delle cosiddette Leghe di difesa della rivoluzione (in realtà milizie al servizio di Ennahda). Ma subito dopo la sua dirigenza nazionale, come consueto nella storia dell’Ugtt, infine ha ceduto: ha revocato lo sciopero generale nazionale, proclamato poco prima, e lanciato la proposta del dialogo con lo screditato governo provvisorio di Jebali, peraltro formalmente decaduto.

«La conquista del bla-bla»
Qualcuno ha scritto su Nawaat, uno dei blog più noti e impegnati, che la sola conquista della rivoluzione è stato il bla-bla: «Il piacere gratuito di conversare liberamente, di dire tutto e qualsiasi cosa senza sentirsi spiati». Il che è vero solo parzialmente. Se è innegabile che la rivoluzione ha liberato la parola pubblica e infranto la cappa di paura, è altrettanto evidente che la libertà di espressione è tutt’altro che garantita, come ha denunciato in un rapporto di pochi giorni or sono anche Amnesty International.
Si aggiunga che tuttora consuete sono pratiche come la repressione violenta delle manifestazioni, gli arresti illegali, la detenzione in prigioni segrete, perfino lo stupro, la tortura e l’omicidio in carcere e nelle caserme di polizia. Ad apparati repressivi e giudiziari rimasti sostanzialmente gli stessi si è aggiunto il bigottismo islamista quale strumento statuale di controllo e repressione. A tal proposito basta ricordare tre episodi. Il 28 marzo 2012, Ghazi Beji e Jaber Mejri, due giovani di Mahdia, sono condannati a sette anni e mezzo di carcere (il primo è riuscito a fuggire in Europa, l’altro è in prigione), per aver postato su Facebook immagini e scritti giudicati blasfemi.

Fra settembre e ottobre scorsi, una giovane che era stata fermata col suo compagno e stuprata da tre poliziotti, è denunciata e processata per oscenità in luogo pubblico, come ritorsione per aver osato rivelare la violenza subita e accusare i suoi stupratori. Per fortuna, incalzata dall’indignazione e dagli appelli internazionali, la Corte ha deciso per il non luogo a procedere. Infine, è di pochi giorni fa la notizia di una ragazza di meno di vent’anni e del suo altrettanto giovane compagno condannati a due mesi di prigione per essersi abbracciati per strada.

Insomma, a due anni dalla fuga di Ben Ali ben poco c’è da festeggiare in Tunisia. V’è chi è arrivato a scrivere che il secondo anniversario della rivoluzione del 14 gennaio è un giorno di lutto. E gli abitanti di Sidi Bouzid, la città di Mohamed Bouazizi, hanno deciso di boicottarne le celebrazioni. In effetti la ricorrenza cade in un contesto di crisi e d’inflazione economica, di forte tensione politica, di scontri, anche assai violenti, tra fazioni religiose e politiche, di profondissimo malcontento popolare e assenza di prospettive.

Il Forum sociale a marzo a Tunisi
È in questo quadro, tutt’altro che roseo, che si svolgerà a Tunisi, dal 26 al 30 marzo, il 12° Forum Sociale Mondiale. In una fase migliore della transizione, la Tunisia era stata scelta a giusta ragione in quanto culla delle «primavere arabe» e paese che vanta un ricco tessuto associativo. Oggi che le cose sembrano volgere verso un esito problematico e incerto, il Forum potrebbe comunque agire da stimolo per una nuova ondata di rivendicazioni e lotte popolari, questa volta organizzate. Purché esso si sottragga al rischio d’essere usato come fiore all’occhiello del nuovo regime. Non è un’ipotesi peregrina: nella tradizione dei regimi tunisini, di quello benalista in specie, v’è l’abilità nel servirsi della retorica dei diritti umani e della «società civile» per accreditarsi agli occhi dell’Europa e delle istituzioni internazionali. 

 

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