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Il rompicapo della ricomposizione dentro le rivolte della banlieue

Frutto di una lunga ricerca sul campo, Atanasio Bugliari Goggia ha scritto, per i tipi di Ombrecorte, due importanti volumi sulle lotte e le organizzazioni politiche di banlieue. Dopo le rivolte di giugno è stato intervistato da diverse riviste e siti italiani, tuttavia abbiamo sentito ugualmente la necessità di interrogarlo per approfondire alcuni temi che ci sono sembrati trascurati e che invece riteniamo di primaria importanza: dal rapporto tra la composizione di classe delle rivolte e le organizzazioni politiche al problema della ricomposizione tra pezzi di proletariato metropolitano, separati da una linea del colore che alimenta le più feroci forme di razzismo. Nessuno possiede ed è in grado di praticare le soluzioni ai problemi discussi nell’intervista, tuttavia il nostro ospite ci offre un’importante indicazione: solo la forza delle lotte riesce a rendere appetibile la pratica della ricomposizione e a spezzare la linea del colore. Al contrario tutte le altre forme liberali di antirazzismo non fanno che confermare, anche se con un segno diverso, quella separazione che rappresenta il nostro principale problema politico. Con questa intervista inauguriamo, insieme alla sezione «vortex», un piccolo dossier sulla Francia in vista del dibattito con Louisa Yousfi, Houria Bouteldja e lo stesso Atanasio Bugliari Goggia, che si terrà a Bologna il 22 Settembre all’interno del «Festival Kritik 00» organizzato da Punto Input, Machina e DeriveApprodi.

da Machina

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In altre interviste hai offerto una spiegazione delle rivolte inserendole nel quadro di crisi economica e sociale che ormai attanaglia da diversi lustri tutta l’Europa. È possibile individuare altri elementi che ci aiutino a comprendere il fenomeno? Ad esempio il tema dell’integrazione mi sembra un aspetto centrale, soprattutto in un paese come la Francia dove, tra le altre cose, esiste il diritto di suolo. Cosa ne pensi?

Le interpretazioni a cui hai accennato sembrano molto scontate in effetti, ma non lo sono per tutti. Queste rivolte sono certamente una risposta contro la crisi. Tuttavia, l’interpretazione economicista può essere problematizzata. Per restare al tema dell’integrazione, ritengo che in queste rivolte non ci sia tanto una richiesta di integrazione quanto una critica materiale all’uso distorto che le istituzioni fanno di questo vero e proprio «dispositivo». I giovani che hanno animato le sommosse di giugno hanno seguito tutto il percorso previsto per sentirsi integrati: sono nati in Francia, hanno frequentato le scuole francesi, i loro nonni e genitori hanno reso ricca la Francia nei «Trenta gloriosi» e ora tengono in piedi il paese svolgendo i lavori peggiori e mal pagati, gli stage gratuiti e così via, ma hanno la consapevolezza che quell’integrazione li ha collocati in una posizione inferiore sottoponendoli a forme di esclusione e di controllo micidiali, per via del colore della loro pelle e della loro origine. Per un giovane arabo o nero il rischio di essere ammazzato, come purtroppo la cronaca non smette di mostrarci, o «semplicemente» fermato dalla polizia è molto più alto rispetto al rischio di un cittadino medio bianco. Quindi è fuor di dubbio che la popolazione araba e nera sia oggetto di un sistema di dominio razziale e coloniale. Pertanto, il carattere anti-coloniale di queste rivolte è evidente ed è molto difficile non condividere la lettura fanoniana che fanno i/le militanti di banlieue. Tuttavia, se assumiamo un punto di vista di classe, possiamo dire che si è poveri perché si è neri e si è neri perché si è poveri. La povertà infatti scurisce anche la pelle dei bianchi che vivono in periferia. Questi dispositivi di potere coloniale, potentissimi e forse unici in Europa, vengono sempre più facilmente applicati anche in altri ambiti sociali e contro altri frammenti di composizione, che magari prima ne erano immuni per via del censo e dell’assegnazione territoriale. Basti pensare in tal senso alla repressione cui sono andati incontro movimenti come quello dei «Gilets Jaunes» o quello che si è opposto alla riforma delle pensioni, fino al movimento che ritengo più interessante, quello di «Soulèvements de la Terre». L’approfondirsi della crisi economica ha determinato dunque un riallineamento dei movimenti di città e del movimento di banlieue in termini di dispositivi di controllo e repressione di stampo coloniale cui sono sottoposti. Ciò a dimostrazione che la tesi fanoniana che assegna tanto alla classe che alla razza una funzione strutturale in contrasto con le interpretazioni che indicano la seconda come semplice sovrastruttura, contiene più di un germe di verità. Si tratta, del resto, dell’interpretazione prevalente tra i collettivi e gruppi di banlieue. Questo riallineamento nei dispositivi di controllo può inoltre favorire a mio avviso – cosa che già si è intravista negli ultimi anni – un riavvicinamento tra il movimento di banlieue e i movimenti di città.

Qual è il rapporto tra movimenti di città e movimento di banlieue?

Per rispondere a questa domanda per ora non faccio una distinzione tra i gruppi organizzati di periferia e la composizione giovanile delle banlieue che si muove in gran parte attraverso modalità che definisco nei termini di «affinità senza egemonia», pur sapendo che sono due realtà diverse e distinte, seppure accomunate da forme di solidarietà e trasmissione del sapere delle lotte che le pongono in una linea di continuità politica e «ideale». Detto questo, in generale il primo dato da registrare è il rifiuto di tutto ciò che proviene dall’esterno della banlieue ed ha un’impronta istituzionale, dai partiti di sinistra ai sindacati, fino alle organizzazioni di sinistra radicale. Si tratta di un rifiuto che ha radici storiche, che vanno dal mancato sostegno alle lotte di liberazione alla scarsissima considerazione da parte dei sindacati delle esigenze della frazione immigrata della classe operaia, fino al paternalismo assoluto con cui negli anni Ottanta il Partito socialista guidato da un personaggio del calibro di Mitterand cercò di addomesticare, perché non si poteva più fare finta di nulla, un nascente movimento di banlieue dalle rivendicazioni precise. Nonostante i tentativi di cooptazione – alcuni riusciti e utilizzati con lo scopo di dimostrare che c’è lo spazio per l’emancipazione individuale dalle condizioni di vita della banlieue all’interno dell’assetto repubblicano – questo rifiuto resta maggioritario. Anche le dichiarazioni di Mélenchon non credo che basteranno a colmare questo divario, perché hanno un fondo di ambiguità: al di là della solidarietà per l’esecuzione di Nahel, non toccano il problema principale, quello dell’uso delle armi in caso di rifiuto di ottemperare e, nodo più generale, il ruolo sempre più politico delle forze di polizia, ormai un vero e proprio potere autonomo e indipendente dentro l’assetto istituzionale d’Oltralpe. Per queste ragioni penso che non ci sia alcuna possibilità di dialogo. Questa frattura riguarda anche la relazione con quelli che chiamo movimenti di città, che si è solo parzialmente ricomposta negli ultimi anni a partire dal movimento dei «Gilets Jaunes». Una delle ragioni di questo divario, secondo me, riguarda la diversa appartenenza di classe, per cui ad esempio la composizione dei movimenti di città percepisce i problemi legati al lavoro nella forma di una mancata realizzazione e non come un problema di sopravvivenza pura come invece accade alla composizione del movimento di banlieue. Per fare un esempio un po’ datato: il movimento contro la riforma del Cpe (il contratto di primo impiego) non è riuscito a coinvolgere la banlieue perché sebbene questa legge introducesse una radicale precarizzazione del mercato del lavoro, dalla banlieue era vista in termini quasi positivi perché migliorava le loro possibilità di accesso all’impiego, senza modificarne la sostanza: infatti per il giovane banlieusard già da anni il mercato del lavoro assumeva i tratti della flessibilità e della precarietà. Tuttavia l’impoverimento provocato dalla crisi che ha spinto molti residenti di città nello stesso cono d’ombra del proletariato e sottoproletariato che risiede in banlieue, unito all’escalation repressiva dello Stato contro i movimenti di città, ha certamente prodotto un riavvicinamento tra i due pezzi di composizione, sia dal punto di vista delle condizioni di vita che delle modalità dell’azione politica e dello stare in piazza. In questo senso, il movimento dei «Gilets Jaunes» ha rappresentato un importante spartiacque. Ad esempio, i saccheggi che abbiamo visto nella rivolta di questa estate non erano presenti nei tumulti del 2005 e a mio avviso sono una pratica che deve molto ai movimenti di città, sono certamente il risultato dell’imitazione delle pratiche dei gruppi organizzati della sinistra radicale di città. Il riavvicinamento sul piano dell’appartenenza di classe non si traduce però in un riavvicinamento politico. Questo però è un problema che, come dicevo, ha radici storiche molto profonde. Per fare un ultimo esempio: la parola religiosa, molto presente nelle istanze politiche della banlieue, è sempre stata vista con diffidenza dalle organizzazioni politiche legate al movimento di città e questo ha contribuito e contribuisce a consolidare la frattura.

Mi sembra molto importante quanto hai detto in merito al rapporto tra i movimenti di banlieue e i «Gilets Jaunes». Puoi approfondire questo punto?

Il movimento dei «Gilets Jaunes» ha certamente rappresentato un importante punto di svolta nel rapporto tra il movimento di banlieue e i movimenti di città. In primo luogo perché, come dicevo, la repressione dello Stato e l’uso violento del potere di polizia che si sono abbattuti su quel movimento sono stati dei fattori di riavvicinamento: il giovane di banlieue ha infatti parzialmente smesso di guardare al militante di città come ad un «privilegiato» anche nei livelli di ferocia repressiva che lo Stato gli riservava. In secondo luogo perché nei «Gilets Jaunes» era assente quel paternalismo tipico dei precedenti movimenti di città e della sinistra comunista e anarchica. Ciò ha reso i «Gilets Jaunes» un movimento più attrattivo per i giovani e i militanti di banlieue, soprattutto in città come Montpellier e Lione. Tuttavia, va detto che questo riavvicinamento non si è verificato in maniera omogenea, perché il movimento dei «Gilets Jaunes» ha avuto delle declinazioni territoriali molto diverse tra loro. In altre città come Parigi, ad esempio, gli elementi interclassisti, l’esclusione della questione razziale, il populismo già in nuce, che poi è esploso nel movimento contro il vaccino e le restrizioni anti covid, hanno invece bloccato la partecipazione della composizione della banlieue e delle sue organizzazioni politiche.

È emblematico che le organizzazioni di sinistra, più inserite nei movimenti di città, rappresentino un ostacolo rispetto alla partecipazione delle soggettività razzializzate provenienti dalla banlieue…

Come dicevo, i movimenti di città si portano dietro non tanto il vizio di una purezza ideologica, che non per forza è un tratto negativo, quanto la pretesa di essere i portatori di una verità politica, anche nei modelli d’azione, che dalla banlieue è sempre stata percepita come una forma di paternalismo «bianco». Durante le rivolte del 2005, questo vizio dai tratti coloniali della sinistra è stato palese. In quella occasione, al contrario di quanto è successo per le rivolte di questa estate, non ci fu molta solidarietà da parte delle organizzazioni politiche della sinistra e anche della sinistra radicale, se non in forma blanda contro la repressione di Stato. Al contrario anche a sinistra era presente un discorso paternalista e moralistico, indistinguibile da quello della destra, che leggeva le rivolte nei termini dispregiativi di una «jacquerie», dunque da una angolatura che etichettava i giovani rivoltosi come privi di qualsivoglia progetto politico, la cui unica reale aspirazione era di accedere alla società dei consumi. Ritengo che sia ancora necessaria una profonda decolonizzazione dello sguardo.

Un tema classico e di primaria importanza è, come sempre, il rapporto tra spontaneità e organizzazione. Cosa puoi dirci in merito?

Il rapporto tra le organizzazioni politiche di banlieue e il pezzo di composizione giovanile che partecipa alle rivolte è abbastanza complesso. Se, per le ragioni che abbiamo visto prima, per le organizzazioni della sinistra e della sinistra radicale è impossibile intervenire in banlieue, anche per le organizzazioni di banlieue, nate tra gli anni Ottanta e Novanta, così come per quelle di più recente formazione, le cose non sono purtroppo semplici, perché vivono da ormai 15/20 anni una crisi molto forte che complica il loro tentativo di politicizzazione delle nuove generazioni. La repressione ha certamente giocato un ruolo determinante nella produzione di questa crisi. Non bisogna dimenticare che accanto all’esercizio quotidiano del potere di polizia, nel periodo successivo al 2010, con Hollande, tutte le organizzazioni che avevano un’impronta «comunitaria» o religiosa sono state dissolte per legge. Dopo l’ondata di attentati terroristici nella seconda metà degli anni Dieci, la risposta repressiva dello Stato ha polarizzato la società e irregimentato le organizzazioni politiche e sindacali dentro un discorso islamofobico, espellendo de jure e de facto dai confini della legittimità politica importanti organizzazioni politiche radicate in banlieue.

A questo quadro bisogna aggiungere la crisi in generale della militanza, che colpisce tutti e che riguarda la banlieue come qualsiasi altro ambito sociale e politico, per cui c’è stato un ricambio intergenerazionale molto basso.

Non si può sostenere che le rivolte siano guidate dalle organizzazioni politiche di banlieue, tuttavia è vero che i militanti di quest’ultime hanno tutti/e avuto un passato da «casseur». Le rivolte, che in periferia sono molto più frequenti di quanto l’attenzione mediatica riesca a cogliere, rappresentano quindi un passaggio fondamentale dei processi di politicizzazione nelle biografie dei giovani di banlieue. La rivolta è a tutti gli effetti, pur con tutti i suoi limiti, uno strumento di lotta del movimento di banlieue.

Nonostante la crisi della militanza e i colpi della repressione le organizzazioni di banlieue sono presenti sul territorio e sono anche molto riconosciute. Per i più giovani, ad esempio, esse sono espressione di una politica che non si è corrotta, che è in grado di portare avanti le istanze della periferia senza vendersi alle istituzioni della Repubblica. Un’organizzazione politica, un’associazione di banlieue rischia di perdere qualsiasi autorevolezza se rinuncia alla propria intransigenza nei confronti della politica istituzionale, anche quando essa consente di accedere a dei fondi che ne consentono la sopravvivenza.

Tuttavia questo forte riconoscimento – non c’è infatti giovane di banlieue che non conosca il nome di qualcuno dei militanti più attivi del Mib o del Pir per esempio – non si traduce automaticamente in un’adesione dei giovani alle organizzazioni militanti, se non in percentuali basse. In parte perché la fatica e l’impegno della militanza, come dicevo, oggi non riscuotono un particolare interesse un po’ ovunque, in parte perché i giovani, pur rispettando il lavoro delle organizzazioni politiche, le attribuiscono il difetto di non aver mai ottenuto dei risultati. Lo spontaneismo che mettono in pratica i giovani di banlieue è quindi uno spontaneismo ragionato, un vero e proprio metodo di lotta. Nel libro chiamo questo modo di agire nelle rivolte «affinità senza egemonia». Con questa categoria intendo indicare il senso di appartenenza ad una stessa collocazione sociale, ad una medesima condizione di sfruttamento, che muove l’azione collettiva delle rivolte, senza però la presenza di un fine ultimo o di un programma politico esplicito ma solo di qualche rivendicazione confusa e magmatica.

Ciò che invece queste organizzazioni politiche riescono a fare molto bene, e che in qualche modo gioca un ruolo nell’esplosione delle rivolte, riguarda la trasmissione della memoria delle lotte anticoloniali, così come di quelle combattute dentro i confini francesi a partire dagli anni Sessanta contro quei dispositivi, allo stesso tempo economici, coloniali e neo-coloniali, che strangolavano la popolazione di origine immigrata (in fabbrica e in miniera, per il diritto all’abitare, contro la «double peine» solo per citarne alcune emblematiche).

Ancora oggi non c’è giovane di banlieue che non abbia consapevolezza della storicità della propria condizione, di quella della propria famiglia e dei propri vicini. Questo lavoro di trasmissione e di riattivazione della memoria è importantissimo perché in Francia c’è un livello di razzismo istituzionale mostruoso, che tradisce un odio repubblicano per questa fetta di popolazione e che vizia enormemente il giudizio ufficiale sul peso del colonialismo nella storia politica della Repubblica. Un lavoro politico, questo dei gruppi organizzati, che contribuisce alla presa di coscienza dei petits. Più in generale, per dar conto di questa «politicizzazione del quotidiano» delle nuove generazioni, nel lavoro utilizzo il concetto di «racconti che girano in banlieue», nel tentativo appunto di far emergere quella capacità degli abitanti di costruire un orizzonte comune attraverso il richiamo ad un passato di lotte e a un presente di sfruttamento.

C’è un tema di cui, in maniera assolutamente comprensibile per questioni di opportunità politica, si parla molto poco ma di cui pure occorre tenere conto se si intende aprire dei processi di ricomposizione. Mi riferisco alle fratture interne alla composizione di classe e ai potenziali conflitti tra suoi segmenti diversi. Per spiegarmi ti faccio un esempio. Durante la rivolta di Los Angeles del ‘92 si verificarono dei saccheggi a danno dei coreani che gestivano esercizi commerciali, mostrando la presenza di un conflitto tra gruppi ugualmente razzializzati. Esiste un fenomeno di questo tipo in banlieue?

Non sono completamente in grado di rispondere a questa domanda. Provo a dare qualche spunto. Sicuramente il parallelo con Los Angeles e con le rivolte negli Stati Uniti in generale è appropriato, in particolare per quest’ultima rivolta. Dentro le banlieue una frattura attiene sicuramente alla bianchezza. Se c’è una separazione questa è con tutto ciò che può essere considerato bianco. Tuttavia nelle rivolte è presente anche una componente di proletariato e sottoproletariato bianco di banlieue, spesso di origine immigrata.

A me sembra di poter dire che la banlieue francese sia abbastanza diversa dal ghetto degli Stati Uniti, in termini di geografia umana. In banlieue infatti è presente una popolazione molto più variegata, elemento che secondo me inibisce la produzione di una frattura tra componenti razzializzate. Gli stessi residenti della banlieue tendono a rivendicare la «mixité» sociale della periferia e a rappresentarla come il luogo di concentrazione della popolazione immigrata e povera piuttosto che come il luogo di una specifica comunità razziale. Il funzionamento di questa diversa geografia umana si vede per esempio osservando le dinamiche della microcriminalità: in Francia il mondo della microcriminalità non si polarizza in base all’appartenenza etnica ma in base all’appartenenza territoriale. Negli Stati Uniti invece la strutturazione in ghetti al loro interno omogenei in termini razziali rende più facile l’espressione di rivalità e violenze inter-razziali. In banlieue le contaminazioni sono forti e reali e gli incontri tra le diverse appartenenze razziali sono meno problematici che negli Stati Uniti anche se, come dicevo, la vera frattura è tra i bianchi e i non bianchi. Perché il bianco residente in banlieue, pur essendo un sottoproletario, viene visto con diffidenza sia perché considerato comunque privilegiato rispetto a chi ha un’appartenenza razziale di origine coloniale, sia perché potrebbe essere ambiguo se non apertamente razzista. La diffidenza quindi è giustificata, ed è dovuta spesso al razzismo dei bianchi proletari. Prima dicevamo di una divisione, anche politica, tra banlieue e città, ma nelle rivolte secondo emerge anche un’altra importante frattura, quella tra la «cité», la parte più povera della banlieue, e ciò che sta fuori, la parte «pavillonaire» dove vive un segmento meglio collocato nella gerarchia capitalistica per tipologia di lavoro e più coinvolto dalle forme di mediazione politica e di riconoscimento istituzionale. È chiaro che nelle rivolte a volte la rabbia si esprime anche contro questo segmento della composizione della banlieue. Ma qui la frattura non è di tipo etnico, quanto più «politica» e riguarda il livello di mediazione con le istituzioni a cui si è avuto accesso. Fatte queste considerazioni di carattere generale, non sono in grado di dire se in questa rivolta ci siano stati dei fenomeni di violenza inter-razziale come è accaduto durante la sommossa di Los Angeles nel ‘92 che ricordavi nella domanda. Detto ciò, i processi di gentrificazione, a cui dedico ampio spazio nel primo dei due volumi pubblicati per ombre corte e che stanno stravolgendo la geografia delle città, secondo molti studiosi avranno come risultato la ghettizzazione etnica, quindi non è escluso che nel medio periodo si delinei uno scenario all’americana.

Queste ultime considerazioni sono molto significative perché oltre ad offrirci un quadro realistico della situazione sociale permettono di definire il profilo di un «antirazzismo di classe» …

La quota di bianchi esplicitamente di destra o fascista in banlieue è molto piccola e si vede pochissimo in forme politiche organizzate, anche perché in Francia l’estrema destra non nasce nelle periferie.

In banlieue esiste un’importante componente di proletariato bianco che partecipa alle rivolte, che sicuramente era presente nelle sommosse del 2005, che si sente ugualmente confinato spazialmente e socialmente, che esprime un forte sentimento anti istituzionale e che tuttavia in qualche caso è in grado di dare adito a forme di xenofobia. Nella rivolta però può trovare l’occasione per contestare le istituzioni della Repubblica. Penso che delle forme di breve e sporadica ricomposizione in circostanze come quella di questa estate si possano verificare. Una ricomposizione che si sviluppa nella materialità della lotta più che sul piano della coscienza. Questo in generale mi sembra il terreno più produttivo dell’antirazzismo. Anche perché l’antirazzismo pedagogico, quello delle buone intenzioni, in Francia, a differenza forse dell’Italia, è completamente integrato nel sistema istituzionale, questo però lascia maggiormente spazio alle organizzazioni che cercano di praticare un antirazzismo che si pone il problema della ricomposizione.

Un altro tema delicato è quello dell’islam e dell’islamismo. In che modo la religione ha un rapporto con la politica in banlieue?

La questione dell’islamismo in rapporto con la politica può essere articolata su tre livelli. Al primo livello troviamo un islam che svolge una funzione consolatrice e prende piede nella misura in cui viene meno una prospettiva politica di emancipazione. È un Islam che conduce al ripiegamento nel privato, che si occupa, come tutte le religioni, dello spirito. Questo è l’islam che viene «coccolato» dallo Stato perché, nella misura in cui spoliticizza, è uno strumento di governo. Viene utilizzato contro le organizzazioni di ispirazione religiosa, quindi non propriamente religiose, che si fanno portatrici di un messaggio politico come il «Cri», che rappresentano il secondo livello. Contro di esse la laicità e l’islamofobia vengono utilizzate dallo Stato per gettare discredito sulle istanze politiche che provengono dalle periferie e sulle organizzazioni di banlieue. Infine sul terzo livello troviamo l’islam politico che proviene da fuori la Francia, come quello delle Primavere arabe, oppure quello legato alla questione palestinese che ha un’influenza fortissima sui e sulle militanti di banlieue e sui giovani perché rappresenta una fonte immediata di riconoscimento, un esempio iconico di lotta anticoloniale in un territorio specifico. Infine va detto che queste dimensioni dell’islam non hanno nulla a che vedere con il jihadismo, che semmai è il rovescio della medaglia dell’islam con funzione consolatrice e come quest’ultimo può avere una presa nella misura in cui arretrano le prospettive di emancipazione e le organizzazioni che se ne fanno carico che poi sono quelle che maggiormente vengono colpite dallo Stato.

* * *

Atanasio Bugliari Goggia si occupa di temi relativi al mutamento sociale metropolitano, con particolare attenzione alle dinamiche di opposizione organizzata e alle tecniche di controllo sociale all’interno dei contesti urbani. Attraverso il metodo etnografico, con l’ausilio dell’osservazione partecipante e delle storie di vita, ha indagato le realtà antagoniste di Torino, Bologna, Parigi e Montpellier. Servendosi della tradizione orale e delle fonti d’archivio e giudiziarie, ha condotto ricerche sulle morti da amianto in Italia e Svizzera e sull’emigrazione italiana in Svizzera. Ha pubblicato per i tipi di Ombrecorte Rosso banlieue. Etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi (2022) e La santa canaglia. Etnografia dei militanti politici di banlieue (2023).

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