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Intifadah a Jenin tra martirio e memoria

Il Freedom Theater è divenuto famoso per l’uccisione, nel 2011, del fondatore Giuliano Mer-Khamis da parte di un uomo mascherato, proprio di fronte all’ingresso del teatro. “Giuliano era alla ricerca della sua identità – ci spiega Omar – era israeliano ed ebreo, ma si opponeva all’occupazione e alla politica delle colonie”. È sempre esistito un dibattito a Jenin, ci spiega, sull’idea da cui il teatro prende il nome. I palestinesi si chiedono: che cos’è la libertà? “Per alcuni di noi il teatro può essere libertà, ma per altri l’arte, la recitazione o la musica sono attività che dovrebbero essere bandite per un divieto di carattere religioso”. Habeer, che parla al suo fianco, milita da sempre nella sinistra vicina al Fronte Popolare, e spiega l’attività del suo comitato per favorire la partecipazione delle donne alla vita pubblica. Anche lei, come tutti qui, supporta l’Intifadah (“unica risposta possibile ai fallimenti della classe dirigente”) e racconta a sua volta di esser stata in prigione, per la prima volta a 16 anni.

Incontriamo Saba, una giornalista che ci accompagna nella sede di Nas Fm, che significa “radio del popolo”. Siede ai microfoni per lanciare le ultime news e il suo caporedattore, Mahmud, ci racconta delle pressioni che la radio riceve da Israele: per prenderlo in giro, hanno minacciato di ritirare la licenza perché le frequenze disturberebbero… gli atterraggi all’areoporto di Tel Aviv (a centinaia di chilometri di distanza)! È arrivata anche la lettera ufficiale delle forze armate, che invitano la radio a smettere di dare notizie chiamando l’uccisione di militari israeliani “esecuzioni”. “Per noi è un termine neutro e asettico, ma per Israele è apologia della lotta armata. Il fatto è che la nuova rivolta non è portata avanti da cellule organizzate e dai partiti, quindi Israele non riesce a individuare un nemico, e si concentra sui media palestinesi con censure, oscuramenti e arresti”.

Mahmud non è un “radicale”: è stato vicino alle liste universitarie di Fatah, quando era studente, e non ha perso questo genere di simpatia. Lo stesso vale per Saba, che si lamenta della sinistra palestinese: “Condannano sempre gli accordi di Oslo in modo veemente, ma quel processo, a suo tempo, è stato necessario”. Il padre, funzionario dell’Autorità Palestinese, e la madre, insegnante, si associano mentre ci offrono un té nella loro gradevole abitazione da classe media. Mahmud aggiunge anche che Abu Mazen, attuale criticatissimo presidente, è in realtà un profondo conoscitore del movimento e dell’ideologia sionista, così come di Israele, che ha studiato per decenni. “Persino i media israeliani lo temono – sostiene – perché sanno che lui è in grado di capire come pensano i nostri nemici, e di prevenirne le loro mosse”. La trattativa che condusse a Oslo fu, ci spiega, una mossa inevitabile: dopo l’invasione israeliana del Libano nel 1982 e la fuga dell’Olp a Tunisi, e dopo il crollo dell’Urss nel 1991, la dirigenza palestinese si era trovata di fronte a un vicolo cieco.

Saba ci conduce al campo profughi della città, tristemente celebre, come la città vecchia di Nablus, per esser stato raso al suolo dall’esercito durante la seconda Intifadah, nel 2002. Al suo ingresso campeggia enorme uno striscione con la fotografia di Saddam Hussein: “Per tutti noi è un eroe” afferma Mustafa. Le strade sporche e dissestate, i vicoletti stretti, le abitazioni povere affiancano le pareti di cui si riconosce il carattere maggiormente recente: sono quelle delle abitazioni ricostruite dopo il massacro di quattordici anni fa. “La mia famiglia abitava qui allora – racconta Saba – ma mio padre non voleva che ci spostassimo, nonostante i bombardamenti”. Era arrivato nel campo da bambino, quando nel 1948 Israele aveva cacciato lui e i suoi genitori dal villaggio di Zereen, che è oggi inglobato nello stato ebraico, oltre la linea verde, a pochi chilometri di distanza.

Ci conduce, assieme a due dei suoi figli, sulle alture che separano Jenin da Nablus; da esse si vede, più in basso, il limite della Cisgiordania e il mare, con in mezzo Akko, Haifa e Tel Aviv. “Possiamo vedere benissimo Zareen da qui, ma non possiamo tornarci. Per molti palestinesi è emozionante venire qui e vedere il mare: immaginare di raggiungerlo è un sogno”. “La vostra casa è adesso abiatata da israeliani?” chiediamo. Ride: “E’ stata distrutta”. Mahmud spiega che la sua famiglia era originaria della città vecchia di Haifa. Assume un tono grave: “Dovete capire che per noi la famiglia è una cosa importante. In essa esitono relazioni che occorre tutelare, e se una famiglia subisce un torto non si rivolge alla polizia, perché permangono le riparazioni secondo la legge d’onore”. Per lui è un problema grave che parte della famiglia viva ora oltre la linea verde. “Qualsiasi cosa succeda io sono qui, loro là. In mezzo ci sono il Muro, le misure di sicurezza, i check point. Per me è un problema anche solo visitare mia sorella”.

Nel 2002 la famiglia di Saba ha deciso di abbandonare il campo profughi quando l’esercito ha seppellito sotto le macerie un ragazzo disabile che, non potendo muoversi, era rimasto intrappolato nella sua abitazione. Anche il loro zio era disabile, quindi il padre ha ordinato alla famiglia di mettersi in cammino lungo le vie del campo colpite dai bombardamenti, per raggiungere la città. “Avevo dodici anni – racconta – non è stato facile. La cosa peggiore è stato passare, da bambina, in mezzo a tutti i cadaveri che giacevano a terra mutilati, carbonizzati”. In quei giorni Jenin, come Nablus, offrirono all’umanità l’esempio di una resistenza incredibile. Sharon aveva lanciato l’offensiva contro le due città più restie ad arrendersi al suo potere, e il ricercato numero uno si chiamava Said. Sua madre, un’imponente anziana signora, palesemente non è più in grado di sorridere. Il suo nome è Hurrya, che in arabo significa “Libertà”.

Said era ricercato dall’esercito per la sua attività nella resistenza: si nascose per due settimane in uno scantinato con altre dodici persone, finché la mezzaluna rossa non lo trasse in salvo, e lui sparì di nuovo. “Venivano a distruggere la nostra casa tutte le notti verso le due. Entravano e urlavano, spaccavano tutto. Poi hanno arrestato mio figlio Mohamed, per fare pressioni su Said, perché si consegnasse”. “Un giorno hanno posizionato due carri armati ai lati della casa e hanno sparato gas lacrimogeno dalle bocche dei cannoni dentro la casa, attraverso la finestra e la porta devastate”.

Allora Hurriya e i suoi figli, tra cui un neonato di sei mesi, si rifugiarono in un’abitazione abbandonata a curare le ferite, ma nessuno riusciva a raggiungerli. Il 31 ottobre l’esercito demolì la loro casa, ormai disabitata. Said venne individuato a casa dello zio ma riuscì ancora a dileguarsi, fuggì a Kabatiya, poi a Haraka, dove si nascose in uno scantinato. Dopo alcuni giorni, venne arrestato assieme a una dozzina di altri combattenti in seguito alla soffiata di una spia.

Il fratello più piccolo di Said, Ahmed, entrò allora nella resistenza e venne ucciso quattro anni dopo, nel 2006. A un altro fratello, Islam, venne vietato di visitare Said in carcere. Islam era un impegato del consiglio della Sharia di Jenin, un’istituzione presente in tutte le città musulmane. Nel 2013, all’improvviso, l’esercito circondò e attaccò nuovamente, dopo undici anni, la casa di Hurriya, e i soldati che vi fecero irruzione picchiarono selvaggiamente i suoi figli, mostrando loro la foto di Islam. Alcuni soldati salirono sul tetto, lo trovarono e lo uccisero, ancora intontito dal sonno. Ancora oggi nessuno sa, nel campo, perché Islam sia stato ucciso. Anche sua madre ne è ignara. Ha allevato, in questi anni, da sola dieci figli (suo marito è morto vent’anni fa): due di essi sono morti, cinque sono in prigione. Il nipotino, un bimbo piccolissimo, si aggira per la casa mentre ascoltiamo la sua storia, ignaro forse – o forse no – di che vita lo attende.

Quest’autunno, allo scoppio dell’Intifadah, un ragazzo di nome Ahmed è partito da Jenin per accoltellare un soldato israeliano, al check point, ed è stato ucciso prima che potesse ferirlo. In città ci hanno raccontato che per settimane gli amici di Ahmed hanno discusso di cosa fare per vendicare il loro coetaneo. Alla fine tre di loro sono partiti per Gerusalemme, per entrare nella città vecchia e vendicarlo sotto la moschea di al-Aqsa. Come hanno potuto passare tutti quei controlli, tutti quei check point, con pistole e coltelli, si chiedono i media israeliani? C’è chi ha ipotizzato un appoggio a Gerusalemme. A Jenin non ne sono convinti: “Avranno scavalcato il muro e poi saranno arrivati alla città santa. Scavalcare il muro non è impossibile: in tanti lo fanno durante il Ramadan, per andare a pregare alla spianata delle moschee”. Arrivati alla porta di Damasco, fermati per un controllo, hanno ucciso la soldatessa e ferito una sua collega, prima di essere crivellati tutti e tre in mezzo alla folla di residenti e turisti; il mondo ha altri tre terroristi morti, Jenin tre martiri in più.

Dai corrispondenti di Infoaut e Radio Onda d’Urto a Jenin, 16 Febbraio 2016

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