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Io Boeri, lui Poletti, siamo in società…

La realtà è che sulla questione del lavoro si gioca una partita narrativa sempre più complessa, dove i dati vengono oscurati o diffusi a seconda delle necessità politiche. Ad esempio i dati sulla disoccupazione non scendono in alcun modo, nonostante le panzane del governo e dei media; le uniche avvisaglie di ripresa del mercato del lavoro sono derivate dai dati “drogati” dagli incentivi alle assunzioni assicurate dal JobsAct, che riguardano solo le grandi aziende, che attraverso il licenziamento facile mettono incertezza sui consumi, bloccando la ripresa economica di lungo periodo, che produrranno solamente una bolla alimentata fino a quando si vorrano mettere quattrini nel fondo ad hoc.

Cresce intanto il numero degli inoccupati, ovvero di chi ha smesso di cercare lavoro perchè è sicuro di non riuscire a trovarlo: è questo il vero termometro del mercato del lavoro, un dato non a caso sempre meno diffuso nelle tabelle dei talk show che devono anch’essi necessariamente orientarsi alla lotta contro i gufi del ducetto toscano.

Verrebbe da chiedersi: ma di quale lavoro stanno parlando il gatto e la volpe? Di quello precario, dove i contributi sono inesistenti? Di quello a chiamata? Del cottimo tanto amato dall’ex presidente di Legacoop? Dell’indeterminato a tutele crescenti e a licenziamenti costanti? Questo “lavoro” assume sempre più una impronta mitologica, un santo graal cosi difficile da trovare che una volta acchiappato diventa comportamento inaccettabile lamentarsi delle condizioni a cui questo si svolge, perfino quando ad esempio il sempre più diffuso meccanismo del voucher configura meccanismi di vera e propria rapina nei confronti del lavoratore.

L’azione di Poletti e Boeri sembra sempre più allora essere incentrata su un’intenzione pedagogica, con la volontà di ridisegnare le formae mentis al fine di abituarle ad una realtà dove non esiste alcun diritto acquisito e dove ogni retaggio di welfare deve essere demonizzato (Poletti) o reso una totale chimera (Boeri).  A tutto questo fa da cornice la narrazione dell’ottimismo renziano, con il mantra dell’dell’”uno su mille ce la farà” che ha sempre più centralità, spostando sul piano della competizione e della meritocrazia un atteggiamento che dovrebbe necessariamente, per le condizioni in cui siamo, essere dominato da solidarietà e rivendicazione collettiva.

L’obiettivo è spingere sempre di più in basso i livelli di accettazione dello sfruttamento, intensificare sin dalla più tenera età (a che serve la laurea?) la disponibilità a piegare la testa,  in una dinamica dove il dispositivo dell’economia della promessa si ri-disegna ogni volta abbassando via via lo standard del contenuto definitivo di quella promessa.

All’azione istituzionale si aggiunge poi quella mediatica, con personaggi dello squallore di Gramellini che inneggiano alla necessità da parte dei giovani, dei trentenni di impegnarsi, di ribellarsi per cambiare lo stato di cose “catatonico” (ma cosa diceva la Stampa di Expo?) . Il solito appello paternalistico che poi però contemporaneamente dà a Boeri del galantuomo, per aver sollevato il problema a differenza di altri personaggi che in passato avevamo “sepolto” la questione..come se avessimo bisogno di queste nuove dichiarazioni per capire che il futuro di milioni di persone coinciderà con un costante sfruttamento fino alla tomba!

Sul piano economico complessivo, la volontà sottostante a tutto questo bailamme di dichiarazioni è quella di americanizzare –  nell’approccio neoliberista più sfrenato – il sistema delle prestazioni sociali (dalla sanità, alla scuola, ora le pensioni). La svendita e la dequalificazione di questi ambiti si lega a doppio filo all’avanzare del sistema della previdenza privata e della riconfigurazione del welfare su basi censitarie, dove – ancora una volta – saranno soltanto i garantiti/solvibili del blocco sociale renziano a poter galleggiare mentre l’enorme racaille che compone il proletariato giovanile e migrante dovrà arrangiarsi in qualche modo per sopravvivere.

Ad ogni modo, l’idea di lavorare più a lungo in relazione all’aumento della speranza di vita cozzerà necessariamente con le realtà di esistenze senza dubbio meno agiate di quelle della generazione precedente. Saremo curiosi di vedere se quando l’aspettativa di vita di una generazione sempre più segnata da stress, precarietà, alimentazione nociva e via di questo passo, ci sarà una corrispettiva riduzione dell’età del congedo..ma non abbiamo molta fiducia in questo. Si pone la necessità di capire come intercettare il malcontento diffuso che già ora agita i nostri quartieri, le nostre periferie..è necessario attrezzarci per farlo!

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