Israele: voci dai margini di una società in guerra
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Simone arriva da Milano, mangia un panino all’aeroporto di Tel Aviv. Ha gli occhi illuminati dall’inizio dell’ennesimo viaggio in Israele. “Sono stato qui già in passato, per un anno, per un’immersione nella spiritualità” racconta entusiasta, decantando le lodi di questa nazione controversa. Persino la natura del deserto del Neghev e la cucina di Tel Aviv concorrono a creare una sorta di paradiso nel suo immaginario, ma quando gli chiediamo se apprezza anche la cucina “fusion” (misto di sapori ebraici e arabi che i palestinesi hanno inventato in una delle loro poche enclave culturali in Israele, Nazareth) si irrigidisce: il suo entusiasmo svanisce, e il suo commento non è che una smorfia di disprezzo.
Anche Marco, a sua volta di famiglia ebraica, è convinto che nulla, in Israele, possa far pensare a un’istituzione problematica. Si era trasferito per i suoi studi di master, poi è riuscito a creare qui una start-up e ha deciso di lasciare l’Italia. “Gerusalemme è una città splendida, basta soltanto fare attenzione. Se stai all’occhio, e se sai dove andare e dove non andare, sei al sicuro”. Forse a questo senso di sicurezza contribuiscono anche i soldati che alla Porta di Damasco, all’ingresso della città vecchia, puntano immancabilmente i fucili alla testa di tutti i passanti arabi, come per sondare le loro reazioni; o quelli che, su David street, tra quartiere musulmano e quartiere cristiano, si aggirano tra le bancarelle del Suq rivolgendo frasi sarcastiche a passanti intenti a farsi gli affari propri.
In un recente sondaggio attuato dagli istituti di statistica, tanto per cominciare, il rapporto con “gli arabi” (così Israele nomina i palestinesi) risulta, nella lista delle materie considerate predominanti dagli israeliani per orientare il proprio voto, all’undicesimo posto. Dieci anni di Mahmud Abbas hanno reso il conflitto, in qualche modo, un fenomeno non più attuale o preoccupante, se non fosse per la nuova ondata degli ultimi mesi, nata dall’esasperazione per i risultati degli accordi di Oslo. Non tutti, però, condividono questa indifferenza. Venerdì scorso a Tel Aviv, in uno degli Hangar che conducono al porto, ha avuto luogo il “Blacklisted Party”, una festa organizzata dalle ONG israeliane sotto attacco da parte della destra (di governo e non) per le loro critiche all’occupazione dei territori. Un evento che ha avuto per protagonisti, tra l’altro, artisti e celebrità recentemente accusati di “estraneità” alla società israeliana (benché cittadini ebrei a tutti gli effetti) per i loro commenti sul conflitto con i palestinesi.
“Stiamo subendo un attacco senza precedenti” spiega Yuli Novak, direttrice di Breaking the Silence, associazione di ex soldati dell’IDF (Israel Defence Forces) che intendono denunciare gli abusi dell’esercito in cui hanno servito. “I parlamentari di destra e i coloni hanno orchestrato una campagna diffamatoria sostenendo che siamo agenti stranieri, finanziati da chissà quali poteri esterni a Israele, e il parlamento ha approvato una ‘Legge per la trasparenza’ che con la trasparenza non ha nulla a che fare, ma ci obbliga a rendere pubblica l’origine dei finanziamenti che ci permettono di sopravvivere. Non è che una forma di delegittimazione mediatica, di stigmatizzazione pubblica: non abbiamo mai avuto nulla da nascondere”. Di certo, aggiunge, di trasparenza non possono parlare gli stessi gruppi di coloni che hanno infiltrato nei mesi scorsi la sua organizzazione, registrando conversazioni, spiando mail e filmando riunioni con telecamere nascoste, dopo essere stati addestrati per questo dallo Shin Beth, il servizio segreto israeliano (il caso è pure finito in televisione).
“Rompiamo il silenzio per far comprendere all’opinione pubblica quanto la realtà dell’occupazione sia diversa da quel che viene raccontato dai media” spiega Nadav Weiman, ex cecchino presente alla conferenza per portare la sua testimonianza. “Dopo un addestramento di un anno e mezzo [Il servizio militare obbligatorio dura in Israele tre anni per gli uomini e due per le donne, Ndr] siamo stati gettati in una situazione completamente diversa da quella che ci avevano prospettato. Le operazioni in Cisgiordania non consistevano in alcun modo nel proteggere la sicurezza della popolazione israeliana, ma in una difesa armata delle colonie e nell’intimidazione generalizzata di quella palestinese”. Uno dei loro principali compiti è stato, a Jenin o a Nablus, fare continue irruzioni notturne nelle case delle famiglie palestinesi fingendo di cercare qualcuno, con l’unico obiettivo di instillare continua angoscia in quelle persone.
Dani Filc è co-direttore di “Physicians for human rights”, è un medico nato e vissuto in Israele che, oltre a battersi per il diritto all’assistenza sanitaria dei migranti che giungono in Israele da Eritrea e Sudan, raggiungendo l’unico paese benestante in cui è possibile recarsi via terra, offre assistenza sanitaria ai palestinesi in caso di conflitto. La sua ONG si coordina con le istituzioni sanitarie della Cisgiordania e di Gaza, e contribuisce alla cura di malati e feriti gravi. Gli chiediamo come è stato accolto dalla popolazione di quelle aree, considerato che i media occidentali descrivono i palestinesi come gente semplicemente affetta da antisemitismo ossessivo: “Non ho mai percepito nulla del genere. Non dico che non ci possano essere fenomeni di antisemitismo come ovunque, ma io non ne ho mai incontrati. In ogni caso, è evidente che non è questa la ragione del conflitto. La ragione dell’ostilità verso Israele è l’occupazione”.
Le posizioni si fanno più problematiche quando si passa dall’assistenza, o dalla testimonianza, alle questioni di prospettiva. Nena Patrick è direttrice di Yesh Din, Ong che si propone di difendere i diritti umani verificando che la legge israeliana e internazionale sia “rispettata” nei territori occupati. Si rifiuta di considerare illegale l’occupazione, però, perché “è stata riconosciuta da una risoluzione delle Nazioni Unite” e ritiene illegale, semmai, la forma e la durata che ha assunto. Anat Ben Nun, responsabile delle relazioni internazionali di Peace Now, rivendica il sionismo della sua organizzazione (benché “diverso da quello della destra”) e, alla domanda circa il diritto al ritorno dei profughi e la liberazione dei prigionieri palestinesi confessa di non voler prendere una posizione, affermando: “Non siamo un’organizzazione politica [sic]. Nostro obiettivo è la pace, la ripresa dei negoziati”. Facciamo notare che i negoziati sono stati lo strumento per incrementare la colonizzazione. Non lo nega, ma ritiene che in ogni caso, un po’ inspiegabilmente, tutto dipenda dalla loro riattivazione. “Non ci sono altre soluzioni se non da un processo di pace”.
(foto presa dal web) Un’attivista di Combatants for Peace, organizzazione che unisce “ex combattenti palestinesi e israeliani” in un “cammino verso la non violenza” si spinge anche oltre: “Cerchiamo di convincere tanto i soldati israeliano quanto i militanti e i prigionieri palestinesi ad abbandonare le armi, in favore di mobilitazioni non violente che portino finalmente la pace”. Alla domanda se per lei venga prima il rifiuto della violenza o l’autodeterminazione del popolo palestinese, rifiuta di ammettere che possa sussistere una contrapposizione tra le due cose, per poi affrettarsi a fotografare il tesserino di chi ha posto la domanda – con ambigua concitazione. Tania Hari, responsabile di Gisha, “organizzazione per la libertà di movimento”, spiega come la sua organizzazione di opponga agli abusi che gli abitanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza subiscono quando devono attraversare i Check Point, e si dichiara favorevole tanto alla fine dell’occupazione quanto alla creazione di uno stato palestinese; ma alla domanda sulla necessità di un processo di resistenza per raggiungere un simile obiettivo, è “costretta” ad arrestare gli entusiasmi: “Non posso rispondere a una simile domanda”.
Anche al netto di una candidezza che sconfina nell’ipocrisia, sembra esistano ampi limiti al dibattito e alla concreta possibilità di espressione in quella che alcuni si ostinano a chiamare ”unica democrazia del medio oriente”; e se tutta l’iniziativa è stata vivacizzata da una signora che sbraitava accanto ai cancelli, mostrando un cartello con scritto “Infiltrati” e “traditori” (Immaginate la fine che farebbe un palestinese che contestasse o provocasse durante un raduno israeliano), la posizione di Jeff Halper, storico attivista ebreo anti-sionista a Gerusalemme (dove si oppone da decenni alla demolizione di case palestinesi) è perentoria: “Tutte queste Ong che parlano di due stati o di fine dell’occupazione, al di là del ruolo squisitamente di establishment di alcune di loro – come Peace Now – non colgono un aspetto fondamentale: non soltanto la soluzione dei due stati è sepolta da tempo, se mai è stata presa in considerazione, ma sull’intero territorio della Palestina storica esiste già uno stato unico”.
Mezzo secolo di occupazione militare e deportazione burocratica, di colonizzazione continua (mezzo milione di coloni abitano ad oggi in Cisgiordania), di costruzione di autostrade e infrastrutture israeliane nei territori, di instaurazione di Check Point e di completo controllo tecnologico, poliziesco-informativo e militare-amministrativo delle città palestinesi e di Gerusalemme est delineano già una realtà che è di “occupazione” soltanto sotto il profilo formale, poiché è di uno stato unitario (sia pur attraversato da anomalie e conflitti) sotto il profilo della sostanza. “Oggi il movimento palestinese non ha una leadership, e anche le leadership alternative non hanno una proposta politica; ma il futuro della lotta palestinese è quello della metà della popolazione di uno stato unico già esistente e costruito sull’Apartheid, che domina in forma diversificata, ma ovunque incontrastata, la Palestina storica”. Visione triste, forse, ma realistica: gli stessi palestinesi disconoscono qualsiasi autorevolezza all’Anp.
“La futura lotta palestinese e degli israeliani anti-sionisti dovrà trasformare questo stato da istituzione ‘ebraica’ in stato bi-nazionale. Non del tutto diversamente – conclude Halper – da ciò che è avvenuto in Sudafrica”.
dai corrispondenti di Infoaut e Radio Onda d’Urto – Tel Aviv, 8 Febbraio 2016
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