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Kurdistan: dietro le barricate (2) Donne resistenti a Silvan, città sotto assedio

(Continua da Kurdistan: dietro le barricate (1). Combattenti a Silvan, città sotto assedio)

 

Pubblichiamo la seconda puntata del reportage realizzato nei quartieri autodifesi di Silvan alcuni giorni fa, alla vigilia dell’attacco che ha portato ad oggi, nel nono giorno di assedio, a otto morti accertati tra i civili, alla distruzione e all’incendio di interi edifici da parte dell’artiglieria turca, e all’occupazione (notizia di oggi) dell’intera città da parte dell’esercito con carri armati ed elicotteri. Sui muri di Silvan oggi è scritto: “La resa è tradimento. La resistenza conduce alla vittoria”. I militanti che continuano a resistere, e che a tutt’oggi non hanno permesso alle forze turche l’ingresso nelle zone liberate, affermano a ANF News: “Silvan trionferà come Kobane”.

Avvertenza: le foto pubblicate in questa pagina sono reperite sul web e non ritraggono le persone intervistate in questo articolo.

 

I quartieri autodifesi di Kunak e Mescit sono apparsi ai nostri occhi completamente smembrati dagli effetti del conflitto: non soltanto le case patiscono i danni causati dalle armi leggere e pesanti delle forze speciali, ma le strade sono intervallate, ogni dieci metri, da barricate in pietra e fango alte dal metro e mezzo ai tre metri precedute da trincee allagate larghe quanto tutta la strada. Attraversare il quartiere è difficoltoso per qualsiasi mezzo a quattro ruote, anche blindato, e le forze speciali raramente si avventurano a piedi durante gli attacchi. Molti sono stati i poliziotti rimasti uccisi negli scontri, uno soltanto due giorni fa. Circa la metà delle famiglie è stata sfollata dai quartieri sotto attacco ed è ospitata da altre famiglie per decisione del movimento. Continiamo la nostra conversazioni con le ragazze e i ragazzi impegnati nell’autodifesa.

Ragazza2. È una novità resistere in un contesto urbano. La lotta armata, finora, aveva avuto luogo soltanto in montagna. Le città potevano ospitare scontri di altro genere, scontri di piazza; non avevamo mai visto o sentito parlare di cecchini, se non nei film. È tutto molto nuovo, all’inizio ci sembrava qualcosa che poteva aver a che fare con il cinema.

Ci chiediamo se possa esistere qualcosa in comune, sul piano delle esperienze di lotta, tra chi lotta in Europa e chi si batte in Kurdistan. Le circostanze sono molto diverse e ciò che accade qui è incomparabilmente più duro, ma spesso ci rendiamo conto che lottiamo perché siamo oppressi ma stare dietro una barricata in qualche modo ci arricchisce, crea dei legami importanti e cose del genere… Che ne dite?

Ragazzo2. Non saprei…

Signore. Noi qui viviamo cose terribili. Una bambina di nove anni, a Cizre, è stata tenuta nel frigo dalla madre per sette giorni, cadavere, perchè c’era il coprifuoco e non poteva medicarla nè seppellirla. Questo mi fa pensare, ad esempio, che anche mio figlio è nella lotta. Per noi è importante essere insieme, darci forza. Abbiamo portato dietro alle barricate, attorno al fuoco, le nostre donne, i nostri figli; abbiamo chiesto il cibo alle persone che abitavano accanto. Ci diamo potere e fiducia tra vicini di casa, tra famiglie del quartiere. Per esempio l’altro giorno dopo un attacco ci siamo ritrovati tutti intorno al fuoco a cantare. Stare attorno al fuoco per noi è molto importante. Durante questi ultimi mesi di lotta abbiamo cominciato a condividere il cibo coi nostri vicini, chiedere chi ha bisogna di cosa: le barricate ci rendono ancora più solidali, rendono anche una condizione negativa migliore.

Come vedete il vostro futuro immediato?

Signore. La situazione che viviamo non è soltanto dovuta alle imminenti elezioni. Noi sappiamo che saremo qui fino alla fine: quando costruiremo il Kurdistan, quando Ocalan sarà liberato. Ascoltiamo ciò che lui ci dice: quando dirà di fermarci, ci fermeremo.


 

È noto quanto le donne siano importanti nel processo di insubordinazione della popolazione curda, che arriva a coinvolgere ora, in Iraq e in Siria, anche arabi e yazidi, mentre da sempre in Turchia coinvolge anche una parte importante della popolazione armena ed altre minoranze. Le donne portano avanti non soltanto un’opera organizzativa e di guerriglia, ma appaiono spesso come la punta più avanzata delle riflessioni politiche del movimento, la parte che più di ogni altra intende porre l’accento sull’elemento di trasformazione dei rapporti sociali, economici, familiari che interessa questa società in guerra per il cambiamento. Abbiamo rivolto alcune domande a una compagna che presidiava una delle tante postazioni di guardia in uno dei quartieri autodifesi.

Qual è il ruolo delle donne in questa resistenza?

Ciò che cerchiamo di portare avanti è una lotta al femminile, il cui obiettivo è mostrare alle donne cosa possono fare, qual è il loro potenziale. Noi non combattiamo fondamentalmente contro delle persone, ma contro un sistema, il sistema capitalista. Quindi ciò che accade qui non è soltanto da comprendere come uno scontro, perché è anche, al tempo stesso, un modo per conoscere noi stesse ed essere libere, anche in riferimento alla nostra lotta in quanto donne.

Questa lotta ha stimolato la partecipazione femminile?

Abbiamo bisogno di più collettività, di essere insieme e unite per essere un grande movimento. Il nostro impegno politico deve aumentare, ma purtroppo, essendo in guerra, non possiamo muoverci semplicemente come movimento di donne, né possiamo concentrarci soltanto o principalmente sulle questioni delle donne. L’unità è molto importante per il popolo curdo: spieghiamo anche ai bambini,“i nostri piccoli generali”, perché c’è la guerra.

Che rapporto c’è tra lotta contro lo stato turco e lotta delle donne? Qual è il vostro rapporto con la famiglia?

Per noi la famiglia è come un governo. La famiglia usa il capitalismo per tenere le ragazze a casa. Non possiamo essere soddisfatte da ciò che ci danno le nostre famiglie, né possiamo accontentarci. La famiglia usa la scusa del pericolo e della paura per tenere le ragazze a casa e non farle partecipare alla lotta; ma quando il fuoco della libertà arde davvero dentro di te, ti liberi anche da tutto questo.

Che profilo hanno le donne coinvolte in questa resistenza?

Sono sovente studentesse, in particolare, a unirsi alla resistenza.  

Capita che intere famiglie si uniscano alla resistenza in maniera unitaria?

Sì, ci sono famiglie che partecipano collettivamente, non è raro. I bambini, come dicevo, sono a loro volta soldati del Kurdistan, sebbene non partecipino, com’è ovvio, ai combattimenti: anche loro danno il loro contributo anzitutto capendo ciò che accade. Casi frequenti di famiglie che hanno abbracciato insieme la lotta sono rappresentati dai nuclei che si sono spostati insieme dal Bakur al Rojava (Kurdistan occidentale, entro i confini siriani, ndr).

Accade che ci siano problemi tra uomini e donne nella resistenza, ad esempio quando un uomo deve prendere ordini da una donna?

A volte le situazioni possono senz’altro essere difficili quando le donne comandano gli uomini nella resistenza, soprattutto se gli uomini non possiedono un’adeguata preparazione ideologica. Allora facciamo continue assemblee politiche, tutti i giorni, d’altra parte è il nostro stile di lotta: discutere tutto e risolvere i problemi tramite le assemblee. Discutiamo apertamente di tutto e facciamo tutti i passi assieme: quelli giusti e quelli sbagliati.

Abbiamo raccolto pareri contrastanti, durante il nostro viaggio, circa la scelta di dichiarare l’autogoverno dei quartieri in questa fase. Ci sono state ragazze, ad esempio, che nel quartiere di Ofis a Diyarbakir, si sono dette perplesse. Altri compagni della stessa città hanno sostenuto che queste critiche sono motivate da un’appartenenza a una classe sociale più agiata, o alla collocazione in quartieri che non vivono i conflitti più duri. Secondo la tua esperienza, l’appartenenza di classe influenza la partecipazione al movimento di liberazione?

Forse in questa fase è più difficile mettere tutto in comune e condividere ogni aspetto, ma siamo sicuri che questo processo si allargherà a tutta la società. Persino gente che vive relativamente bene, nella comunità curda in Germania, si è unita al Pkk: per noi questo è un segnale. Nel Pkk ci sono medici, avvocati. È una scelta che non è legata alla classe sociale di appartenenza, ma alla convinzione. Non conta per lo più da dove vieni socialmente, ma in cosa credi, se sei convinto che questa società sia ingiusta.

Quanto durerà questa fase di resistenza, secondo te?

Per ciò che riguarda le elezioni del primo Novembre, anche se dovessero mettere i seggi in montagna per ostacolarci, andremo a votare [L’Hdp ha poi superato il 75% dei consensi a Silvan, ndr]. Ora, dopo la fine dell’ultimo coprifuoco, la situazione è un pò più distesa, ma non è escluso che dopo le elezioni la situazione sia diversa e, comunque vadano i risultati, i quartieri debbano essere nuovamente difesi. Se ci saranno provocazioni o attacchi da parte dello stato noi siamo pronti a rispondere. Non è un problema. Ciò che vorremmo che tutti capissero è che se Ocalan venisse liberato, molti problemi sarebbero risolti, anche per il popolo turco e per tutti i poliziotti dello stato che devono venire qui a combattere e magari essere uccisi. Se si trovasse una soluzione politica e gli attacchi cessassero, noi toglieremmo immediatamente le barricate. Del resto se non dovessimo impugnare le armi, saremmo senz’altro tutti più felici.

Come vedi il futuro di questa lotta?

Abbiamo lottato per quarant’anni, ma ora siamo alla fine. Siamo vicini alla rivoluzione. Abbiamo avuto la rivoluzione in Rojava, adesso l’avremo in Bakur.


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