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L’ecologia politica sta nelle lotte della riproduzione sociale

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Pubblichiamo questa interessante intervista ad Emanuele Leonardi, ricercatore all’università di Coimbra, a cura dei collettivi di Ecologia Politica nata nel contesto del Festival Alta Felicità in Val Susa.

 

Le lotte della sfera della riproduzione per una nuova ecologia politica.

L’ultimo anno politico in Italia è stato pieno di imprevisti e improvvisazioni. Non solo l’inversione a destra del polo di potere tra i due partiti di governo, ma anche nuovi problemi come quello del cambiamento climatico si sono imposti sul panorama mediatico e quindi aggiunti negli spot elettorali di vari partiti. Questo è stato l’anno delle grandi piazze che abbiamo attraversato: un Marzo in cui abbiamo incontrato tanti giovani e giovanissimi durante le manifestazioni di Non Una di Meno, Fridays for Future e nella Marcia per il clima e contro le grandi opere inutili. É stato anche l’anno in cui il popolo No Tav della Val Susa ha saputo dimostrare ancora una volta di essere determinato a proseguire l’opposizione alla costruzione del Tav Torino-Lione: una degna risposta agli annunci di Conte, Salvini e del Partito Democratico. Questa situazione ha permesso una nuova fibrillazione nel dibattito politico interno ai movimenti sociali che oggi guardano con maggior interesse a studi che provengono da quell’arcipelago di pensiero che è l’Ecologia Politica.

Questo nuovo filone di ricerca parte dall’idea che il rapporto tra la società e la natura non sia immediato e che il dato ambientale da solo non dica molto: trova una ricchezza di significato invece se messo in relazione alle modalità attraverso le quali le comunità umane e non umane si organizzano per garantire la propria riproduzione attraverso un modo di produzione. Il filtro tra quello che le società danno e ricevono dalla natura è legato al modo di produzione e agli usi e costumi delle società, riprendendo le parole di Emanuele Leonardi dal suo intervento durante l’incontro “Ecologia è Politica”, tenutosi al festival Alta Felicità in Val Susa.

Durante quei giorni in Valle Leonardi ci ha rilasciato un’intervista per approfondire alcuni temi toccati durante il dibattito:

 

1.Cosa intendiamo con lotte della sfera della riproduzione? Perché queste ultime sono sempre più centrali all’interno del contesto politico contemporaneo?

Credo che si debba partire da una distinzione analitica che forse ci aiuta a capire i termini del problema legato alle lotte nella sfera della riproduzione. Per riproduzione, dentro il campo di riflessione della critica dell’economia politica, si possono intendere due concetti – legati, ma piuttosto differenti. Il primo è quello che riguarda la riproduzione allargata del capitale, che ha come oggetto la dinamica di accumulazione e cioè quel processo diacronico che ha come necessità la crescita della base materiale attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro. Il secondo è quel processo sincronico che riguarda la riproduzione della forza-lavoro stessa. La si può chiamare riproduzione sociale: gli elementi che vi contribuiscono sono il lavoro domestico e di cura (nella nostra società svolto prevalentemente dalle donne), il lavoro servile nei Paesi sottoposti a varie forme di colonizzazione, l’estrazione di risorse e lo sversamento di rifiuti nell’ambiente naturale. Tutte queste attività sono considerate dai classici dell’economia politica come infinite e gratuite. È proprio su questi tre campi che si sono generate le lotte femministe, anti-coloniali ed ecologiste, che storicamente si definiscono come lotte nella sfera della riproduzione sociale. Queste hanno come obiettivo quello di far emergere quelle soggettività subalterne che rendono possibili lo sfruttamento capitalistico – per emanciparle dalla condizione di invisibilità impostagli dallo sviluppo capitalistico.

Nella storia del movimento operaio queste lotte sono sempre state centrali: vittorie significative si sono ottenute quando si è data una profonda organicità tra lotte interne alla produzione di plusvalore e lotte interne alla riproduzione di forza-lavoro. Le lotte che si danno al cuore della produzione di plus-valore, che è l’elemento senza il quale il meccanismo capitalistico non può funzionare, né staticamente né dinamicamente, hanno il vantaggio di essere più vicine al punto in cui questo meccanismo di produzione di plus-valore si dà – e quindi potenzialmente a livello sociale più letali per il capitale stesso. Oggi la centralità, anche sociale, delle lotte al punto di riproduzione, sempre crescente, è dovuta al fatto che la produzione di plus-valore tende a essere sempre meno esclusiva della sfera della produzione. I confini tra sfera della produzione e sfera della riproduzione tendono a sfumare – si consideri per esempio la difficoltà a demarcare tempo di vita e tempo di lavoro, oppure l’estrazione di valore dai dati digitali che noi produciamo, al di fuori della forma-salario, che diventa il perno attorno al quale ruota l’economia delle piattaforme. Questo divenire produttivo della riproduzione sociale è la condizione che secondo me segna in modo profondo il nostro contemporaneo. Dunque a fianco alla centralità politica che sempre hanno avuto le lotte della riproduzione si riaggancia una centralità sociale sulla quale occorre non solo ragionare, ma ripensare la convergenza delle lotte in modo tale che il piano non sia più quello di un aggancio tra un centro e una periferia, ma di lotte ugualmente centrali la cui commistione sarebbe letale per lo sviluppo capitalistico.

 

Riprendendo una citazione dal tuo libro “Lavoro, Natura, Valore”, stiamo assistendo a un graduale divorzio tra logica della ricchezza e logica del valore, cosa intendi con questa formula?

Io ho ripreso la dicitura “logica del valore” e “logica delle ricchezze” da André Gorz, che a sua volta la riprende in maniera originale da un famosissimo passaggio della Critica al Programma di Gotha, in cui Marx scrive: “Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza, la natura è tanto la fonte dei valori d’uso, e non consiste di questi la ricchezza materiale, quanto il lavoro che è esso stesso solo l’espressione di una forza naturale della forza lavoro umana”. Qui la distinzione si basa su quelli che sono due concetti chiave in Marx e cioè quello di valore d’uso che poi in qualche modo rimanda alla “distinzione naturale”, cioè al fatto che la molteplicità dei bisogni storicamente dati possono essere soddisfatti in maniere anche molto diverse (quindi quello che è valore d’uso per qualcuno può non esserlo per qualcun altro e generalmente sono società o comunità che attribuiscono questa utilità agli oggetti). L’altro concetto è quello di valore di scambio che invece rimanda alla questione dell’“equivalenza economica” di differenti valori d’uso che soddisfano differenti bisogni storicamente dati. La specificità del modo di produzione capitalistico è che la produzione è subordinata alle necessità del valore di scambio e non alle necessità dei valori d’uso. Quindi se la logica delle ricchezze era quella basata sui valori d’uso, la logica del valore è quella che prende a metro di misura il valore di scambio finalizzato al profitto: in questo contesto, funzionante è quel sistema che produce plusvalore, non quello che soddisfa il più alto numero di bisogni sociali. Quello che cerco di fare nel libro è di mostrare – con Marx – che la logica del valore implica necessariamente la depredazione delle due fonti di ogni ricchezza che, come abbiamo visto nel passo citato precedentemente, sono natura e lavoro e che nel Capitale saranno chiamati “terra” e “lavoratori”. Questa depredazione per una lunga fase della storia del capitalismo ha convissuto con un aumento rilevante delle condizioni di vita di ampi strati della popolazione mondiale – certo in maniera diseguale se guardiamo alla distribuzione sociale e geografica, ma di fatto a mio parere comunque rilevante. Questa sovrapposizione parziale, diseguale e contraddittoria tra logica del valore (quindi depredazione della ricchezza) e logica delle ricchezze, data dal fatto che la scala del capitalismo permettesse in un qualche modo questa ambiguità, viene meno ad opera del ciclo conflittuale che si da a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70. Facendo un riferimento specifico al nostro Paese, è tanto più rilevante questo ciclo conflittuale perché coinvolge sia soggetti della riproduzione e quindi femminismo, lotte anti-coloniali e proto-ecologismo dal basso, sia soggetti che all’interno della sfera della produzione mettono in crisi la forma-salario, perché ci sono alcuni movimenti che si occupano di liberazione del lavoro e altri che si occupano di liberazione dal lavoro. Ora, posto che il problema della convergenza tra questi soggetti è un problema non risolto, che giustifica il fatto che si possa dire che quella stagione di conflitto sia stata sconfitta, va comunque rilevato che quella stagione ha prodotto un mutamento significativo della base di accumulazione capitalistica, come dimostra il divenire produttivo della riproduzione sociale, i processi di finanziarizzazione e in generale l’ampliarsi del grado di socializzazione della produzione e quindi un diverso rapporto tra capitale e conoscenza. In questo nuovo scenario, la parziale sovrapposizione tra logica del valore e logica delle ricchezze cessa di esistere e si arriva a una situazione in cui la logica delle ricchezze – che in qualche modo implicherebbe, essendo basata sui valori d’uso, l’opportunità politica e sociale di manutenere il clima e quindi di cercare strade alla cooperazione sociale che non impattino in maniera così profonda e irreversibile sull’ambiente – ecco, questa logica è oggi del tutto incompatibile con quella del valore. La situazione attuale mi pare restringere profondamente la capacità capitalistica di proporre soluzioni di mediazione, come è stato ad esempio il patto fordista che si basava sul fatto che la crescita avrebbe permesso di distribuire alcuni vantaggi alla base di quella depredazione delle fonti della ricchezza. Oggi bisogna prendere atto di questo divorzio tra logica del valore e logica delle ricchezze e pensare il posizionamento politico dei movimenti, ma anche dei sindacati, alla luce di questa novità che segna il nostro presente e che ci chiede di organizzare i conflitti sulle questioni climatiche, in rapporto con gli altri conflitti, a partire da questa novità.

 

Partendo sempre dalla biforcazione tra ricchezza e valore possiamo rileggere sotto una nuova luce la funzione delle Grandi Opere infrastrutturali. A chi giova la realizzazione di queste ultime?

Sì, credo che la funzione delle grandi opere infrastrutturali muti radicalmente dal momento che non si dà più quella sovrapposizione tra logica del valore e logica delle ricchezze di cui abbiamo parlato in precedenza, perché infatti dentro la versione socialdemocratica dello sviluppo capitalistico, quindi la sua età dell’oro che in Europa occidentale è quella dei “trenta gloriosi” del secondo dopoguerra, l’opera pubblica e quindi dentro questa categoria le grandi opere infrastrutturali supportano un modello produttivo effettivamente funzionante, dall’espansione del quale derivano poi le risorse che permettono le politiche di redistribuzione all’interno di un modello in cui la sfera della produzione crea il plus-valore e poi parte di questo va nelle politiche redistributive. Venuto meno quel modello, la cui crisi è certificata dal crescente divorzio tra logica delle ricchezze e logica del valore, che poi è un altro modo per descrivere il divenire produttivo della sfera della riproduzione sociale, il ruolo delle grandi opere infrastrutturali muta, come ha messo in luce benissimo Sergio Bologna, smette di essere pensato come supporto al modello produttivo industriale effettivamente esistente. Né il modello industriale andato in crisi dagli anni ’80, né tanto meno il modello dei distretti produttivi, che avrebbe poi conosciuto una crisi al passaggio del secolo, derivano nulla da un’opera infrastrutturale come il Tav Torino-Lione. Io credo che sia stato uno dei grandi meriti del movimento No-Tav aver mostrato il perché effettivamente queste grandi opere del tutto inutili continuassero e continuino a essere ritenute indispensabili e prioritarie. Prendendo come riferimento Ivan Cicconi, il cui contributo è stato decisivo, possiamo parlare di “modello Tav” per descrivere quel sistema giuridico-economico che alla fine ha come scopo quello di drenare risorse pubbliche per destinarle ai privati. Come dimostrava Cicconi gli unici a trarre vantaggio da queste opere sono i costruttori stessi e quindi assistiamo a una situazione in cui i costi sono sociali e addebitati alla collettività, mentre i benefici sono esclusivamente privati. In questo senso credo che la questione delle grandi opere inutili sia intimamente legata con la fase specifica di sviluppo capitalistico che stiamo vivendo.

 

I nuovi movimenti politici che hanno riempito le piazze nell’ultimo periodo che ruolo possono giocare all’interno di questo dibattito? Cosa dovrebbero aggiungere alla loro agenda politica?

Credo che i movimenti che abbiamo visto prendersi la scena nel 2019 giochino un ruolo fondamentale in questo dibattito. In questi mesi ho provato a riflettere sia sul mutato ruolo delle grandi opere infrastrutturali sia sul graduale divorzio tra logica del valore e logica delle ricchezze, che stanno alla base da un lato del tentativo capitalistico di internalizzare il vincolo ecologico non come barriera allo sviluppo, ma come volano di una strategia di accumulazione, quella che possiamo definire Green Economy; dall’altro del suo fallimento. Intendo dire che con la riproduzione che diventa produttiva è possibile pensare a forme di cooperazione sociale non lesive dell’ambiente e quindi meno impattanti rispetto alla produzione industriale per come la pensiamo oggi, ma allo stesso tempo tali forme non sono in grado di mettere in moto un processo di sviluppo capitalistico ampio, articolato e auto-propulsivo. Diventa quindi possibile affrontare la crisi ecologica partendo da alcune forme di lavoro, ma per farlo ci si deve porre al di là della centralità del profitto. Questi movimenti sono l’espressione della crisi irreversibile del meccanismo capitalistico della Green Economy che per vent’anni è stato egemone nel del governo del clima nell’ambito della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici dell’ONU. Tutti questi movimenti sono risposte eterogenee a questa crisi e quindi hanno un elemento di antagonismo in comune.

Per venire all’ultima domanda, penso che più che aggiungere qualcosa all’agenda politica di questi movimenti sia interessante approfondire il rapporto tra la questione ecologica e la composizione di classe. Fino a che il capitale ha pensato alla questione ecologica come inerente alla sfera della riproduzione e slegata alla produzione diretta di plus-valore, il rapporto tra ambiente e composizione di classe è stato per così dire “mediato”: la convergenza tra coloro che negli anni ’70 rilevavano i limiti interni, e quindi sociali, del capitale e coloro che mettevano in evidenza i limiti esterni, e quindi ambientali, è stata una connessione quasi naturale dovuta al periodo e al forte sentimento anti-capitalista, ma non ha mai messo a tema la modalità specifica di questo rapporto. In altri termini: da un lato la classe (contraddizione interna allo sviluppo), dall’altro l’ambiente (contraddizione esterna dello sviluppo). Oggi invece, con la sfera riproduttiva che diviene centrale nella produzione di plus-valore, questo rapporto dev’essere ripensato e riarticolato. Se c’è un punto che i movimenti che hanno animato il marzo di lotta in Italia, e ricordiamo lo sciopero tranfemminista dell’8 marzo, la marcia per il clima del 15 e quella contro le grandi opere del 23, non hanno messo sufficientemente a fuoco è come coinvolgere lavoratrici e lavoratori. Quindi la sfida da porre per il prossimo climate strike del 27 settembre è questa: cominciare a pensare in maniera più profonda e più diretta il rapporto tra l’elemento di lotta di classe e l’elemento di lotta ecologica e quindi di far fare all’ecologia politica un passo in avanti rispetto alle questioni strategiche – passo che credo avrebbe un impatto significativo anche sulle forme dell’organizzazione politica.

 

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