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La forza comunicativa di Occupy Wall Street

Nessun organo d’informazione può negare la democraticità del movimento, le discussioni sono aperte, le decisioni condivise e nessuno può usare etichette del passato per screditare, prima di reprimere, i movimenti di contestazione: comunisti, anarchici, socialisti, disfattisti, antipatriottici, un-American

Nel 2008, Noam Chomsky aveva detto che i giovani che si erano impegnati nella campagna elettorale di Obama, pur non costituendo un movimento politico-sociale, sarebbero potuti diventare una forza capace di «cambiare la società per il meglio». Era un’apertura di credito azzardata, che però Chomsky fondava sui precedenti di altri momenti difficili. La rivolta di Seattle del 1999, il movimento New-No Global e l’opposizione alla guerra in Iraq hanno preparato il terreno perché la crisi e la sua successiva evoluzione economico-sociale portassero alla nascita e al repentino crescere del movimento che dalla metà di settembre a oggi ha investito gli interi Stati uniti: il 17 settembre erano duecentocinquanta gli indignati che pretendevano di «occupare» Wall Street, un mese e mezzo dopo erano 50.000 i dimostranti che hanno occupato Oakland, in California. E tra una costa e l’altra, riportano le cronache, centinaia di città grandi e piccole hanno avuto le loro «occupazioni» nello stesso arco di tempo.

Obama non ha meriti nella nascita di questo movimento. Anzi. Semmai, l’avere salvato le grandi banche d’affari (Wall Street) con miliardi di dollari, piuttosto che adottare politiche a sostegno della «gente comune» (Main Street) ha posto anche lui sulla lista dei reprobi. Solo l’opposizione repubblicana ai suoi provvedimenti a favore dell’occupazione gli ha restituito, per ora, una credibilità altrimenti in declino. In cima alla lista stanno i potentati finanziari che, non appena salvati dal fallimento, hanno immediatamente ripreso ad accumulare profitti sulla pelle di chi ha perso lavoro, casa, servizi sociali e pubblici, sicurezza del futuro e fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Siamo il 99%, dicono i cartelli di «Occupy». È vero, nel senso che gli occupanti rappresentano o fanno parte di quel 99% della popolazione statunitense il cui tenore di vita è effettivamente peggiorato nell’ultimo decennio e, spesso, crollato dal 2008 a oggi.

Negli anni scorsi, in primis da Kevin Phillips nel 2002, era stato rispolverato il termine plutocrazia per indicare la strada imboccata dalla società statunitense nei vent’anni precedenti. Tre anni più tardi, in un documento riservato solo ai propri clienti più ricchi, Citigroup aveva tracciato un compiaciuto ritratto della «plutonomia» che aveva nelle sue mani l’economia statunitense e globale. La recessione – non prevista da Citigroup, che nel 2008 evitò la bancarotta soltanto grazie al governo federale – ha spinto in tempi più recenti un certo numero di critici a ridiscutere insieme la realtà della disuguaglianza sociale e l’arrogante agiografia che ne aveva fatto la banca. Molti hanno ripreso il discorso prima della comparsa di Occupy Wall Street. Al centro degli interventi critici, nell’ultimo anno, sono stati l’accentramento della ricchezza e del comando economico-finanziario nelle mani di pochi, l’approfondimento delle disuguaglianze sociali, l’aumento delle povertà: esattamente quello che Citigroup notava per congratularsi con i ricchi che così diventavano sempre più ricchi.

Ora, il 3 novembre, anche Paul Krugman ha scritto della «Oligarchy, American Style» sul New York Times: «La disuguaglianza sta di nuovo sulle prime pagine grazie a Occupy Wall Street, ma con il sostegno anche del Congressional Budget Office», che ha appena rilasciato un rapporto che «documenta un netto declino della fetta del reddito nazionale che tocca agli americani di classe bassa e media». All’80% della popolazione va meno della metà del reddito totale e tutta la «redistribuzione verso l’alto del reddito perduto dall’80% è andato all’1% che sta al vertice della scala dei redditi». Occupy aveva ragione fin dall’inizio a presentarsi come rappresentante del 99% spinto verso il basso; ora lo riconosce anche l’Ufficio bilancio del Congresso. E aveva ragione anche a individuare nei vertici del mondo degli affari e della finanza – oltre che i responsabili del disastro finanziario del 2007-2008, diventato subito il disastro sociale in cui viviamo anche noi – i soggetti che hanno continuato ad arricchirsi nella crisi.

Negli Stati Uniti ci sono sempre stati i grandi ricchi, ma una sperequazione sociale come l’attuale è senza precedenti. L’impoverimento di grandi fasce di popolazione a favore di poche isole di grandi ricchi porta immediatamente con sé una domanda, anche questa posta da Occupy: una simile, perversa ridistribuzione della ricchezza è o non è una minaccia per la democrazia? La risposta è sì, ed è facile sostenere che sia questa convinzione ormai largamente condivisa che sta dando forza al movimento. Intorno ai relativamente pochi occupanti che campeggiano nelle varie città esistono un’ampia condivisione nell’opinione pubblica e una vasta rete solidale di sostenitori che offrono soldi, vettovaglie, attrezzature e servizi (medici, legali ecc.). L’indignazione ha fatto presa. Non è un caso che allo «sciopero generale» di Oakland abbia aderito più d’una organizzazione sindacale (con dei distinguo sui comportamenti, come da parte dei lavoratori dei servizi, ma con la stessa condivisione sostanziale di analisi e obiettivi già mostrata altrove).

I dati più recenti del Censimento indicano che il numero dei residenti in «aree di estrema povertà» – in cui una famiglia di quattro persone ha un reddito annuo inferiore a 22.300 dollari – è cresciuto di un terzo negli ultimi dieci anni. E uno studio della Brookings Institution rivela che nei suburbs di molte grandi aree metropolitane il numero dei residenti poveri ha superato il 50%. Le aree principali: Detroit, Cleveland, Minneapolis-St. Paul, New Orleans, Buffalo, Houston, Provo, Oklahoma City, Chicago-Naperville-Joliet. E molti se ne sono andati perché hanno perso il lavoro o avuto la casa pignorata per insolvenza. Una cosa così non era mai successa da quando negli anni Cinquanta i suburbs diventarono l’immagine stessa del benessere nordamericano – casa unifamiliare, auto, quiete, aria buona e sicurezza. Un’altra rovinosa caduta simbolica, dopo i crolli delle Grandi dell’automobile.

Per converso, Occupy eleva a nuove altezze anche simboliche la democrazia, con le sue assemblee locali e la difesa delle prassi democratiche dalle espropriazioni di plutocrati e oligarchi. La sua forza comunicativa è venuta dal rendere tutto questo dicibile e visibile, a partire dal presupposto fondamentale che la durezza della situazione sociale è subita sulla propria pelle dalla maggioranza della popolazione. E non c’è nessun organo d’informazione che possa negare la democraticità del movimento (le discussioni sono aperte, le decisioni largamente condivise…), o che possa usare nei suoi confronti una qualsiasi delle etichette impiegate in passato per screditare, prima di reprimere, i movimenti di contestazione: comunisti, anarchici, socialisti, disfattisti, antipatriottici, un-American. Nel movimento, che pure è la cosa più antisistema in circolazione da decenni, c’è di tutto e nessuna componente, per ora, ha preso il sopravvento. Gli occupanti sono sgradevoli agli occhi delle persone perbene per l’insozzamento dei luoghi pubblici, il disordine dei loro accampamenti e per la promiscuità sessuale che li caratterizza, ma privano gli antipatizzanti della possibilità di usare contro di loro le etichette storiche, immediatamente evocative di sovversioni incombenti. Certo, l’assemblearismo rimane sospetto in quanto tale, nonostante che pochi – anche tra gli occupanti – siano in grado di farlo risalire alle teorizzazioni sulla democrazia partecipativa di cinquant’anni fa. E turba la radicalità della critica al «sistema» e la domanda di giustizia sociale, non importa quanto generiche nelle loro formulazioni, perché si fondano su dati di realtà a lungo sottaciuti ma ormai innegabili, con cui non si può non fare i conti.

Le pure e semplici dimensioni di massa e la composizione variegata dell’iniziativa di Oakland hanno fatto fare un salto di qualità al movimento. Con la crescita e la diffusione territoriale aumentano i problemi interni, come sempre accade; ma per l’immediato futuro è il «generale inverno» a prospettarsi come l’avversario più temibile.

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