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La ragione dei barbari

Il centro è cieco, la verità si vede dai margini. Quest’affermazione di metodo, propria degli studi post-coloniali e anche della più recente “antropologia di prossimità”, mi è tornata in mente la mattina del 27 giugno alla Maddalena, frazione di Chiomonte, quando visto da lassù – da quel fazzoletto di terra sulla colletta che divide il paese dall’autostrada del Frejus – il mainstream che ha segnato ossessivamente la vicenda della Tav è apparso di colpo per quello che è: vuota somma di affermazioni prive di senso reale. E si è affermata una realtà totalmente altra rispetto a quella che viene raccontata nei “luoghi che contano”, nei palazzi del potere, nelle redazioni dei giornali, dagli opinion leaders metropolitani. 

Prendiamo la questione dei soldi. Il mantra che viene recitato “al centro” – e “in alto” – ripete che l’Italia rischia di perdere i 680 milioni di euro dell’Europa se non aprirà il fatidico cantiere. Qui, in questa estrema periferia, tutti sanno che, al contrario, l’Italia potrà guadagnare (o risparmiare, se si preferisce) qualcosa come una ventina di miliardi di euro se quel cantiere non aprirà. Se la follia della Tav in Val Susa non si compirà. Tanto si calcola che sarà il costo finale dell’opera per il nostro Paese, comprensivo dei quasi 11 miliardi della tratta internazionale, a cui vanno aggiunti i quasi 6 miliardi (a prezzi 2006) della tratta italiana. 
Una cifra enorme, pari a quasi la metà della manovra “lacrime e sangue” che il governo sta varando per tentare di sanare il bilancio pubblico, frutto di un calcolo del tutto prudenziale (c’è chi, sulla base dell’esperienza, calcola un costo finale superiore ai 30 miliardi!), per un’opera marchianamente, spudoratamente, inutile. Un’opera concepita e progettata in un altro tempo (gli anni ’90 del turbo-capitalismo trionfante) e in un altro mondo (quello della globalizzazione mercantile e dell’interconnessione sistemica di un pianeta votato al benessere). Sulla base di previsioni di crescita dei flussi di traffico fuori misura e tendenzialmente illimitate, frutto dell’estrapolazione di un trend contingente ed eccezionale (i tardi anni ’80 e i primi anni ’90, quando effettivamente la circolazione internazionale e a medio-lungo raggio delle merci subì una brusca accelerazione), rivelatesi poi fallaci.
Si ipotizzò allora un rapido raddoppio dei circa 10 milioni di tonnellate transitate nel 1997 sulla linea ferroviaria Torino-Modane (la cosiddetta linea storica), che avrebbero portato rapidamente a saturarne la capacità (calcolata in circa 20 milioni di tonnellate) entro il 2020, con una crescita lineare ed esponenziale del flusso. Si sostenne (delirando, possiamo ben dire oggi) la necessità di garantire, con la nuova linea, una capacità di transito pari ad almeno 40 milioni di tonnellate, al fine di trasferire su rotaia buona parte dei volumi di traffico su gomma. Non si sapeva, allora, che il 1997 era stato il culmine di una curva che, esattamente dall’anno successivo, avrebbe incominciato a scendere, senza più fermarsi: era già scesa a 8,6 milioni di tonnellate nel 2000. Cadrà ancora a 6,4 nel 2004, a 4,6 nel 2008 per giungere infine al livello minimo di 2,4 milioni di tonnellate nel 2009 (anno in cui, secondo quelle proiezioni folle, avrebbe dovuto sfiorare i 15 milioni)! Oggi, la sola “linea storica” (sfruttata a meno di un terzo delle sue possibilità), sarebbe tranquillamente in grado non solo di garantire l’intero flusso di merci attraverso il confine con la Francia, ma di assorbire addirittura (cosa puramente teorica) l’intero traffico su gomma (all’incirca 10 milioni di tonnellate annue, anch’esso in costante calo), senza significativi costi aggiuntivi (se non le irrisorie cifre necessarie a realizzare il maquillage della linea esistente). 

Sono numeri ben presenti a qualsiasi anziano valsusino seduto sull’erba del prato della Maddalena, a ogni ragazzo accampato (fino a lunedì) nelle tende del bivacco, a ogni casalinga di Bussoleno o di Venaus. Solo i “decisori” centrali, i politici di lungo corso, gli addetti all’informazione nazionale continuano a ripetere, come organetti rotti, le cifre di ieri, imbozzolati nel cavo del loro mondo scaduto, ciechi ad ogni evidenza, compresa quella mostrata dalle loro stesse statistiche ufficiali.
Oppure prendiamo un altro tema caldo, nella discussione attuale sulla Valle di Susa: il tema della legalità. Dal “centro del centro” – dal Viminale – il ministro Maroni proclama, mentre i suoi 2000 uomini si avvicinano alle barriere che difendono la Libera repubblica della Maddalena: «Di là ci possono essere i professionisti della violenza, di qua ci sono i professionisti della legalità, dell’antiviolenza, professionisti che sanno cosa fare, abituati a combattere il terrorismo, la criminalità organizzata, a combattere chi usa i kalashnikov e la lupara». Qui, invece, nella periferia delle periferie, sul ponticello della strada che da Chiomonte porta al sito archeologico sulla collina, la gente della valle guarda le ruspe che avanzano circondate – embedded – dai plotoni di agenti in assetto antisommossa, e grida «mafia». Sanno che la storia di alcune di quelle ditte che hanno messo a disposizione i propri mezzi è disseminata di vicende giudiziarie, d’indagini della magistratura e della Guardia di finanza per reati come «associazione a delinquere», «turbativa d’asta», falsa fatturazione, corruzione… Ci sono i ritagli dei giornali con le notizie degli arresti d’imprenditori, a più riprese, nei tardi anni ’80, all’inizio dello scorso decennio… Basterebbe poco ai cronisti “centrali” – uno sguardo ai propri archivi, de La Stampa, di Repubblica – per documentarsi. E se è vero che i trascorsi giudiziari non bastano per emettere una sentenza di colpevolezza attuale, è pur anche vero che l’impatto di quello strano mix di Stato e di sospetto “antistato” ha un effetto devastante sui sentimenti collettivi di una popolazione che dallo Stato vorrebbe essere protetta e non attaccata. È il mondo che appare alla rovescia. E insieme terribilmente vero.

Possiamo chiederci il perché di questa distonia ottica, che rende così cieco (e ottuso) il “centro” e così lungimirante il “margine”. Che acceca chi in teoria avrebbe tutti gli strumenti per guardare ad ampio raggio, e al contrario rende visionario chi in teoria dovrebbe essere “tagliato fuori”. Una risposta – ineccepibile – la offre la letteratura più radicale della galassia post-coloniale statunitense, quella ascrivibile al femminismo nero, capace di muoversi acrobaticamente tra esclusione estrema e inclusione letteraria, ben testimoniata da Bell Hooks con il suo Elogio del margine. Qui la capacità di aprire il tempo dello sguardo laterale è ascritta al suo carattere di “spazio di resistenza”. Alla bi-direzionalità di quello sguardo, rivolto contemporaneamente verso l’interno e l’esterno: libero dunque. Non prigioniero. E alla sua irriducibilità al mainstream e al peso falso che lo connota. Chi se ne fa portatore sa, durissimamente, chi è e cosa non intende diventare. A lui si addicono le strofe di Bob Marley: «We refuse to be what you wont us to be, we are what we are, and that’s the way it’s going to be» («rifiutiamo di essere ciò che voi volete farci essere, siamo quel che siamo e voi non ci potete fare proprio niente»). Ma è possibile affiancare a questa anche un’altra ipotesi. Ed è che il centro è cieco perché sta crollando. Perché il mondo di cui si è fatto centro sta “venendo giù”. E come nella Bisanzio cantata da Guccini – «sospesa tra due mondi e tra due ere» – sono i barbari dei confini, non i senatori del Campidoglio, a sapere già la verità. 

da: Il Manifesto

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