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Le donne musulmane hanno davvero bisogno di essere salvate?


Forum Etico: l’11 Settembre e la Responsabilità etnografica. Riflessioni antropologiche sul relativismo culturale e i suoi Altri.[1]

Abstract: Questo articolo esplora l’etica dell’attuale “Guerra al Terrorismo”, domandandosi se l’antropologia, la disciplina che si dà per compito la comprensione della differenza culturale, possa offrirci una presa critica sulle giustificazioni date all’intervento statunitense in Afhanistan in merito alla liberazione e alla salvezza delle donne Afghane. Considero innanzitutto i pericoli associati ad una cultura reificante, manifesta nella tendenza a cristallizzare complesse dinamiche  storico-politiche attorno ad icone culturali semplificate come quella delle “Donne Musulmane”. Quindi, concentrandomi sulle assonanze tra i discorsi contemporanei su eguaglianza, libertà e diritti e la passata retorica coloniale e missionaria sulle donne musulmane, sostengo che è necessario sviluppare un’autentica capacità di riconoscere le differenze tra le donne nel mondo come prodotti di storie differenti, espressioni di congiunture differenti, espressioni di desideri differentemente strutturatisi. Sostengo anche che piuttosto di sforzarci di “salvare” gli altri – con il senso di superiorità e le violenze che ciò implica- faremmo meglio a pensare di collaborare con loro in situazioni consapevolmente sempre soggette al divenire storico, riconoscendoci le responsabilità maggiori di un’ingiustizia globale che ha potentememte dato forma ai mondi che abitano. Sviluppo molti di questi argomenti sui limiti del relativismo culturale attraverso una riflessione sul burqa e la proteiformità semantica del velo nel mondo musulmano.

Qual’è l’etica dell’attuale “Guerra al Terrorismo”, una guerra che si autogiustifica con la pretesa di liberare o salvare le donne afghane? L’antropologia ha qualcosa da offrirci per  cercare  la posizione migliore da prendere nei confronti della logica di questa guerra? Sono stata indotta  a porre la domanda del titolo in parte dal modo in cui ho personalmente esperito la reazione alla guerra degli Stati Uniti in Afghanistan. Come molti dei colleghi il cui lavoro è focalizzato su donne e genere in Medio Oriente, sono stata subissata di inviti ad intervenire non solo nei nuovi programmi ma anche nei vari dipartimenti di college ed università, specialmente nei corsi sui women’s studies. Perchè ciò non mi ha gratificata, da studiosa che ha dedicato più di 20 anni della propria vita a queste tematiche e che ha, in qualche modo, un complesso rapporto personale con questa identità? Mi si forniva, in questo caso, l’opportunità di divulgare le mie conoscenze nel mondo, e di correggere i fraintendimenti. L’urgenza della ricerca di una conoscenza sulle nostre sorelle “women of cover”, così il presidente G.Bush le ha graziosamente definite, è lodevole, e quando proviene da corsi di studi sulle donne in cui il “femminismo transnazionale” è ora preso sul serio, possiede una certa integrità ( v. Safire, 2001). Il mio disagio mi ha spinta a riflettere sui motivi per cui, come femministe in Occidente o Occidentali tout court, o più semplicemente come persone che s’interessano alle condizioni di vita delle donne, noi sentiamo il bisogno di andarci piano nel rispondere agli eventi e alle conseguenze dell’11 settembre 2001. Voglio mettere in rilievo i campi minati – metafora tristemente fin troppo adeguata ad un paese come l’Aghanistan, con il maggior numero al mondo di mine pro capite- di quest’ossessione per la condizione delle donne musulmane. Spero di mostrarlo in qualche modo attraverso concetti dell’antropologia, la disciplina che si è data il compito di comprendere e gestire la differenza culturale, mantenendomi al contempo critica nei confronti della sua complicità nel processo di reificazione della differenza culturale.

Spiegazioni culturali e mobilitazione delle donne.

Sarebbe più semplice accorgersi del perchè si dovrebbe essere scettiche nei confronti di tale attenzione per la “Donna Musulmana” se si cominciasse  dalla reazione pubblica americana. Ne analizzerò due espressioni: alcune conversazioni che ho avuto con una reporter della PBS NEWS HOURS WITH JIM LEHER, e il discorso radiofonico della First Lady Laura Bush del 17 Novembre 2001. La presentatrice del News Hours mi contattò la prima volta a Ottobre per sondare la mia disponibilità a fornire informazioni per un pezzo sulle Donne e l’Islam. Maliziosamente domandai se avesse fatto un pezzo sulle donne guatemalteche, irlandesi, palestinesi o bosniache quando lo show si era occupato dei conflitti in quelle aree del mondo; alla fine accettai di dare un’occhiata alle domande in scaletta: erano disperatamente generiche…..Le donne musulmane credono x? Le donne musulmane sono y? L’Islam permette z alle donne? Le domandai: sostituendo Cristiane o Ebree a Musulmane, queste domande avrebbero ancora senso? Non pensavo mi avrebbe richiamata, e invece lo fece due volte: la prima con l’idea di un pezzo sul significato del Ramadan – in risposta ai bombardamenti-  la seconda  sulle donne musulmane e la Politica, a seguito dei discorsi di Laura Bush e di Cherie Blair, moglie del Primo Ministro britannico.

L’aspetto stridente in questi tre programmi d’attualità era il massiccio ricorso all’aspetto culturale, come se sapere qualcosa sulle Donne e l’Islam o sul significato di un rito religioso aiutasse a comprendere il tragico attacco al New  Trade Center di New York e al Pentagono, la caduta dell’Afghanistan  nelle mani dei Talebani, o la natura degli  interessi che  hanno  alimentato gli interventi degli Stati Uniti e di altri paesi nella regione negli ultimi 25 anni, o la storia del supporto degli Stati Uniti ai gruppi conservatori che hanno contribuito a cacciare i Sovietici, o, ancora, le ragioni per cui la  CIA  aveva finanziato la costruzione di caverne e bunker dai quali Bin Laden sarebbe stato stanato, “vivo o morto” di lì a poco – secondo quanto annunciato in Tv da G.Bush.

In altre parole la questione è: perchè conoscere la “cultura” del posto, e in particolare le credenze religiose e la condizione femminile fosse più urgente che far luce sullo sviluppo storico di regimi repressivi e sul ruolo degli Stati Uniti. Questa cornice culturale mi appariva funzionale ad evitare una seria indagine sulle radici e la natura delle sofferenze umane in quella parte del mondo. Invece che spiegazioni storico-politiche, agli esperti se ne chiedevano di ordine culturale e religioso. Invece di domande volte ad esplorare le interconnessioni globali, ce ne venivano poste altre che tendevano a dividere artificiosamente il mondo in sfere separate, ricreando un’immaginaria geografia di opposizione tra Occidente e Oriente, “noi” e i Musulmani, culture in cui le First Ladies parlano contro quelle in cui le donne si trascinano silenziosamente nei loro burqa. Più pressante, per noi, era la ragione per cui la donna musulmana in generale e quella afghana in particolare, fosse così cruciale all’interno di questo modello culturale di spiegazione, che ignorava i complessi grovigli in cui tutti noi siamo implicati, in schieramenti talora sorprendenti. Perchè, a differenza che in altri conflitti, in questa “Guerra al Terrorismo”  erano mobilitati tali simboli femminili ? Il discorso di Laura Bush del 17 Novembre rivela l’operazione politica soggiacente a questa mobilitazione: da una parte, faceva decadere importanti distinzioni che avrebbero dovuto essere conservate, si verificava un costante slittamento da Talebani a Terroristi, che diventavano una parola sola, una sorta di mostruosa identità coi trattini…..I-Talebani-e-i-Terroristi. Poi c’era la confusione delle cause, del tutto distinte in Afghanistan, dell’atavica malnutrizione, povertà e malattia delle donne  con  la loro più recente esclusione, sotto il regime dei Talebani, dal lavoro e dalla scolarizzazione e con la gioia di sfoggiare unghie laccate.

In secondo luogo il suo discorso avallava divisioni abissali, innanzitutto tra “i civilizzati di tutto il mondo”, i cui cuori trepidavano per la sorte di donne a bambini afghani, e i Taleban-Terroristi, mostruosità culturali che volevano- come ebbe a dire- imporre il loro mondo al resto del mondo. Più significativamente, il discorso arruolava le donne nella giustificazione  dei bombardamenti e dell’intervento americano in Afghanistan, invitandole a perorare la causa della “Guerra al Terrorismo”. Come disse Laura Bush “Grazie ai nostri recenti successi in buona parte dell ‘Afghanistan le donne non vengono più segregate in casa. Possono ascoltare musica e insegnare alle proprie figlie senza temere di essere punite…La lotta contro il terrorismo è anche la lotta per i diritti e la dignità delle donne” (Governo U.S.A. 2002).

Per chiunque abbia studiato la storia del colonialismo, queste parole suonano familiari.Molti di coloro che hanno fatto ricerca sul tema del colonialismo britannico nell’Asia meridionale, hanno rilevato l’uso della questione femminile nelle politiche coloniali, entro le quali il dominio era giustificato con l’intervento  sul sati ( l’auto-immolazione delle vedove sulle pire funerarie dei propri mariti), sul matrimonio delle bambine e su altre pratiche.Come G.C.Spivak ha cinicamente affermato: l’uomo bianco salva le donne nere dagli uomini neri.

La storia è piena di casi simili, anche in Medio Oriente. A inizio secolo il “femminismo coloniale” ( Leila Ahmed, 1992) operava con forza. Si trattava di una preoccupazione selettiva per la sorte delle donne egiziane, che stigmatizzava il velo in quanto simbolo di oppressione non supportando tuttavia in alcun modo l’educazione femminile e  veementemente professata dall’inglese Lord Cromer, che in patria si opponeva al suffragio femminile. La sociologa Marnia Lazreg (1994) ha offerto alcuni vividi esempi di come il colonialismo francese arruolava  le donne alla propria causa in Algeria.

Forse l’esempio più spettacolare dell’appropriazione delle voci delle donne da parte del colonialismo fu l’evento del 6 maggio 1958 (solo 4 anni prima della conquista definitiva dell’indipendenza dalla Francia da parte dell’Algeria, dopo una lunga e sanguinosa lotta e 130 anni di dominio francese) Quel giorno i generali francesi ribelli avevano organizzato una manifestazione ad Algeri come segno della propria determinazione a mantenere l’Algeria sotto l’egida della Francia. Per dare al governo francese la prova dell’appoggio della popolazione, i generali avevano portato qualche centinaia di uomini dai villaggi vicini, insieme a poche donne cui le donne Francesi tolsero solennemente il velo….Durante il periodo coloniale non era inusuale prendere e portare gli Algerini a manifestazioni di fedeltà alla Francia. Ma togliere il velo alle donne durante una cerimonia ben orchestrata aggiunse all’evento una dimensione simbolica che drammatizzava l’unica caratteristica costante dell’occupazione francese in Algeria: la sua ossessione per le donne ( Lazreg, 1994: 135)

Lazreg fornisce anche esempi memorabili del modo in cui i Francesi avevano presto cercato di trasformare le donne e le ragazze arabe. Descrive alcune scenette delle cerimonie di premiazione alla Scuola per Ragazze Musulmane di Algeri nel 1851 e nel 1852. Nella prima, scritta da una “Francese di Algeri”, due ragazze arabe algerine ricordavano il loro viaggio in Francia con parole del genere:

Oh, Francia premurosa, Oh! Francia ospitale!….

Terra nobile, dove mi sentii libera

sotto cieli cristiani, a pregare il nostro Dio…

Dio ti benedica per la felicità che ci rechi!

E te, madre adottiva, che ci hai insegnato

che abbiamo la nostra parte, in questo mondo,

noi ameremo sempre! ( Lazreg, 1994: 68-69)

Queste ragazze sono costruite per invocare il dono di un posto in questo mondo, un m ondo in cui la libertà regna sotto cieli Cristiani. Non è il mondo che i Taleban-Terroristi vorrebbero ” imporre al resto del mondo”.

Come ho sostenuto in precedenza la necessità di guardare con sospetto a quelle icone culturali nette, con cui si ingessano complesse narrazioni storiche e politiche, così è d’obbligo la prudenza quando Lord Cromer nell’Egitto dominato dagli inglesi, le donne Francesi in Algeria e Laura Bush, con le loro truppe al seguito, auspicano la salvezza o la liberazione delle donne musulmane.

POLITICHE DEL VELO

Ora consideriamo più da vicino quelle afghane che Laura Bush pretendeva stessero festeggiando all’arrivo degli americani. Ciò implica una discussione sul velo, o sul burqa, perchè è al centro delle preoccupazione attuale nei confronti delle donne musulmane. E ci darà anche l’occasione per discutere di come gli antropologi, e le antropologhe femministe in particolare, si contendano il problema della differenza in un mondo globale. In conclusione tornerò sulla retorica della salvezza delle musulmane e offrirò un’alternativa. E’ un luogo comune che l’ultimo segno dell’oppressione delle donne afghane da parte dei Taleban-Terroristi sia l’obbligo di indossare il burqa. I liberali talora confessano il loro stupore perchè anche dopo che l’Afghanistan è stato liberato dai Talebani, non sembra che le donne si siano tolte i burqa. Chi ha lavorato in aree musulmane deve chiedersi il motivo dello stupore. Ci aspettavamo che una volta “libere” dai Talebani sarebbero tornate “indietro” alle magliette e ai jeans, o avrebbero rispolverato i completi Chanel?  Bisogna essere più sensibili al modo di vestire delle “women of cover”, e dunque probabilmente c’è bisogno di mettere alcuni punti fermi sul velo.

Per prima cosa bisognerebbe ricordare che i Talebani non hanno inventato il burqa. Era il modo locale di coprirsi: le donne Pashtun, nella loro regione, lo indossavano uscendo. I Pashtun sono uno dei numerosi gruppi etnici in Afghanistan, e il burqa era uno dei molti modi di coprirsi nel subcontinente e nell’Asia sud-occidentale, sviluppatosi come simbolo convenzionale della modestia e della rispettabilità delle donne. Il Burqa, come altre forme di “copertura”ha, in molte situazioni, marcato la separazione simbolica della sfera maschile da quella femminile, come parte del rapporto generale delle donne con la famiglia e la casa, e non con lo spazio pubblico, in cui ci si mescola con gli estranei.

Vent’anni fa, l’antropologa Hanna Papanek (1982), che lavorava in Pakistan, descrisse il Burqa come un “isolamento portatile”. Notò che molte lo percepivano come un’invenzione liberatoria, perchè, allo stesso tempo,  consentiva alle donne di uscire dalla segregazione degli spazi vitali e preservava i requisiti morali fondamentali separando e proteggendo le donne dal contatto con uomini non imparentati. Fin da quando mi imbattei nell’espressione “isolamento paortatile”, ho pensato a questi capi d’abbigliamento avvolgenti come a ” case mobili”. In ogni luogo, questo modo di velarsi significa appartenere ad una particolare comunità e lpartecipare ad un modo morale di esistere, in cui le famiglie sono primarie nell’organizzazione delle comunità e la casa è associata alla santità delle donne. La questione che ovviamente ne discende è: stando così le cose, perchè le donne avrebbero dovuto immediatamente divenire indecenti? Perchè avrebbero dovuto immediatamente spogliarsi dei segni della propria rispettabilità, segni come il burqa o altri modi di coprirsi, che si riteneva assicurassero la loro protezione nella sfera pubblica dalla violenza degli estranei, segnalando simbolicamente a tutti il loro permanere nell’inviolabilità dello spazio casalingo, anche in pubblico? Specialmente dal momento che questi sono modi di abbigliarsi diventati così convenzionali al cui significato  la maggior parte delle donne presta comunque una qualche considerazione.

Per tracciare alcune analogie, nessuna perfettamente calzante, perchè soprenderci del fatto che le donne afghane non gettano via i loro burqa mentre noi sappiamo benissimo che non sarebbe appropriato andare in calzoncini corti all’opera? All’epoca in cui infuriavano queste discussioni sul burqa, una mia amica fu rimproverata dal marito per aver ventilato l’ipotesi di indossare un tailleur-pantalone ad un matrimonio sofisticato: “Sai che non si mettono i pantaloni ad un matrimonio WASP [2]“- le ricordò. Le Newyorkesi sanno che le donne asiatiche meravigliosamente acconciate, che sembrano così alla  moda accanto ai loro austeri mariti in cappotto scuro e cappello, indossano delle parrucche, perchè la credenza religiosa e le consuetudini della comunità in materia di decenza prescrivono che i capelli siano coperti. Ritoccano anche gli abiti alla moda rendendoli più accollati  e con le maniche lunghe. Gli antropologi sanno benissimo che le persone indossano gli abiti conformemente al gruppo sociale cui appartengono, secondo requisiti socialmente condivisi, ideali morali , a meno che non trasgrediscano deliberatamente o non possano permettersi l’abbigliamento appropriato.

Se pensiamo che le donne americane vivano in un mondo contraddistinto dalla libertà di scegliersi gli abiti, è sufficiente ricordare il modo di dire, “la tirannia della moda”[3]. Nell’Afghanistan dominato dai Talebani, un certo stile, tipico di una parte del paese, di vestirsi e velarsi, associato ad una classe sociale rispettabile ma non d’ élite, è stato imposto a tutte in quanto “religiosamente” appropriato, anche se in precedenza avevano convissuto stili differenti, popolari o tradizionali, con differenti gruppi o classi sociali – modi diversi di marcare la proprietà delle donne, o, in tempi più recenti, la religiosità. Benchè io non sia un esperta d’Afghanistan, immagino che la maggioranza delle donne rimaste quando i Talebani presero il potere fossero le meno colte, appartenenti a contesti rurali o provenienti da famiglie non agiate, dal momento che erano le uniche  a non aver potuto emigrare per sfuggire  alle privazioni e alla violenza che hanno segnato la storia recente dell’Afghanistan. Qualora liberate dall’indossare forzatamente il burqa, la maggior parte di loro sceglierebbe di coprirsi umilmente il capo in qualche altro modo, come tutte quelle che vivonoin aree limitrofe non sotto il regime dei Talebani- le loro omologhe Hindu nell’India settentrionale, che si coprono il capo e il viso col velo, o le loro sorelle musulmane in Pakistan. Anche il New York Times ha pubblicato un articolo sulle Afghane rifugiate in Pakistan che cercava di informare i lettori su questa variabile gamma locale. (Fremson, 2001). L’articolo le descrive e ritrae tutte, dal  burqa in quanto odierna icona  con le aperture per gli occhi ricamate, che è- come spiega una donna Pashtun-  l’abito tipico della sua comunità,  alle grandi sciarpe dette  chador, all’hijab, come lo chiamano quelle che lo indossano, il nuovo modesto abbigliamento islamico: coloro che lo indossano sono di solito studentesse che intraprendono una percorso professionale, soprattutto in  medicina, come le loro controparti, dall’Egitto alla Malaysia. Una di coloro che indossavano il chador era la direttrice di una scuola; l’altra un’ ambulante giovane e povera,  che significativamente affermava : ” Se indossassi il burqa, le rifugiate mi dileggerebbero, perchè il burqa è per le “donne costumate” che stanno in casa”. In questo caso emerge l’associazione del burqa allo status sociale locale- è per le brave donne rispettabili di famiglie agiate che non sono obbligate a vivere vendendo per strada.

Il quotidiano inglese Guardian, nel gennaio 2002, ha pubblicato un’intervista con la dott.ssa Suheila Siddiqi, un chirurgo rispettato in Afghanistan, tenente generale dei corpi medici afghani. Sui sessant’anni, proviene da una famiglia dell’elite e, come le sorelle, è stata mandata a scuola. A differenza della maggior parte delle donne della sua stessa classe sociale, ha scelto di non andarsene. Nell’articolo viene presentata come “la donna che ha tenuto testa ai Talebani” perchè rifiutatatasi di indossare il burqa. La pose come condizione per ritornare al suo posto di direttrice di un grande ospedale quando i Talebani andarono a chiedergliero nel 1996, solo 8 mesi dopo averle sparato mentre era in compagnia di altre donne. Siddiqi viene descritta come una donna snella, affascinante e sicura di sè. Ma più avanti nell’articolo si nota che la sua fluente chioma grigia è coperta da un velo trasparente. Ciò a testimoniare che, benchè abbia rifiutato il burqa, non ha alcun problema nell’indossare il chador o un velo.

Per concludere devo aggiungere qualcosa di cruciale sul velo. Non solo esistono vari modi di coprirsi, con diversi significati nelle comunità in cui sono in uso, ma il velarsi, in sè, non va confuso o fatto valere come mancanza di rappresentatività.

Come ho sostenuto nel mio lavoro etnografico su una comunità Beduina egiziana tra gli anni ’70 e gli anni ’80, (1986), coprirsi il viso con il velo nero al cospetto di un uomo più anziano e rispettato è considerato un atto volontario da parte delle donne, legate alle proprie famiglie da una forte moralità e un profondo senso dell’onore. Uno dei modi in cui manifestano le proprie convinzioni è rappresentato dal coprirsi il viso in determinati contesti. Sono loro a decidere per chi  sia appropriato velarsi.

Per considerare un caso del tutto diverso, il moderno abito islamico che molte donne istruite nel mondo musulmano hanno cominciato ad indossare a partire dalla metà degli anni ’70, oggi denota pubblicamente la propria devozione religiosa ma può essere letto anche come segno di colta raffinatezza propria di contesti urbani, una forma di modernità ( Abu-Lughod, 1995, 1998; Brenner, 1996; El Guindi 1999; MacLeod 1991; Ong 1990).

Come ha brillantemente dimostrato Saba Mahmood (2001) nella monografia sulle donne del movimento della moschea[4] in Egitto, questo nuovo abbigliamento è anche percepito da molte delle donne che lo adottano, come parte di un modo di coltivare la virtù anche con il corpo, la manifestazione esteriore del proprio espresso desiderio di vicinanza a Dio. Da questa discussione chiaramente breve sui significati del velo nel mondo musulmano contemporaneo emergono due punti in particolare. In primo luogo,   c’è bisogno di lavorare in senso contrario all’interpretazione riduzionistica del velo come quintessenza della mancanza di libertà delle donne, anche se ne dobbiamo contestare l’imposizione, come in Iran o sotto i Talebani.( Bisogna ricordare che stati in via di modernizzazione, come la Turchia o l’Iran, hanno vietato il velo e ordinato agli uomini, eccezion fatta per il clero, di adottare abiti occidentali.) Cosa significa “libertà” se facciamo nostra la premessa fondamentale che gli uomini sono esseri sociali, sempre implicati in determinati contesti socio-storici, appartenenti ad una particolare comunità, che  informa i loro desideri e i loro modi di vedere il mondo? E non manchiamo dunque grossolanamente, nel nostro comprendere il mondo femminile, quando denunciamo il burqa come mera imposizione medievale?

In secondo luogo, dobbiamo stare attenti a non ridurre i diversi atteggiamenti e situazioni di milioni di donne musulmane ad un singolo capo d’abbigliamento. Forse è giunta l’ora di farla finita con l’ossessione occidentale sul velo, e di concentrarsi su alcune serie istanze di cui le femministe e non solo dovrebbero occuparsi. Alla fin fine, la significativa problematica etico-politica che il burqa solleva è come trattare con i nostri “altri”culturali. Come ci dobbiamo rapportare  con la differenza senza appiattirci sulla passività  implicata dal relativismo culturale per il quale gli antropologi sono giustamente divenuti noti – un relativismo che dice…è la loro cultura, e non è affar mio giudicare  interferire, solo tentare di comprendere….

Il relativismo culturale rappresenta certamente un passo avanti rispetto all’etnocentismo e al razzismo, all’imperialismo culturale e alla mentalità imperialista che ne costituisce il fondamento, ma il punto è che è troppo tardi, ormai, per non interferire. Le forme di vita sviluppatesi in tutto il mondo sono già il prodotto di una lunga storia di contaminazioni.

Voglio sondare le questioni delle donne, del relativismo culturale e della “differenza” partendo da tre angolature, innanzitutto prendendo in considerazione quanto le antropologhe femministe  stanno facendo con strani partners politici….Di solito mi sento lacerata, quando ricevo le petizioni via e-mail, che circolano negli ultimi anni, in difesa delle donne Afghane oppresse dai Talebani. Di certo non simpatizzo con il loro dogmatismo, e non sono dalla parte di chi opprime le donne. Sono i mittenti della campagna a preoccuparmi. Di solito non mi scelgo come compani politici le celebrità di Hollywood. Da quelle donne non ho mai ricevuto una petizione in difesa del diritto delle donne Palestinesi contro i bombardamenti israeliani, o le violenze quotidiane ai check-points, o che chiedesse agli Stati Uniti di rimettere in questione il suo supporto ad un governo che le ha spossessate, escluse dal lavoro e dalla cittadinanza, negando loro le libertà più fondamentali. E’ forse possibile che le stesse donne firmino petizioni per salvare le donne africane dalle mutilazioni genitali, o le Indiane dalle “morti per dote”. Comunque penso che non sarebbe facile mobilitare così tante americane ed europee se non si trattasse di uomini musulmani che opprimono donne musulmane, donne coperte per cui provano dispiacere e un compiaciuto senso di superiorità. Ophrah Winfrey, la star della televisione, ospiterebbe mai Le Donne in Nero, un gruppo di donne pacifiste israeliano, come ha fatto col RAWA, l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane, che si è anche aggiudicato il Premio “Donne dell’Anno Glamour Magazine”?

Che dire dei “Viaggi-Realtà” post-Talebani come quello pubblicizzato in internet da Global Exchange a marzo del 2002, “Coraggio e Tenacia: una delegazione femminile in Afghanistan”?

La logica di questo tour da 1,400 $ è che “con la rimozione del governo talebano, le donne afghane, per la prima volta negli ultimi dieci anni, hanno l’opportunità di chiedere i basilari diritti umani, stabilendo per sè stesse una pari cittadinanza attraverso la partecipazione alla ricostruzione della nazione”. L’obiettivo del viaggio, per celebrare la Settimana Internazionale delle Donne, è ” diventare coscienti dei problemi e delle questioni che le donne afghane stanno affrontando, testimoniando parimenti il cambiamento delle condizioni politiche, economiche e sociali che hanno creato nuove opportunità per le donne afghane” ( Global Exchange, 2002).

Essere critiche nei confronti di questa celebrazione dei diritti delle donne in Afghanistan, non significa non tenere in considerazione organizzazioni locali di donne, come il RAWA, i cui membri lavorano con coraggio fin dal 1977 per un Afghanistan democratico e laico, nel quale i diritti umani delle donne vengano rispettati, in opposizione ai regimi sostenuti dai Russi, o ai gruppi conservatori appoggiati dagli Americani, dai Sauditi, e dai Pakistani. Il loro lavoro di documentazione delle violenze, in cliniche e  scuole, è stato di grande importanza. Non sono nemmeno da criticare quelle campagne che hanno fatto conoscere le orribili condizioni cui i Talebani hanno sottoposto le donne. La Campagna di Feminist Majority ha contribuito a metter fine all’oleodotto segreto che univa i Talebani e la multinazionale statunitense Unolocal, che andava avanti grazie al supporto dell’amministrazione americana. Le campagne delle femministe occidentali non vanno confuse con le ipocrisie del nuovo femminismo coloniale di un presidente Repubblicano  che non è certo stato eletto per le sue posizioni progressiste  sulle donne, o di amministrazioni che si sono guadagnate il primato terribile di violazioni ai danni delle donne da parte dei propri alleati nell’Alleanza del Nord, come hanno documentato, ad sempio, Human Rights Watch e Amnesty International. Stupri e aggressioni erano all’ordine del giorno nel periodo di lotte interne prima che arrivassero i Talebani a ristabilire l’ordine.

E’ auspicabile, in ogni caso, guardare più attentamente a ciò che stiamo sostenendo ( e a ciò che non stiamo supportando), domandandosene attentamente il motivo. Come dovremmo gestire la questione , complicata dal punto di vista politico ed etico, di essere d’accordo con quelli dai quali solitamente dissentiamo? Non so quante femministe, che ritengono giusto salvare le donne afghane dai talebani, chiedano anche una ridistribuzione della ricchezza su scala globale,  e siano disposte a ridurre drasticamente i propri consumi lasciando così alle donne africane qualche possibilità di avere ciò che ritengo dovrebbe essere un diritto umano universale – il diritto alla libertà dalla violenza strutturale della diseguaglianza globale e dai danni della guerra, il diritto quotidiano di avere abbastanza da mangiare, una casa in cui vivere  e crescere con le proprie famiglie, condizioni di vita decenti per crescere i propri figli, con forza e sicurezza sufficienti a trovare, all’interno delle proprie comunità e con chiunque vogliano, il modo di vivere una vita degna, che potrebbe benissimo prevedere un cambiamento del modo in cui le loro comunità sono organizzate.

Ma il sospetto nei confronti dei compagni di strada è solo il primo passo; non ci fornisce strumenti per pensare più positivamente sul cosa fare o dove stare. Per questo è necessario confrontarsi con due grandi questioni: accettare la possibilità della differenza in primis. Possiamo liberare le donne afghane solo perchè diventino uguali a noi, o forse dovremmo riconoscere che anche dopo la “liberazione” dai Talebani, potrebbero desiderare cose diverse da quelle che vorremmo per loro? Cosa dobbiamo fare allora? In secondo luogo dobbiamo restare vigili sulla retorica del salvare la gente, a causa di ciò che essa implica quanto ai  nostri atteggiamenti. Di nuovo, quando parlo di accettare la differenza, non sto sostenendo che dovremmo rassegnarci ad un relativismo culturale rispettoso sempre comunque dal momento che “si tratta della loro cultura”. Ho già discusso dei pericoli connessi alle spiegazioni “culturali”. Le “loro” culture sono parte della storia e di un mondo interconnesso quanto le nostre. Voglio richiamarmi, invece, al complesso lavoro che implicano  il riconoscimento  e l’ accettazione delle differenze quali prodotti di storie differenti e manifestazioni di desideri differentemente strutturati. Noi possiamo chiedere giustizia per le donne, ma siamo capaci di accettare la possibilità di diverse idee sulla giustizia e che donne diverse potrebbero volere, o scegliere, futuri altri  rispetto a ciò che per noi è migliore? (Ong 1988)? Dovremmo tener conto del fatto che potrebbero richiamarsi a modi d’essere  e di parlare differenti.

I resoconti sulla conferenza di pace di Bonn tenutasi a fine Novembre per discutere della ricostruzione dell’Afghanistan hanno rivelato significative differenze tra le poche femministe afghane e le altre attiviste. La posizione del RAWA si attestava sul rigetto di ogni approccio conciliante nei confronti di un governo di matrice islamica. Secondo uno dei resoconti che ho letto, la maggior parte delle attiviste, soprattutto quelle che operano in Afghanistan e sono consapevoli della realtà del territorio, erano invece concordi sul fatto che l’Islam avrebbe dovuto essere il punto di partenza per un processo di riforma. Fatima Galiani, consulente statunitense di una delle organizzazioni, ha detto:” Se oggi vado in Afghanistan e chiamo le donne a votare promettendo loro laicità, mi diranno di andarmene all’inferno”. Invece, secondo un altro report, molte di queste donne guardavano ad un  posto che potrebbe sorprendere, cercando il modo migliore di lottare per l’eguaglianza. Guardavano all’Iran come ad un paese nel quale vi sono significative conquiste femminili all’interno della società islamica – in parte grazie ad un movimento femminista ad orientamento islamico che sta mettendo in discussione le ingiustizie e reinterpretando la religione tradizionale.. La situazione in Iran è anch’essa al centro di un acceso dibattito all’interno dei gruppi femministi, specialmente tra le femministe iraniane in Occidente. (Mir-Hosseini 1999; Moghissi 1999; Najmabadi 1998, 2000). Non è chiaro se e in che modo le donne abbiano fatto delle conquiste nè se il grande aumento del tasso di alfabetizzazione, il decremento della natalità, la presenza femminile nel mondo del lavoro e al governo, e tutto un fiorire del femminismo in ambito culturale, nella letteratura e nel cinema,  si siano sviluppati grazie o a dispetto del sistema della cosiddetta Repubblica Islamica.

Anche lo stesso concetto  di un femminismo islamico è controverso: ossimoro o movimento vitale composto da donne coraggiose che vorrebbero una terza via? Dobbiamo prestare la massima attenzione, considerando i femminismi del Terzo Mondo e il femminismo in diverse parti del mondo musulmano, a non cadere in polarizzazioni che ascrivano il femminismo all’Occidente. Ho scritto dei dilemmi davanti ai quali si trovano le femministe arabe quando le occidentali  promuovono campagne che le rendono passibili di accuse di tradimento da parte di conservatori di ogni genere, islamici o nazionalisti. Afsaneh Najmabadi, ad esempio, argomenta quanto sia errata una visione semplicistica della storia, in termini di ipotetica opposizione tra Islam ed Occidente ( come accade oggi negli U.S.A. E come , parallelamente, è avvenuto nel mondo musulmano)., ma anche quanto sia strategicamente pericoloso accettare tale opposizione culturale tra Occidente ed Islam, femminismo e fondamentalismo, perchè i molti che nei paesi musulmani stanno cercando alternative  alle odierne ingiustizie, coloro che vorrebbero evitare la divisione prendendo invece da diverse storie e culture, che non accettano l’equivalenza tra femminismo ed Occidente, saranno obbligati a scegliere, proprio come noi: siete con noi o contro di noi?

Mi preme ricordare l’importanza della consapevolezza delle differenze, del rispetto di altre strade al cambiamento sociale, che potrebbero dare alle donne vite migliori.

Può esistere una liberazione islamica?

E, di più, la liberazione rappresenta sempre un traguardo per tutte  le donne e, in generale, le persone ? Emancipazione, uguaglianza, e diritti sono parole di un linguaggio universale che siamo tenuti a parlare? Per citare Saba Mahmood, quando scrive delle donne egiziane che vogliono diventare musulmane devote, ” Il desiderio di libertà e liberazione è un desiderio storicamente determinato, la cui potenza motivazionale non può essere assunta aprioristicamente, ma va riconsiderata alla luce di altri desideri, aspirazioni, e capacità inerenti ad una soggettività culturalmente e storicamente situata,”( 2001: 223), In altre parole, altri desideri possono essere più significativi per persone diverse? Vivere in nuclei familiari stretti? Vivere religiosamente? O senza guerra? Ho lavorato sul campo in Egitto più di 20 anni e non mi viene in mente una sola donna, tra quelle che ho conosciuto, dalla più povera contadina alla più colta e cosmopolita, che abbia mai espresso invidia nei confronti delle donne statunitensi, donne che tendono a vedere come “senza comunità”, vulnerabili alla violenza sessuale e all’anomia sociale, spinte dal successo individuale piuttosto che dal senso morale, o stranamente sprezzanti nei confronti di Dio.

Mahmood (2001) ha rilevato che accade qualcosa di disturbante quando si sostiene il rispetto per le altre tradizioni. Nota come sembri esserci una differenza in termini di esigenza politica, tra gli specialisti o comunque coloro che cercano di comprendere il mondo musulmano e islamico, e coloro che perseguono progetti laici ed umanisti. Da studiosa del movimento religioso egiziano, riceve costantemente pressioni per denunciare i danni causati dai movimenti islamici in tutto il mondo- pena l’accusa di apologia. Tuttavia non sembra mai esserci una richiesta analoga per gli intellettuali laici ed umanisti, a dispetto delle terribili violenze che all’umanesimo sono associate, almeno negli ultimi due secoli, dalle guerre mondiali al colonialismo, dai genocidi alla schiavitù. Dobbiamo avere poca fiducia tanto nell’umanesimo laico quanto nell’Islamismo, e tenere la mente aperta alle complesse possibilità di progettualità umane all’interno di entrambe le tradizioni.

Al di là della retorica della salvezza

Ritorniamo allora, in conclusione, al titolo che ho scelto ” Le donne musulmane hanno bisogno di essere salvate?” Discutere della cultura, del velo, e di come si possano aggirare le secche della differenza culturale dovrebbe far apparire l’autocompiacimento di Laura Bush per l’esultanza delle Afghane liberate dale truppe americane sotto un’altra luce. E’ davvero problematico dipingere la donna afghana come qualcuno che abbia bisogno di essere salvato. Quando si salva qualcuno, va da sè,. lo si salva da qualcosa. Ma lo si sta anche salvando in vista di qualcosa. Quali violenze comporta tale trasformazione, e quali preconcetti circa la superiorità della meta in vista della quale  la si sta salvando? Progettare di salvare altre donne riposa su un forte senso di superiorità occidentale, una forma di arroganza che bisogna cercare di vincere. Per rendersi conto del carattere paternalistico di questa  retorica della salvezza applicata alle donne basta immaginare di applicarla, oggi, negli Stati Uniti, ai gruppi svantaggiati come quello delle donne afro-americane o lavoratrici. Oggi pensiamo che patiscano una violenza strutturale. Ci siamo politicizzate quanto alla razza e alla classe, ma non nei confronti della cultura. Come antropologhe, femministe, o cittadine coinvolte dobbiamo stare attente a non indossare le tonache di quelle missionarie cristiane del XIX secolo che dedicavano le loro vite a salvare le loro sorelle musulmane. Uno dei documenti che preferisco di quel periodo è Our Moslem Sisters ( Le nostre sorelle musulmane), un volume collettivo  con  gli atti di una conferenza di missionarie svoltasi al Cairo nel 1906. (Van Sommer e Zwemmer, 1907). Il sottotitolo del libro è A Cry of Needs from the Lands of Darkness Interpreted by Those Who Heard It. ( Grida d’aiuto dalle Terre Oscure interpretate da coloro che le hanno udite). Parlando di dolore, isolamento, poligamia, e velo che hanno fatto appassire le vite delle donne nel mondo musulmano, le missionarie parlavano delle propria responsabilità nel far sentire le voci di queste donne.  Come sostiene l’introduzione ” Non piangeranno mai per sè stesse, perchè sotto il giogo di secoli d’oppressione” (1907: 15). “Questo libro con la sua triste, usata storia di errori ed oppressione è un’accusa ed un appello….E’ l’appello alla sorellanza cristiana, perchè corregga questi errori e illumini di sacrificio e servizio quest’oscurità.”(1907: 5)

Oggi è possibile sentire inquietanti echi di tali virtuose promesse, anche se il linguaggio si è laicizzato, e gli appelli si fanno non nel nome di Gesù ma dei diritti umani o dell’Occidente liberale. La continuità ininterrotta di immagini e sentimenti può essere rintracciata nel loro schierarsi per cause umanitarie perfettamente buone.

Nel febbraio 2002, sono stata invitata al ricevimento in onore di un’organizzazione umanitaria internazionale, Médecins du Monde/ Doctors of the World (MdM). Col patrocinio dell’Ambasciatore francese negli U.S.A., del Capo delegazione della Commissione Europea alle Nazioni Unite, e di un membro del Parlamento Europeo, il ricevimento prevedeva la presentazione di una mostra fotografica dal titolo stereotipato de “Le donne afghane: al di là del velo”

L’invito era notevole, non solo per la foto colorata di donne in burqa ondeggianti che camminavano sulle aride montagne afghane, ma anche per il testo, che cito in parte:

Per 20 anni MdM ha lottato senza sosta per aiutare chi è più vulnerabile. Ma in misura crescente, spessi veli nascondono le vittime della guerra. Quando i Talebani salirono al potere nel 1996 le donne afghane divennero senza volto.  Togliere il velo durante le cure mediche era  entrare in confidenza, ricavarsi un piccolo spazio di libertà segreta, ritrovare un poco della propria dignità. In un paese dove le donne non hanno accesso all’assistenza medica di base perchè non hanno il diritto di apparire in pubblico, e dove non possono diventare medici, il programma di MdM si è stagliato come ostinato memento dei diritti umani… Unitevi a noi nel sollevare il velo.

Anche se non posso qui riprendere le fantasie di intimità associate all’atto dello s-velare, che  ci riportano alle ossesioni del colonialismo francese così brillantemente smascherate da Alloula ne L’Harem Coloniale (1986), posso domandarmi perchè i progetti umanitari e il discorso sui diritti umani nel XXI secolo necessitino di fondarsi su tali costruzioni della donna musulmana. Non potremmo lasciarci dietro veli e vocazioni di salvare gli altri e battere invece altre vie per rendere il mondo un po’ più giusto? Il motivo per cui il rispetto della differenza non va confuso con il relativismo culturale è che il primo non ci impedisce di chiederci perchè, vivendo sulla faccia privilegiata e potente del mondo, dobbiamo esaminare le nostre responsabilità per le condizioni in cui altri, lontani, si sono ritrovati.

Non dobbiamo chiamarci fuori dal mondo, guardando al di là di questo mare di povera gente arretrata, che vive all’ombra- o sotto il velo- di culture oppressive; noi siamo parte di quel mondo. Gli stessi movimenti islamici si sono costituiti in un mondo condizionato dalle intense influenze occidentali in Medio Oriente. Più proficuo, mi pare, è chiedersi come dovremmo contribuire a fare del mondo un posto più giusto. Un mondo non organizzato secondo strategie militari ed esigenze economiche; un posto in cui certe forze e certi valori che possiamo ancora considerare importanti, potrebbero avere ancora la propria capacità di attrarre, e dove si trovi pace abbastanza per la discussione, il dibattito, e le trasformazioni che avvengono nelle comunità.

Dobbiamo domandarci quali condizioni potremmo contribuire a creare nel mondo, tali che i desideri popolari non risultino surdeterminati da uno schiacciante senso di impotenza, a dispetto delle forme dell’ingiustizia globale. E laddove cerchiamo di attivarci per le condizioni di  luoghi distanti, possiamo farlo con lo spirito di chi sostiene coloro che, all’interno di quelle comunità, si pongono l’obiettivo di rendere la vita delle donne -.e degli uomini- migliore? (come ha sostenuto Walley in relazione alla pratica delle mutilazioni genitali in Africa, 1997) Possiamo optare per un linguaggio più egualitario, fatto  di alleanze, coalizioni, e solidarietà, piuttosto che di salvezza? Anche  RAWA, l’oggi celebrata Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’ Afghanistan, così strumentalizzata nel portare all’attenzione delle donne americane gli abusi dei Talebani, si è opposta, fin dal principio, ai bombardamenti, non considerandoli una salvezza per le donne afghane ma causa di povertà crescente e di morte.

Hanno a lungo invocato il disarmo e le forze di peacekeeping. Le  portavoce sottolineano il pericolo insito nel confondere i governi con i popoli, i Talebani con gli Afghani incolpevoli, che restano i più colpiti. Richiamano con forza a considerare attentamente i modi in cui le politiche sono state incentrate intorno agli interessi petroliferi, l’industria bellica, e il traffico internazionale di stupefacenti. Non sono ossessionate dal velo, anche se rappresentano le femministe più radicali, all’opera per un Afghanistan democratico e laico. Sfortunatamente sono state ascoltate solo per le parole sugli abusi dei Talebani, anche se la loro critica del potere ha incluso i regimi precedenti.  Rompere con il linguaggio delle culture estranee, non importa se utilizzato per comprenderle o per eliminarle, è un primo passo nel prestare ascolto al loro composito messaggio. Le missioni e il femminismo coloniale appartengono al passato. Il nostro compito è considerare criticamente ciò che potremmo fare per contribuire a creare un mondo in cui quelle povere donne afghane, per le quali “i cuori di quelli che abitano il mondo civilizzato si dolgono”, possano vivere in sicurezza e dignità.

*****

[1] Lila Abu Lughod è una ricercatrice d’origini palestinesi che si occupa di Antropologia e Women’s Studies presso la Columbia University di New York. L’articolo qui tradotto è del 2002.

[2] WASP è l’acronimo di White, Anglo-Saxon, Protestant, indicante quello che a tutt’oggi è, negli Stati Uniti il gruppo sociale più influente, che rappresenta ancora la parte più cospicua dell’upper class americana. Essere WASP significa non appartenere alle minoranze etnico-religiose che negli U.S.A hanno una storia, passata e recente, di subalternità. Inoltre l’acronimo segnala anche i connotati razzisti impliciti in buona parte della storia degli Stati Uniti.

[3] La sociologa marocchina Fatema Mernissi, docente presso l’Università di Rabat, ha pubblicato nel 2006 un libro dal titolo L’harem e l’Occidente (Giunti ed., 2006) in cui sosteneva la tesi provocatoria che il burqa dell’Occidente è la taglia 42. Con un’analisi tagliente delle nevrosi delle donne occidentali – sottoposte alla tirannia del tempo rappresentata dall’equazione giovinezza=bellezza e  imposta  dal potere maschile, la sociologa fa rilevare quegli aspetti di paradossale isolamento e segregazione pubblica che anche in Occidente colpiscono le donne, solo secondo altri parametri: il maschio bianco padroneggia la donna attraverso il tempo, quello musulmano attraverso lo spazio. Il simbolo della segregazione spaziale della donna islamica è l’harem, una costruzione chiusa, dalla quale le donne non possono uscire, mentre “il chador occidentale è definito dal tempo”.

[4] Il “movimento della moschea” è un movimento ormai globale che raccoglie donne islamiche in ogni parte del mondo. A dispetto di quanto avveniva in tempi più antichi, in cui donne e uomini musulmani spesso pregavano insieme, dividendo lo stesso spazio, nei secoli le restrizioni spaziali della partecipazione femminile alla preghiera nelle moschee si sono fatte più intense. L’inizio simbolico del movimento, che unisce molte donne nella richiesta di partecipazione alla vita religiosa delle moschee, e di libero accesso agli spazi sacri, si data convenzionalmente intorno alla metà degli anni ’90, Nel SudAfrica post-apartheid, quando una moschea di Cape Town invitò l’influente teologa afro-americana Amina Wadud a tenere una conferenza. Per la prima volta molte donne parteciparono all’incontro in moschea insieme agli ultimi. Ci furono subito anche molte crtiche e minacce da parte dei più tradizionalisti. Le donne del movimento – spesso identificato anche come una forma di “femminismo islamico”- in particolare fanno appello a quello che sostengono essere il messaggio autentico e primo del Corano, che sarebbe stato rivelato a uomini e donne parimenti, e hanno sempre guardato  alla preghiera comune intorno alla Kaabah de La Mecca, pratica curiosamente dissonante con la segregazione abituale delle donne nelle moschee in tutto il mondo, come al vero modello di partecipazione religiosa islamica. Quando nel 2006 le autorità, locali avevano stabilito con un nuovo provvedimento che le donne invece avrebbero dovuto pregare separatamente anche in quella occasione, le proteste non sono tardate, e su scala globale. Aisha Schwartz, del Muslimah Women’s Alliance di Washington aveva subito fatto circolare una petizione, Grand Mosque Equal Access for Women, che, raccogliendo migliaia di firma ha fatto desistere l’amministrazione dai propositi segregazionisti, annullando il provvedimento. Attualmente il “movimento della moschea” rappresenta, a prescindere dalle enormi differenze che oggettivamente esistono tra il tradizionale femminismo occidentale e il cosiddetto “femminismo islamico”, una innegabile manifestazione di vitalità e rinnovamento femminile all’interno del mondo musulmano, a cui è necessario guardare con grande attenzione.

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