La preghiera del venerdì a Palazzo Nuovo : un bel bagno di realtà.
Cosa ci insegna la Palestina. Questo è stato il contenuto politico del discorso di Brahim Baya a Palazzo Nuovo occupato all’interno del momento di preghiera di venerdì scorso tenutosi in Università.
Le parole del suo discorso condannano il colonialismo sionista, occidentale, che è colonialismo di insediamento, dicendo “pretendevano che quella fosse una terra senza popolo ma non hanno calcolato che c’è un popolo ma non un popolo come gli altri, ma il popolo Palestinese”.
E poi Brahim, per spiegare cosa significhi la resistenza palestinese, parla di jihad “nel senso più alto del termine”, come il contributo di tutti gli uomini, le donne, i bambini alla lotta di liberazione.
Un discorso che ha scomodato un po’ tutti, chi proviene da una storia della sinistra costruita anche nella lotta contro le istituzioni religiose e chi si rintana nelle nicchie del moralismo democratico. La formuletta della laicità invocata da destra a sinistra in questo caso diventa specchietto per le allodole e presupposto da problematizzare. In una fase di governo in cui la Presidente del Consiglio assume posizioni più conservatrici e retrograde del papa, chi ancora crede nella libertà democratica o è cieco o vuole esserlo. Sono state aperte le porte agli scagnozzi provita nei consultori per condannare l’aborto e ci si appella alla laicità in un Paese in cui il potere religioso è presente in tutte le sfere della vita pubblica, dalla scuola agli ospedali.
Prese di posizione vecchie e che fanno quasi sorridere quelle dei docenti intervistati dai quotidiani, previa una selezione ben precisa per perorare la linea della condanna all’occupazione e al blocco della didattica, che si sperticano sulle barricate del sapere libero dalla scure dell’oscurantismo religioso. Appiattirsi sul discorso che confonde pratiche religiose musulmane con violenza e terrorismo fa parte del processo di islamofobia galoppante nelle nostre società. Così come appellarsi all’argomentazione femminista per legittimare la condanna a questa vicenda, in particolare da parte della dimensione intermedia universitaria, è una classica argomentazione islamofoba che smuove la “sinistra” neoliberale. La realtà, come spesso accade, supera di molto le presunzioni e infatti vediamo che nell’ “intifada studentesca” l’avanguardia del movimento è data da giovani donne, giovani donne arabe, che in questa lotta assumono protagonismo.
La questione va approfondita a partire da un’analisi di alcune categorie interpretative che occorre oggi risignificare e decostruire per impostare le basi di un ragionamento che vada in una direzione di potenziamento delle lotte. Da un lato, il concetto di laicità per l’occidente e, dall’altro, il rifiuto della separazione della vita pubblica e di quella privata del mondo musulmano, in quanto esiste un’articolazione del rapporto alla vita e alla pratica politica che mette il “religioso” in uno spazio che non è esterno. Rispetto a questo ci riferiamo a una delle tesi principali di Talal Assad1, antropologo dell’islam, che sostiene che la categoria di “religione” è una categoria cattolico-centrata. L’islamofobia dunque non è soltanto razzismo, è una forma di eurocentrismo che non comprende come venga concepita la pratica politica musulmana.
Tutte le testate mainstream e la galassia di sinistra inorridiscono soprattutto davanti al riferimento alla jihad, intendendolo come un’esplicita allusione a Daesh all’interno dell’università. Non solo nessuno commenta nel merito delle parole di Baya – che dice nel suo discorso “che questo loro [dei palestinesi] dramma, questa loro sofferenza, diventi una forma di jihad” – ma in più nessuno sembra sapere che il termine jihad prima di tutto significa la “ricerca di una condotta virtuosa” nella vita quotidiana. Ciò che non è recepibile per l’occidente è che ci sono dei contesti storici in cui la jihad è la lingua delle lotte decoloniali e la Palestina si integra in questa storia anticoloniale.
La volontà, radicata nella storia coloniale europea, di collegare sempre jihad a guerra santa e quindi agli attentati di Al Qaïda o Daesh impedisce di vedere una verità storica: la dimensione religiosa, e quindi di jihad, è sempre stata presente nelle lotte di liberazione nazionale contro i coloni occidentali. Ed è in questa storia anticoloniale che si colloca la resistenza palestinese. Per uno sguardo occidentale la nascita di Al Qaeda e l’irruzione di Daesh in Europa diventano la sintesi di quel mondo, legittimando così razzismo e islamofobia. I governi occidentali hanno poi approfittato dell’occasione per attuare una repentina svolta securitaria.
Il fondo di questa vicenda è stato toccato da un corsivo su (non a caso) Repubblica che addirittura tira fuori vicende storiche legate all’Autonomia Operaia degli anni ‘70 per giocarle contro l’intifada studentesca di oggi: la tesi è che mentre negli anni ‘70 tra giovani dell’Autonomia e resistenza palestinese esisteva un orizzonte condiviso che consisteva nella rivoluzione socialista, oggi invece i giovani italiani ed occidentali sarebbero in qualche modo “subalterni” perché guidati dal senso di colpa per il “privilegio bianco”. Sproloqui: la verità è che sta crescendo una solidarietà globale tra giovani e giovanissimi molto concreta che è basata su un’esperienza comune di privazione di possibilità, di un futuro sempre più triste ed invivibile, su una coscienza anti-imperialista e anti-coloniale rinnovata, che si manifesta con intensità differenti a seconda che uno nasca negli Stati Uniti, in Italia o in Africa centrale, ma che si manifesta ovunque. La lotta del popolo palestinese per l’autodeterminazione è diventata un simbolo anche per questo, perché molti e molte al di là dell’appartenenza religiosa, di genere, di razza si identificano. Questa solidarietà ad ora non ha un’identità politica compiuta, ma senza dubbio è da questo incontro che possono nascere itinerari di liberazione dentro una dialettica nuova.
La pratica religiosa degli occupanti musulmani di Palazzo Nuovo disturba non solo perchè sono musulmani, e quindi intrinsecamente potenziali terroristi, ma anche perchè il rifiuto di delimitare e separare la fede dalla vita quotidiana e politica è profondamente estraneo alla modernità occidentale. Di fronte a questo dato di fatto, occorre fare una riflessione seria, di cui sicuramente manchiamo e su cui necessitiamo di un grado di approfondimento maggiore, sulla storia coloniale e il ruolo del secolarismo al suo interno.
Oggi in Italia ci troviamo per la prima volta davanti a un passaggio storico che ci pone delle questioni che non possiamo permetterci di guardare attraverso lenti superate. Ci troviamo davanti a un movimento che ha delle forme nuove, delle nuove alleanze possibili, delle nuove esigenze e delle nuove spinte. La solidarietà e la volontà di fare qualcosa di concreto per la Palestina qui alle nostre latitudini si muove prima di tutto nel campo dell’idealismo e dell’adesione alla “giusta causa” per i tanti e le tante giovani presenti nel movimento studentesco. A Torino poi c’è una peculiarità, ossia la stretta relazione e la capacità di aver lavorato e cooperato con la dimensione delle moschee e della comunità musulmana in città. Chi partecipa alla mobilitazione sono soggetti con il proprio portato storico e ideologico, con il proprio specifico mondo di appartenenza ma che oggi si trova a lottare fianco a fianco con giovani, studenti, organizzazioni politiche della sinistra “antagonista” e dell’autonomia. In questa fase si apre uno spazio di convergenza strategica che è ciò su cui è interessante lavorare per potenziare il movimento.
Ci possono essere due modi per rapportarsi a questo, il paternalismo colonialista o il non temere cosa si sta configurando e stare nelle contraddizioni. In questo preciso frangente si sta delineando un terreno sul quale occorre confrontarsi, perché oggi stiamo lottando all’interno dello stesso campo. Non si tratta qui di dover difendere la libertà di culto o il pluralismo religioso, si tratta di essere consapevoli che l’elemento religioso rappresenta una delle leve nel presente e sarà motore delle lotte sociali del futuro, è anche questo quello che ci insegna la Palestina. Così come in Val di Susa i cattolici della Valle hanno da sempre avuto il loro posto e da sempre dato il loro contributo al movimento no tav, così nelle metropoli occidentali dei figli di seconda e terza generazione, il posto della religione e dell’uso di essa come possibilità di riscatto e di controsoggettivazione è un dato. Un dato di proporzioni enormi che deve anche farci rendere conto che siamo di fronte a una sfida, quella di un’opzione, l’islam politico, che è molto più potente e radicata nelle composizioni sociali che esprimono potenziale conflittualità rispetto all’opzione di una rivoluzione comunista oggi. Allo stesso tempo sarebbe superficiale assumere una posizione essenzialista che legga queste dimensioni come monolitiche, anzi, l’adesione o meno a un’identità religiosa non è da leggere in maniera deterministica. Per noi, il contenuto politico delle pratiche religiose è ciò che ci deve interessare, e che ci fa dire che quella preghiera non è un problema, anzi. Così come non si può fare finta di non vedere che esistono forme di islam politico che sono il nostro avversario politico.
Dentro queste dimensioni sociali, spurie, potenzialmente alleate bisogna stare, senza paura di sporcarsi le mani perché la religione copre uno spazio importante, in quanto soggetti che provengono da una storia politica ben precisa. Una storia che la sinistra ha in un certo modo abbracciato, nel corso degli anni, con i movimenti religiosi come il cattolicesimo rosso degli anni 70 o i movimenti degli eretici valdesi o dei rivoluzionari in Sud America, perché in quanto tali hanno contribuito a costruire istanze sociali progressiste. Lungi da noi fare parallelismi affrettati, qui si tratta di un invito per tutti gli indignati del momento, dalla borghesia di sinistra ai compagni atei, a fare un bel lavoro di riflessione e un bel bagno di realtà. Non si può fingere che la realtà oggi non sia questa, la dialettica interna e propria al movimento studentesco oggi, al di là delle strutture politiche, ma nella sua forma più eterogenea e spontanea assume queste rigidità, è pregna di conflitti e impone questi termini del discorso. Sta al resto della società rapportarcisi per quello che è, nelle sue più dure contraddizioni.
1 The Idea of an Anthropology of Islam. Center for Contemporary Arab Studies, 1986.
Genealogies of Religion: Discipline and Reasons of Power in Christianity and Islam. The Johns Hopkins University Press, 1993.
Formations of the Secular: Christianity, Islam, Modernity. Stanford University Press, 2003
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