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Le due destre finanziarie ed il corto circuito della crisi


Misure fortemente volute dalla Germania che, per salvare l’euro e mantenere una posizione privilegiata negli scambi commerciali globali (con le esportazioni tedesche più remunerative di quanto sarebbero con un ipotetico marco apprezzato – e quelle dei paesi mediterranei dell’Eurozona – dei quali consumatori il potere d’acquisto è fortemente depresso – in affanno), ha chiesto ed ottenuto la radicalizzazione delle politiche di lotta all’inflazione e tagli alla spesa sociale intutti i paesi dell’Unione, ed il rinvio al prossimo vertice europeo di marzo della decisione sull’istituzione di titolieuropei (eurobond) e della creazione di un’unione fiscale comunitaria.

 

Una politica completamente e compiutamente ideologica, che quindi non fa i conti con le cause strutturali della crisi del debito sovrano europeo. Manca qualsiasi misura di crescita; paesi come Spagna ed Irlanda scontano un elevato livello di debito privato, che è inutile affrontare con politiche economiche pubbliche restrittive; mentre è tutta da vedere un’effettiva capacità del Consiglio di sanzionare la Germania in caso di sforamento del vincolo del 3% al proprio rapporto deficit/PIL (come avvenuto in passato).

Altro strumento introdotto dal vertice è il Meccanismo di Stabilità Europeo: un fondo salvastati permanente, sotto maggiore controllo da parte della BCE rispetto al vecchio ESFS (con il quale si effettuavano prestiti ai paesi in difficoltà), da avviare entro la prima metà del 2012 e che disporrebbe di liquidità pari a 500 miliardi di euro. A questi si aggiungerebbero 200 miliardi di euro destinati dai membri dell’unione al Fondo Monetario Internazionale, organismo presieduto dalla Francia e che tiene già sotto tutela tre stati europei – Grecia, Irlanda e Portogallo.

 

Tuttavia l’accordo non è ancora operativo: andrà approvato per via parlamentare o referendaria entro marzo, e in questo potrebbe trovare difficoltà d’implementazione a causa del suo carattere intergovernativo (quindi meno vincolante di un’assunzione a livello comunitario). Tuttavia, per i paesi più deboli, l’adesione all’unione fiscale sembra una strada obbligata, davanti alla recessione incombente ed alla difficoltà di rifinanziare il proprio debito.

 


Cameron ed il protezionismo finanziario britannico

 

Ma il dato principale a caratterizzare l’ennesimo pronunciamento comunitario è il rifiuto della Gran Bretagna di aderirvi. Appoggiato inizialmente da Svezia, Repubblica Ceca ed Ungheria (quest’ultima in grave dissesto economico) Cameron si è tuttavia ritrovato solo davanti alla fermezza del duo Merkozy, e costretto ad abdicare alla pressione euroscettica dell’ala destra del suo partito. La quale – forte dell’appoggio di un gruppo di 80 parlamentari e di una nutrita truppa di influenti amministratori locali, tra i quali Boris Johnson, potente sindaco conservatore di Londra – cerca di capitalizzare la paura e la diffidenza espresse verso Bruxelles da parte di frange della City e larghe fasce della popolazione inglese, rese evidenti dal successo di partiti come lo xenofobo United Kingdom Independence Party di Nigel Farage alle elezioni europee. Una spinta allo sganciamento dagli accordi comunitari che se puntasse al divorzio definitivo del regno insulare dal continente provocherebbe la caduta del governo, sostenuto dai voti degli eurofili liberaldemocratici.


Una decisione dunque profondamente influenzata da equilibri e clientele interne, che da una parte ha suscitato le preoccupazioni dei megafoni del potere finanziario (dall’Economist al Financial Times) che, pur infierendo sulle difficoltà della moneta unica, temono che con il divorzio britannico dalla governance economica europea venga meno il condizionamento in senso liberista ed il dogma del mercato unico finora esercitato verso quelle istituzioni.

 

Per altri versi, invece, ha prodotto sdegno: grande l’ira di Sarkozy messo pesantemente sotto attacco dalle agenzie di rating (statunitensi, ma anche cinesi) alla vigilia di un anno elettorale, e quindi fautore di una tassa sulle transazioni finanziarie, oltre che di provvedimenti di regolazione degli intermediari borsistici (in ciò coadiuvato dal connazionale Michel Barnier, commissario UE al mercato unico) maggiormente responsabili della crisi. Le cui radici perfino Vittorio da Rold sul Sole 24 Ore riconosce risalire al “Big Bang” della City londinese del 1986; il processo di deregolamentazione

sfrenata del mercato borsistico che ha inaugurato la stagione delle bolle speculative degli anni ’90 e 2000.

E la cui conclusione è stata l’ascesa dell’industria finanziaria britannica, arrivata a pesare il 10% del PIL nazionale e, in quanto tale, difesa tenacemente dal suo governo in tutti i successivi passaggi di stesa di accordi multilaterali. Un protezionismo sui generis, in cui ad essere difesi non sono sussidi statali o dazi alle importazioni ma l’autonomia degli intermediari finanziari britannici rispetto alle istanze ed alle regole di un’Europa a cui non basta il mercato unico, ma che ha bisogno di passaggi di accentramento del comando fiscale per esercitare autorevolezza politica.


Mf Global ed il corto circuito tra debito sovrano e privato

 

Ma non finisce qui. Dietro all’accanito protezionismo finanziario della Gran Bretagna ed al polverone sollevato attorno alla crisi del debito sovrano europeo si cela la fragilità di quel “sistema bancario ombra” di prodotti derivati e transazioni occulte di cui la City è l’epicentro globale, presso cui le stesse compagnie statunitensi aprono filiali per dirottarvi le operazioni più speculative. Come nel caso delle Re-Ipoteche: al contrario degli USA, dove è possibile ipotecare un titolo fino ad un massimo del 140% del suo valore, nel Regno Unito del Big Bang è possibile farlo infinite volte, generando enormi profitti grazie agli interessi della leva.

 

Una pratica denunciata dal blog ZeroHedge e finita sotto i riflettori della stampa economica globale dopo il crac della società di brokeraggio statunitense MF Global, guidata da Jon Corzine (ex-governatore democratico del New Jersey ed ex-direttore di Goldman Sachs). La scoperta di ammanchi nei bilanci dell’istituto, dopo il suo crollo dovuto alle eccessive sofferenze maturate verso i fondi sovrani dei PIIGS (sui quali le istituzioni finanziarie angloamericane e non avevano intensificato la pressione durante l’estate per rimuovere i governi ritenuti inadeguati a fronteggiarne l’impennata) rischia di produrre il corto circuito definitivo tra le due facce della crisi finanziaria globale: quella degli intermediari borsistici e quella del debito statale.


Una spirale che in un anno di recessione economica come quello che si prospetta porterebbe ad un ulteriore e devastante credit crunch: che finirebbe per scavare profondi solchi, non solo economici, tra i vertici della governance occidentale. E davanti ad un evento del genere non ci saranno Bot-day, misure di austerità o prestidigitazioni borsistiche che tengano. Occorre continuare ad inchiestare il debito, entrare nel merito dei rapporti di potere che esso pone e degli interessi specifici su cui si sedimenta, isolare le sue declinazioni nei territori per individuarne i flussi da mettere a vertenza, rispondere al default operato dall’alto con il blocco dei terminali dell’economia necrogena e la riappropriazione di spazi, tempi, legame sociale e comunicazione che tanto efficacemente il movimento Occupy Wall Street ha saputo mettere in atto.

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