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l’Occidente che uccide:retoriche vuote per giustificare l’ingiustificabile.

L’idea che si possa “difendere la civiltà” a suon di bombe e crimini di guerra è il paradosso fondativo del progetto coloniale. E oggi è il cuore della propaganda bellica israeliana, e di chi la sostiene in Occidente.

di Donia Rafaat, 17 Giugno 2025 da Invicta Palestina

Mi preoccupa seriamente che in Occidente ci siano ancora così tante (troppe) persone che portano avanti la retorica secondo cui sia in atto una guerra del bene contro il male, della luce contro le tenebre, del mondo civilizzato contro i barbari, in cui questi sono incarnati da chiunque non sia occidentale o non si allinei ai valori occidentali.
Questa contrapposizione manichea non è solo filosoficamente rozza, ma è anche politicamente pericolosa. E la stessa logica che ha giustificato guerre preventive, occupazioni, torture, attacchi di droni e massacri, nel nome della libertà. È la stessa retorica con cui oggi si racconta la brutalità coloniale di Israele come “autodifesa” o peggio ancora come missione civilizzatrice.

Bisogna essere davvero intellettualmente disonesti per continuare a prendere sul serio l’ideologia dello “scontro di civiltà” teorizzata da Samuel Huntington. Una teoria che,
nonostante l’enorme successo mediatico e politico, è stata oggetto di critiche feroci e
diffuse nel mondo accademico per la sua superficialità, determinismo culturale e
incapacità di cogliere le vere dinamiche alla base dei conflitti globali.
Secondo questa visione semplicistica e fuorviante, i conflitti del XXI secolo non sarebbero più motivati da interessi economici, contese territoriali o ideologie politiche, bensì da differenze culturali e religiose considerate fisse, essenziali e irrimediabilmente inconciliabili. Un’idea che riduce le complessità geopolitiche a una narrazione binaria e tribalista, dove l’“Altro” è sempre una minaccia ontologica.
Questa teoria, priva di solide basi empiriche, si è trasformata rapidamente in una comoda giustificazione per politiche securitarie e interventiste, in particolare dopo l’11 settembre. È diventata l’ossatura retorica della cosiddetta “guerra al terrore”, in cui i gruppi terroristici non sono più trattati come reti criminali da disarticolare, ma come espressione organica di un’intera “civiltà nemica” da stigmatizzare, isolare e, in alcuni casi, annientare.
Il risultato è stato un discorso pubblico polarizzato e un ordine internazionale sempre
più segnato da sospetto, islamofobia e legittimazione della violenza preventiva, dove la complessità delle cause viene schiacciata sotto la retorica dello scontro inevitabile tra “noi” e “loro”.

Nel suo capolavoro Orientalism (1978), Said dimostra che questa rappresentazione non nasce da un’esplorazione neutrale dell’altro, ma è uno strumento di dominio: l’Oriente esiste solo come oggetto del sapere e del potere occidentale.
L’orientalismo”, quindi, non è solo un modo di vedere il mondo: è un modo di possederlo, di classificarlo, di intervenire su di esso. E il linguaggio della superiorità mascherato da curiosità, della conquista travestita da missione etica. E quando oggi sentiamo dire che Israele starebbe bombardando “democraticamente” Gaza, o l’Iran, o qualunque altra entità designata come “barbara” “terrorista”, “minaccia esistenziale” siamo di fronte all’ennesima reincarnazione dell’orientalismo.
Lidea che si possa “difendere la civiltà” a suon di bombe e crimini di guerra è il paradosso fondativo del progetto coloniale. E oggi è il cuore della propaganda bellica israeliana, e di chi la sostiene in Occidente.

Todorov, nel suo libro La paura dei barbari (2008), smonta con forza la retorica occidentale secondo cui “noi” rappresentiamo la luce e “l’altro” le tenebre.
Todorov ricorda che la barbarie non è un attributo culturale o geografico, ma si manifesta ogni volta che si nega l’umanità dell’altro.
Il vero pericolo, dice Todorov, non è essere invasi dai barbari, ma diventarlo nel tentativo di difenderci da questi nemici immaginari che altro non sono che uno specchio per le allodole per ottenere dominio sulle altre popolazioni. E cosa c’è di più barbarico che bombardare ospedali, rifugi, campi profughi in nome della democrazia?

Dietro le guerre preventive, le leggi antiterrorismo che calpestano i diritti, i muri e i respingimenti, non c’è una reale minaccia esterna, ma la costruzione paranoica di un nemico assoluto. E questa costruzione serve non a difendere la democrazia, ma a sospenderla per giustificare la violenza, l’esclusione e il dominio su altri popoli.
Chi ha un minimo di capacità di pensiero critico, non può che rifiutare l’idea che l’identità debba essere difesa tramite l’esclusione.

La vera civiltà non è quella che si protegge chiudendosi, ma quella che accoglie il pluralismo, che sa convivere con la differenza. E, soprattutto, la democrazia non può
essere difesa tradendone i principi. Quando una “democrazia” pratica l’apartheid,
l’occupazione, il bombardamento sistematico di civili, non sta difendendo sé stessa:
sta annientando la propria legittimità.

Tutto ciò che oggi accade in Palestina, e nei confronti di qualunque “‘altro” venga
designato come nemico (l’iraniano, il profugo, il musulmano, il non allineato), è parte
di un dispositivo retorico e geopolitico ben oliato. Un dispositivo che pretende di
giustificare l’ingiustificabile in nome di una moralità superiore. Ma questa moralità è
finta. È un’etica vuota, costruita sulla morte dell’altro. E non c’è tirannia peggiore di
quella esercitata all’ombra della legge e sotto il calore della giustizia.

Il mondo non è diviso in buoni e cattivi, in luce e tenebre. È diviso, semmai, tra chi
detiene il potere di costruire narrazioni e chi subisce le conseguenze di quelle
narrazioni. Tra chi ha il privilegio di essere ascoltato e chi viene silenziato. Tra chi può
bombardare e chi può solo morire. E in questo squilibrio, la cultura, se vuole essere
davvero libera e critica, ha il dovere di smascherare le menzogne del potere.

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