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Lo Xinjiang ed il Chinese Dream

Di maggioranza etnica uigura (musulmana), lo Xinjiang è stato travolto negli ultimi 30 anni dalle migrazioni di massa dell’etnia han, quella maggioritaria in Cina. Migrazioni che si sono accompagnate alla presa di tutte le posizioni di maggior rilievo a livello amministrativo ed economico. Raggiungendo livelli di crescita double-digit, ma senza riuscire a placare l’opposizione al modello di sviluppo messo in campo da Pechino, che è riuscita però a pareggiare di fatto la composizione etnica della regione, con gli uiguri e gli han ormai dotati della stessa quota di popolazione.
La reazione non è mancata da parte della popolazione locale, con furibonde rivolte contro gli “usurpatori han”, protagonisti di un nuovo episodio della politica cosiddetta della “sommersione etnica” (migrazioni di massa nelle regioni a vocazione separatista) già sperimentata ai tempi del Tibet. Reazione che si sarebbe anche composta, a detta degli organi di stampa più legati al governo, di una serie di attentati terroristici: l’ultimo qualche giorno fa fuori dalla stazione di Canton, fortunatamente conclusosi senza vittime.

Questo attentato però arriva dopo quanto successo durante l’ultimo giorno di visita ufficiale del presidente Xi ad Urumqi, ovvero dopo quello che è il primo attentato suicida tramite autobomba avvenuto in Cina, che ha provocato tre morti e diverse decine di feriti. Attentato che a sua volta seguiva un altro episodio accaduto fuori dalla stazione di Kunming nel marzo scorso, quando alcune persone armate di coltelli uccisero 29 persone. Ma soprattutto, tutti questi avvenimenti sono successivi ai fatti dell’ottobre scorso, quando una macchina si fece esplodere in piena piazza Tienanmen, probabilmente in protesta contro l’abbattimento da parte del governo di una moschea nello Xinjiang.
Tutti attentati attribuiti dal governo alle forze separatiste dello Xinjiang, le quali però, oltre a non esistere in quanto esplicita organizzazione politica di alcun tipo, non hanno proceduto ad alcun tipo di rivendicazione di quanto successo. Molto più probabilmente, sono gesti di singoli, vicini alle pratiche qaediste ma allo stesso tempo stremati da ogni tipo di angheria. Gesti che però rischiano di avere effetti negativi sulle già stretta agibilità politica di chi si oppone alle politiche governative, dissenso che venne alla ribalta soprattutto nei riots di Urumqi del 2009 che lasciarono sul campo quasi 200 morti e migliaia di feriti.

Qualunque governo dall’11 settembre in poi ha sperimentato con chiarezza come le pratiche di attacco terroristico non possano essere affrontate con gestioni di ordine pubblico classiche. La facilità di riprodurre attacchi di questo tipo rende impossibile un controllo capace di bloccare a prescindere; non servirono la guerra permanente e la paranoia securitaria ad evitare le stragi di Londra, Madrid, Boston, solo per fare alcuni esempi. La soluzione o è politica, o semplicemente non è.
Il governo cinese, nonostante questo assunto, sfrutta a suo piacimento questa situazione, ne ottiene legittimità basata sulla paura amplificata a mezzo stampa. Può impostare un discorso pubblico di criminalizzazione etnica, che consolidi l’appoggio popolare alla strategia attuata nella regione, ma che allo stesso tempo rinfocoli le passioni nazionalistiche, sia in appoggio al governo in carica sia contro i nemici che a livello geopolitico attaccano la Cina (Giappone, Filippine, con alle loro spalle gli USA).

Inoltre è utilizzata anche la strategia del divide et impera, con la sovraesposizione mediatica di una lettera scritta da 11 studenti uiguri che invitavano la propria etnia a sollevarsi “contro terrorismo ed estremismo religioso”, e gli interventi a mezzo stampa di personalità del mondo intellettuali dello Xinjiang che richiedono la pena di morte contro i terroristi ormai scevri da ogni forma di umanità residua. Lo stesso capo del partito nella regione, Zhang Chunxian, si è esposto parlando della necessità di una “guerra di popolo” contro la minaccia separatista.
Ma questa situazione è agevole soprattutto per imporre uno stretto controllo sociale sulla popolazione cinese a livello complessivo. Una tattica non nuova, la stessa usata negli Stati Uniti ai tempi del Patriot Act e in Italia ad esempio con il pacchetto sicurezza di qualche anno fa. Utilizzare panico seguito agli attentati al fine di alimentare il consenso verso nuove politiche securitarie, con il suggello di numerosi esperti che nei loro commenti sui quotidiani contribuiscono ad alimentare la sensazione di precarietà e insicurezza che si respirerebbe nelle strade.

Basti pensare a Pechino. Tienanmen è inaccessibile senza superare prima un controllo della polizia, idem ogni accesso alle stazioni della metropolitana. Sugli organi ufficiali del partito si susseguono analisi richiedenti l’ampliamento del numero delle forze dell’ordine in borghese; contemporaneamente, questi punti di vista si esprimono favorevolmente sulla possibilità di implementare l’utilizzo di tecnologia avanzata a fine di controllo sociale, ovvero di implementare politiche di workfare che permettano lauti profitti alle aziende specializzate nel campo della sicurezza.
Ma non è solo questione di ordine interno. Ci sono motivazioni anche geopolitiche. Innanzitutto lo Xinjiang è la regione di Kashgar, area in cui il governo sta costruendo una nuova Zona Economica Speciale, ovvero un distretto economico nel quale le agevolazioni per gli investitori interni stranieri sono enormi, a livello di tassazione e di controllo sul rispetto degli standard riguardanti le condizioni di lavoro. L’idea è di replicare il modello vincente di Shenzhen, città del Guangdong passata da essere un villaggio di pescatori ad una delle città baricentro dell’economia cinese nel breve volgere di trent’anni. Un progetto questo, che rende necessaria la stabilità nella zona per non spaventare gli investitori.

Ma lo Xinjiang (in cinese Nuova Frontiera) è anche la porta della Cina verso l’Asia Centrale, nonché il luogo da cui dovrebbe nascere uno dei grandi progetti del governo, ovvero la Nuova Via della Seta. Una costruzione ferroviaria di 11,000 chilometri che collegherà la Cina (a partire da Xi’an) all’Italia. A quale pro? Ridurre i tempi di trasporto delle merci cinesi, che devono ancora affrontare il viaggio via mare, più lungo e dispendioso. Un passo in avanti enorme, a livello logistico, sulla strada del commercio tra i 30 paesi che dovrebbero essere attraversati dall’opera.

Ma ovviamente le infrastrutture che dovranno essere costruite per il progetto, insieme a quelle che serviranno alle politiche di estrazione mineraria, di urbanizzazione, di incentivazione del turismo (una delle voci più in crescita date la straordinarie risorse paesaggistiche del territorio), sono target di possibili attacchi terroristici. E allora ecco perché nell’ultimo suo viaggio nella regione il presidente Xi Jinping ha detto che quanto succede in Xinjiang è fondamentale per l’intera Cina. Perché assicurare lo sviluppo in Xinjiang significa assicurare la tenuta del modello voluto dalla dirigenza del PCC, che è quello che dovrebbe e vorrebbe realizzare ingenti profitti dalla “modernizzazione” dello Xinjiang e in generale delle regioni centrali e occidentali del paese.
Una modernizzazione pagata a caro prezzo dalle popolazioni, sia che si vedano requisita la terra per finanziare i progetti di urbanizzazione (come accade in tante province cinesi), sia che come nel caso dello Xinjiang si vedano di fatto calpestare e defraudare delle proprie risorse. Ma la posta in gioco è troppo alta, e non a caso Xi Jinping ha dichiarato che “azioni decisive” saranno presto prese per stabilizzare la regione. La determinazione del governo ad andare dritto sulla propria strada sembra ormai sempre più inscalfibile.


Chongtu

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