“Un pugno di odio grondante” Intervista a Phil A. Neel
Trumpismo, guerra e militanza
Il 2024 è stato un anno denso di eventi significativi. La complessità è in movimento, la vediamo accelerare nelle trasformazioni politiche, elettorali o meno, nei venti di guerra che spirano in tutto il globo, nei fenomeni sociali e politici sempre più difficili da interpretare con le chiavi di lettura tradizionali.
Per provare a fornirci di qualche strumento più accuminato per interpretare il presente abbiamo intervistato Phil A. Neel geografo comunista ed autore del libro “Hinterland. America’s New Landscape of Class and Conflict”. Il suo libro, di cui purtroppo manca la traduzione italiana, è una delle più interessanti ricostruzioni della relazione tra catene del valore, geografia politica e composizione di classe negli Stati Uniti che hanno portato alla prima elezione di Donald Trump. Non solo, l’interpretazione del capitalismo contemporaneo, della globalizzazione su cui poggia “Hinterland” è solida e offre molti spunti di lettura che trascendono la specificità del contesto USA.
Abbiamo diviso questa intervista in tre sezioni partendo dalla rielezione di Trump, ampliando poi il ragionamento al contesto globale ed accennando infine ad alcune questioni legate alla militanza.(Cliccando sulle parole linkate puoi navigare nell’articolo andando direttamente ad una delle tre sezioni)
Buona lettura!
Qui la versione in inglese
Rielezione di Trump
Come è cambiata, se è cambiata, la coalizione trumpiana in questi quattro anni?
Bene, qui ci sono due domande leggermente diverse. La prima riguarda la coalizione di Trump, ovvero le forze dell’élite che sostengono la sua candidatura alla presidenza. La seconda riguarda le persone che hanno votato per lui, che ovviamente sono un gruppo molto più ampio. Per quanto riguarda la prima domanda, la base del sostegno a Trump non si è realmente modificata. Mike Davis ha fatto un’ottima analisi su questo aspetto a partire dalle elezioni del 2020, che rimane il commento più importante su Trump. Davis sostiene che, oltre ai normali sostenitori istituzionali delle candidature repubblicane, come chi ha interessi collegati all’energia e gli appaltatori della difesa, il vero pilastro della coalizione di Trump potrebbe essere trovato tra gli interessi della borghesia “lumpen” “in gran parte periferici rispetto ai siti tradizionali del potere economico” e concentrati in “luoghi dell’entroterra come Grand Rapids, Wichita, Little Rock e Tulsa, le cui fortune derivano dal settore immobiliare, dal private equity, dai casinò e da servizi che vanno dagli eserciti privati all’usura a catena”. Questi sono, in altre parole, i feudi minori che governano le “aree statistiche micropolitane”, che sono spesso di carattere extraurbano, o che fanno le veci della cosa più vicina a una “città” in regioni prevalentemente rurali.1
Un esempio particolarmente utile è quello dei concessionari d’auto, che vendono macchine (per lo più usate) direttamente ai consumatori. Questo è il tipo di lavoro che la gente spesso vede come un’impresa fondamentalmente “working class”, simile alle piccole imprese gestite da imprenditori edili. Non producono nulla e sono, essenzialmente, solo intermediari commerciali. In realtà, sia i concessionari d’auto che gli imprenditori edili sono tra le professioni più diffuse nel top 0,1% dei percettori di reddito statunitensi, con guadagni superiori a 1,58 milioni di dollari all’anno. Per quanto riguarda le concessionarie d’auto, oltre il 20% di esse è di proprietà di individui che guadagnano più di 1,5 milioni di dollari.2 Non si tratta certo dei maggiori interessi capitalistici, anzi spesso hanno interessi in conflitto con quelli delle “grandi imprese”. Tuttavia, non c’è alcuna ambiguità sul fatto che si tratti di uomini d’affari e che quindi costituiscano un segmento della borghesia. Nonostante ciò, sebbene non abbiano alcun legame reale con la classe operaia, il loro carattere “lumpen” confonde gli ingenui liberali urbani, che tendono a leggere la classe attraverso indicatori culturali e credenziali tecniche. Così questi uomini d’affari sembrano essere una “classe operaia bianca” perché magari hanno solo un’istruzione liceale e indossano giacche Carhartt (che ovviamente sono sempre un po’ troppo pulite). In Hinterland mi sono quindi riferito a questi interessi borghesi come alla “dinastia Carhartt”.
Ci sono stati cambiamenti importanti in questa coalizione negli ultimi anni? Non alla radice, no. Tuttavia, il potere dimostrato da questa base ha iniziato ad attrarre un numero crescente di industriali e strateghi politici che sostengono cose che certamente assomigliano alle prime fasi di un programma politico fascista classico: così figure come Musk, Thiel e il miliardario libertario Jeff Yass (un importante investitore in TikTok e finanziatore di think tank di estrema destra in Israele) si sono uniti a sostenitori consolidati come Timothy Mellon e Miriam Adelson. Ciò è stato visibile anche nello scandalo del Project 2025, scritto in parte da Kevin Roberts, uno strano cattolico quasi falangista che ha sostituito la più tradizionale conservatrice Kay Cole James come presidente della Heritage Foundation nel 2021. Trump stesso, tuttavia, è piuttosto ambiguo a questo proposito e, contrariamente ai timori iperbolici che egli possa annullare la democrazia, l’inerzia delle istituzioni consolidate della classe dirigente vedrà molto probabilmente la sua seconda amministrazione tendere verso le convenzionali norme di governo statunitensi, proprio come ha fatto nella sua prima amministrazione. Coloro che dipingono Trump come un “fascista” non fanno altro che annacquare il termine. È fondamentalmente il vostro classico conservatore bianco boomer.
Invece per quanto riguarda la composizione sociale del suo elettorato?
Risponderò a questa domanda con una certa cautela, poiché è un po’ troppo presto per dire con certezza cosa si è spostato e dove – non abbiamo ancora dati del tutto affidabili e stiamo lavorando solo con le informazioni dei sondaggi. Ciononostante, ha votato solo il 64% circa della popolazione avente diritto, una percentuale inferiore a quella del 2020 ma ancora storicamente alta. In particolare, Trump ha vinto il voto popolare, diventando il primo candidato repubblicano a riuscirci in decenni. Ma ricordiamo anche che solo circa 245 milioni di persone erano eleggibili (cioè hanno diritto di voto, NdT), pari a circa il 70% dei 335 milioni di abitanti degli Stati Uniti. I restanti non eleggibili sono minori che non possono ancora votare, pregiudicati a cui è stato tolto il diritto di voto o immigrati che non hanno mai avuto diritto al voto negli Stati Uniti. Quindi, come in ogni elezione statunitense, la decisione è stata presa da meno della metà della popolazione. E gli studi hanno costantemente dimostrato che i più poveri tra gli aventi diritto al voto sono i meno propensi a votare, quindi i dati sono sempre falsati verso l’alto. Ad esempio, nelle elezioni di metà mandato del 2022, circa il 58% dei proprietari di casa aventi diritto al voto ha votato, mentre solo il 37% degli affittuari aventi diritto lo ha fatto. Nelle stesse elezioni, ha votato circa il 67% degli aventi diritto al voto con un reddito superiore ai 100.000 dollari, contro appena il 33% di quelli con un reddito inferiore ai 20.000 dollari.3 Quindi, come in ogni elezione, invito sempre a non confondere i dati di voto con i dati demografici: se l’X per cento degli elettori ispanici, ad esempio, ha votato per Trump, non significa che l’X per cento della popolazione ispanica sostenga Trump. Se i dati sulle votazioni dimostrano qualcosa, tendono a dimostrare gli spostamenti ideologici tra gli strati più ricchi e il cambiamento dei modelli di non voto tra gli strati più poveri.
Detto questo, sembra che si siano verificati due grandi spostamenti: molti elettori ricchi (100k+) si sono spostati verso i democratici e il crollo della base di elettori democratici al di sotto di quel livello di reddito ha fatto apparire un crescente sostegno per Trump tra le fasce di reddito più basse. Non si tratta però di spostamenti “verso” Trump, poiché sono causati da un’emorragia di voti democratici in generale, in particolare in Stati come il Texas e la Florida. E, in contrasto con la narrativa della “Trump Country” che contrappone una città democratica a una campagna repubblicana, il crollo della base democratica ha visto anche la perdita di milioni di voti in tutte le aree metropolitane, anche nel centro delle grandi città. Nella misura in cui una di queste cose è stata causata da un “guadagno” di voti per Trump, questo guadagno sembra essere marginale. Dove sembra essersi verificato un effettivo spostamento verso Trump? Forse tra gli elettori non bianchi più ricchi, in particolare tra gli elettori ispanici. Questo spostamento sembra essere superiore a quello causato dal crollo della base democratica. In parte, si tratta di una continuazione di tendenze già visibili nelle elezioni precedenti, incentrate su territori di confine come la Rio Grande Valley in Texas. Ma in questo ciclo si è estesa anche alle aree urbane centrali, come Philadelphia.4 E non è sorprendente. Qualcosa del genere è stato previsto da decenni negli studi sulle popolazioni immigrate negli Stati Uniti e chiunque abbia seguito l’evoluzione dell’estrema destra negli ultimi 30 anni ha notato la stessa tendenza.
In Italia i media, più che altro di orientamento liberale, hanno trattato i fatti di Capitol Hill del 6 gennaio 2021 come un momento di follia collettiva o un tentativo di colpo di stato e subito dopo hanno rimosso quanto accaduto. Trump era considerato politicamente finito. Cosa hanno rappresentato quegli avvenimenti negli Stati Uniti al di fuori del circuito istituzionale e mediatico?
È stato un evento molto confuso, più una farsa carnevalesca di insurrezione che una cosa vera. Ma chissà. Se in futuro le forze di destra acquisiranno più potere, forse l’evento sarà visto come qualcosa di simile al Putsch della Birreria5: la farsa che prefigura la tragedia, piuttosto che il contrario. Chi pensava che questo indicasse che Trump fosse “finito” semplicemente non capisce come funziona la politica. Credono al mito liberale secondo cui coloro che sono dotati di potere statale sono tenuti a mostrare una certa cordialità, cosa che ovviamente non è mai stata vera. Il loro atteggiamento nei confronti del processo penale contro Trump è stato simile, ritenendo che un criminale non avrebbe mai potuto essere eletto Presidente. In definitiva, bisogna ricordare che i liberali sono il tipo di persone che attribuiscono molta importanza a cose come il valore delle credenziali, dell’istruzione, della fedina penale pulita: tutti i vuoti significati culturali che possono distinguerti dalla classe operaia. Per loro, l’assalto al Campidoglio può solo rappresentare un’inconcepibile follia che affligge il corpo politico e che segnala la rottura delle gerarchie che dovrebbero strutturare qualsiasi società ragionevole. E, in effetti, è in questo atteggiamento che potremmo trovare il germe genuino del fascismo, piuttosto che nei confusi scarabocchi lasciati sui corridoi del Congresso.
In Italia, la parola chiave per spiegare la vittoria di Trump è inflazione. “Percepita” o reale a seconda dell’orientamento politico del commentatore. In un articolo del 2022 spiegavi che l’inflazione non è altro che l’epifenomeno di qualcosa di più profondo nel capitalismo contemporaneo (abbiamo tradotto questo articolo). Due anni dopo quali valutazioni aggiungeresti?
Eppure nel 2016 Trump è stato eletto in condizioni di deflazione, quando i tassi di interesse erano ai minimi storici o quasi. Quindi, questo non può essere il quadro completo. L’ondata inflazionistica ha certamente giocato un ruolo in quella che viene convenzionalmente descritta come “ansia economica”, e la rabbia per lo stato dell’economia è stata un fattore centrale nelle elezioni. Ma Trump non ha offerto alcun programma per ridurre l’inflazione. In realtà, se le tariffe da lui proposte saranno attuate, quasi certamente daranno vita a un nuovo ciclo di inflazione. Piuttosto che agitare il tema, ha semplicemente incanalato la rabbia verso obiettivi più facili. In effetti, la cosa più notevole di queste elezioni, a mio avviso, è che nessuno dei due partiti ha presentato essenzialmente alcun programma. Trump ha semplicemente sproloquiato sugli immigrati, ha fatto gestacci verso la Cina e ha premuto tutti i tasti giusti della guerra culturale. Soprattutto, ha alimentato la giusta rabbia per i problemi economici che devono affrontare tutti coloro che guadagnano stipendi inferiori a sei cifre. Dall’altro lato, invece, Biden e Harris non hanno fatto altro che darsi pacche sulle spalle, sembrando sinceramente convinti che le politiche che avevano attuato fossero storie di successo ampiamente riconosciute, dimostrando così ancora una volta di essere completamente distaccati dalla realtà.
Immaginate per un momento di essere un americano medio che va a prendere qualcosa in farmacia. Immaginate di non essere in nessun posto speciale: non in una delle grandi metropoli costiere o nelle “micropoli” conservatrici. Forse in una di quelle grandi città appiattite che si estendono nei deserti del sud. Quindi entrate in questo Walgreens e diciamo che siete ad Albuquerque, dove la prima cosa che vedrete è una delle guardie pesantemente armate, vestite in mimetica, messe in campo dalla società di sicurezza privata ingaggiata dalle aziende del centro città. Superate il mercenario sorridente e attraversate la fila di forse un centinaio di persone che attendono per ore di accedere alla farmacia con poco personale, dove alla fine verrà detto loro che la compagnia assicurativa non coprirà il costo del farmaco prescritto dal loro medico perché non ha ottenuto l’autorizzazione preventiva ordinata dalla compagnia assicurativa per contenere i costi. Forse sentirete qualcuno di loro chiacchierare in fila di come temono che il loro edificio venga venduto a qualche immobiliarista di Santa Fe che vuole triplicare l’affitto o di come sono dovuti fuggire dalle case distrutte dal devastante incendio di Mora e non hanno ancora ricevuto il rimborso della FEMA (Ente federale per la gestione delle emergenze, NdT). Altri si strofinano inconsciamente le ferite subite durante i turni di 10 ore al magazzino di Amazon, appena a ovest della città, vicino al confine con i Pueblos, con le tasche piene di ibuprofene.
Vi farete strada tra i corridoi, notando che ogni singolo spazzolino da denti e tubetto di dentifricio è dietro un vetro antiproiettile. Anche le caramelle, il detersivo per il bucato e, naturalmente, il latte artificiale. L’unico membro del personale corre avanti e indietro dak registratore di cassa per sbloccare le diverse sezioni del negozio, con il respiro pesante e sul punto di crollare, e il suo sudore emana quel sottile sentore di ammoniaca che fa pensare a una malattia endocrina, quelle piaghe che hanno un’affinità speciale con i poveri. La cosa per cui siete venuti è esaurita, così come un gran numero di articoli, e non c’è altro che celle vuote con un cartellino del prezzo dietro il vetro, come se quel che costasse fosse l’aria stessa. Prendete un sacchetto di patatine senza un motivo particolare e aspettate che il cassiere torni dalla sua corsa, con le chiavi che tintinnano come catene. Al netto delle tasse, il sacchetto di patatine vi costa quasi un’ora intera di lavoro al salario minimo nazionale. Immaginate poi di vedere queste due campagne: i Democratici che si congratulano per la loro amministrazione ben gestita che ha visto “benefici storici” per “la gente che lavora”, e i Repubblicani che non fanno altro che immergere una mano in quel profondo, oscuro, pozzo di sangue che si trova sotto il continente, tirando fuori un pugno di odio grondante.
Quindi sì, l’inflazione gioca un ruolo importante, ma è solo una piccola parte di ciò che sta accadendo. I costi delle abitazioni si sono gonfiati anche in epoca “deflazionistica”. E, in effetti, c’è un’enorme divergenza tra l’inflazione “percepita” negli acquisti comuni fatti dalle persone in contesti quotidiani (come il gas, il cibo, l’alloggio, ecc.) e l’inflazione “di base” che cerca di misurare un livello di prezzi “sano” all’interno dell’economia nel suo complesso.6 E, come spiega l’articolo che hai citato, l’inflazione è essa stessa un epifenomeno di cambiamenti più ampi che si verificano nella produzione globale.7 Il più importante di questi è quello che io chiamo “regionalizzazione” della produzione globale, che spesso viene scambiato per “deglobalizzazione”, ma che in realtà è soprattutto una questione di crescita del commercio tra Cina e Stati Uniti che ristagna, mentre la crescita del commercio con i partner “vicini” è alle stelle, soprattutto in Eurasia. Il risultato è una regionalizzazione delle reti di produzione, con ogni regione reintegrata nelle reti di produzione globali in modi nuovi. Così, ad esempio, le catene di approvvigionamento in Cina non sono diventate meno importanti – non c’è stato alcun “delinking” della Cina negli Stati Uniti in senso legittimo – ma ora sono anche instradate nelle catene di montaggio dell’Asia meridionale e sudorientale, del Messico e dell’Europa orientale. La sofferenza che i poveri stanno affrontando qui negli Stati Uniti è ovviamente legata anche a questi cambiamenti. L’aumento dei dazi imposto sia da Trump che da Biden, unito all’aumento dei salari in Cina e all’innalzamento dei tassi d’interesse dopo la pandemia, è servito a indebolire ulteriormente il sussidio de facto di cui gli americani hanno goduto durante i decenni della globalizzazione, quando la crescita stagnante dei salari era tollerabile solo perché poteva essere compensata con merci a basso costo e credito a libero flusso. La Grande Recessione ha segnato la prima fase di erosione di questo sussidio e la crisi post-pandemia segna la seconda.
Quindi stai dicendo che la svolta dell’amministrazione Biden verso la “politica industriale”, visibile in cose come l’Inflation Reduction Act, si è dimostrata inefficace, e questo è parte del motivo per cui la piattaforma economica di Trump si è dimostrata popolare?
Non proprio. È discutibile l’effetto di questi nuovi sussidi dell’era Biden, ma è chiaro che in alcuni settori stanno generando nuovi investimenti in modo abbastanza efficace. Ma non è questo il vero problema. Il problema è che nessuno dei due partiti ha presentato alcun programma o piano che si sia dimostrato in grado di generare effettivamente molta occupazione o di far crescere i salari reali: gli aumenti salariali nominali dopo la pandemia sono stati interamente assorbiti dall’inflazione. Trump ha promesso di portare decine di migliaia di posti di lavoro nelle fabbriche del Wisconsin grazie a un accordo con la Foxconn che non è stato, in nessun modo o forma, nemmeno lontanamente possibile perché semplicemente non era redditizio. Non è ancora redditizio produrre la maggior parte dei beni negli Stati Uniti, soprattutto quelli che richiedono grandi quantità di manodopera non qualificata. E di certo non è redditizio farlo se si vuole offrire qualcosa che si avvicini a un salario di sussistenza. Quindi, cosa è diventata la grande fabbrica Foxconn promessa nel Wisconsin? Microsoft acquista il terreno e lo trasforma in un centro dati che impiega una piccola manciata di persone.
Questo segna il passaggio alle politiche dell’era Biden, che hanno visto un “successo” limitato nello stimolare selettivamente nuovi investimenti attraverso misure come l’Inflation Reduction Act, proprio perché queste politiche si rivolgevano ai settori a bassa occupazione dove gli investimenti erano già più probabili. La maggior parte dei nuovi investimenti stimolati da queste politiche ha quindi riguardato i settori a bassa occupazione, come la produzione di batterie. In altri settori, come quello della produzione di veicoli elettrici, i sussidi hanno certamente aiutato le principali case automobilistiche ad espandere la capacità produttiva, ma questo ha anche effettivamente ridimensionato la produzione in termini occupazionali, poiché i veicoli elettrici richiedono, in media, meno lavoratori per essere prodotti. Anche se inizialmente questi impianti sembrano impiegare più lavoratori, ciò ha più a che fare con i tassi di utilizzo della manodopera più elevati comuni nelle prime fasi della produzione e con una maggiore integrazione verticale, che rende visibile una parte maggiore dell’occupazione perché un numero maggiore di persone che svolgono il lavoro sono direttamente impiegate dall’azienda piuttosto che da subappaltatori.8 In altre parole, la rinascita della politica industriale è stata in grado di affrontare alcuni aspetti del problema degli investimenti proprio perché ignora il problema più profondo dell’occupazione.
Puoi approfondire questo problema dell’occupazione? Sembra collegato a questioni più ampie che discuti nel suo lavoro, come la questione del “surplus di popolazione”. Non c’è davvero alcuna possibilità che queste nuove politiche industriali riportino i posti di lavoro nel settore manifatturiero?
Possiamo suddividere la questione in tre diversi aspetti. Il primo è l’immiserimento assoluto, visibile nella disoccupazione di lunga durata e in forme di abiezione estrema come la prigione, i senzatetto e tutte le persone in fuga da conflitti e catastrofi ambientali che compongono una quota enorme della popolazione migrante. Quando si parla di “eccedenza di popolazione”, concetto marxiano ormai piuttosto noto, si pensa di solito a questi esempi estremi. E non è del tutto sbagliato, solo che non è tutta la verità. Perché la “popolazione eccedente” è molto, molto più ampia di questa e questi esempi sono, nella maggior parte dei luoghi, ancora casi eccezionali che non rappresentano la norma – anche se il numero di persone esposte a questo tipo di abiezione assoluta sta crescendo. Nella misura in cui Trump e Harris hanno messo in campo politiche per affrontare la crisi occupazionale, hanno offerto in gran parte soluzioni punitive: deportazioni di massa, un rafforzamento dei controlli alle frontiere e la proposta di politiche anticrimine ancora più aggressive. Anche nella “liberale” California, ad esempio, abbiamo visto approvare una serie di misure aggressive “anticrimine” e respingere una proposta per vietare la schiavitù carceraria.
In secondo luogo, c’è la “sottoccupazione” di vario tipo, che comprende persone con lavori precari che non portano abbastanza denaro in modo costante, o disoccupati che cercano attivamente lavoro. Ma tra le fasce più importanti di questo secondo gruppo ci sono i “non occupati”. Questo gruppo è cresciuto in modo sostanziale negli ultimi due decenni, facendo scendere il tasso di partecipazione alla forza lavoro a qualcosa come il 60%.9 Come fa a sopravvivere questo quaranta o giù di lì della popolazione in età lavorativa? Il pensionamento dei baby boomer è una spiegazione parziale e, negli anni 2020, i pensionati erano arrivati a comporre la quota maggiore. Ma rappresentano solo la metà dei non partecipanti. E il pensionamento non può spiegare l’analogo aumento della mancata partecipazione tra coloro che si trovano nella “prima età lavorativa” (tra i 25 e i 54 anni). Alla fine degli anni 2010, poco meno della metà delle persone tra i 25 e i 54 anni che non facevano parte della forza lavoro erano assistenti di qualche tipo, in particolare di familiari malati o anziani. Questo numero è aumentato significativamente negli anni 2020. Circa un terzo percepiva il sussidio di disabilità, che negli anni ’80 e ’90 ha sostituito l’assistenza sociale come strumento di sostegno pubblico più pesante sul bilancio negli Stati Uniti.10 Nel frattempo, la quota di studenti è diminuita all’interno della popolazione totale non partecipante e, tra coloro che erano in età lavorativa, alla fine del decennio 2010-2020 rappresentava solo l’8% del totale.11 A parte i fondi pensione, la maggior parte del reddito di questi individui deriva dalla famiglia, non dai servizi sociali (anche per i disabili). Le famiglie con “non partecipanti” in età lavorativa sono inoltre rappresentate in modo sproporzionato nel quinto più povero della distribuzione del reddito.12
Il terzo è un altro tipo di carenza, che potremmo definire come mancanza di lavoro dignitoso. Ora, ovviamente, non esiste un lavoro decente, perché l’intero sistema salariale è solo una presa in ostaggio che vi costringe a vivere secondo i capricci dell’azienda. Ma pensiamo a un lavoro “decente” come a un lavoro che permetta di pagare l’affitto o addirittura il mutuo, di mantenere i figli e magari anche il partner, di avere accesso all’assistenza sanitaria e di avere qualche risparmio. Non è un’idea troppo azzardata, ma non è nemmeno la realtà che la maggior parte di noi sta vivendo. Perché? Beh, ha a che fare con l’esclusione della maggior parte della popolazione dai settori centrali, ad alta produttività, che sono i veri motori della crescita economica. Il risultato è un “mercato del lavoro duale” dominato dal lavoro di servizio e in cui questi servizi sono divisi tra una piccola minoranza di posti di lavoro ad alto salario e una grande maggioranza di posti di lavoro a basso salario, questi ultimi spesso al servizio dei primi. I mercati del lavoro duali sono anche associati ad afflussi di immigrati, poiché si tratta di settori a bassa produttività come la ristorazione, il lavoro di pulizia, l’assistenza all’infanzia e persino l’edilizia, dove la spesa per i salari costituisce una parte molto ampia dei costi totali e quindi la redditività richiede essenzialmente bassi salari.13 Tra le industrie manifatturiere che non possono essere facilmente delocalizzate, gli orari lunghi, il lavoro pericoloso e i salari estremamente bassi sono la norma, così come gli scandali periodici sui lavoratori pagati al di sotto del salario minimo o sui bambini costretti a lavorare negli stabilimenti di confezionamento della carne.
Si è parlato ovviamente di “riportare (negli USA NdT) buoni posti di lavoro” dall’estero. Ma questo ha avuto un impatto limitato. Forse la cosa più vicina a una storia di successo è la crescita non di buoni posti di lavoro ma di nuove occupazioni manifatturiere a basso salario nel Sud degli Stati Uniti, spesso guidate da IDE14 in entrata da aziende dell’Asia orientale, che poi generano occupazione in subappalto presso i fornitori di componenti. Ma questi non sono lavori “decenti”. Infatti, sono state aziende come questa a essere al centro degli scandali sul lavoro minorile nel Sud un paio di anni fa, dove i bambini lavoravano fino a 60 ore a settimana negli stabilimenti di componenti per auto dell’Alabama che rifornivano le vicine fabbriche Hyundai e Kia.15 In generale, la realtà è stata più o meno la stessa: crescita nei settori a bassa occupazione ma con salari più alti con la presunzione che questa piccola manciata di lavoratori meglio pagati spenderà poi quel reddito nelle comunità locali. Quindi, ad esempio, gli ingegneri che lavorano in uno dei due enormi stabilimenti di batterie sovvenzionati a livello federale che stanno aprendo nella cittadina di Moses Lake, WA, spenderanno i loro soldi nei supermercati locali, acquisteranno immobili locali, assumeranno tate locali per i loro figli, verseranno nella base imponibile locale, ecc., generando così una serie di lavori di servizio a basso salario attraverso la loro spesa aggregata. In geografia economica chiamiamo questo “impiego indiretto” e questo effetto moltiplicatore è una parte estremamente importante di come i governi locali calcolano il potenziale “valore” di qualsiasi investimento. Ma ovviamente non è nemmeno il tipo di base occupazionale che può fornire lavori dignitosi per tutti, perché la disuguaglianza tra salari alti e bassi salari è insita nella dinamica di base: il reddito di un ingegnere non può essere realmente suddiviso in così tanti pagamenti di “salario dignitoso” per servizi sussidiari.
Quanto hanno inciso, se hanno inciso, la guerra in Ucraina e il genocidio a Gaza in queste elezioni?
Il genocidio a Gaza è stato quasi certamente importante, forse decisivo. Anche un minimo di riconoscimento da parte di Harris e lo scheletro di base di un piano di cessate il fuoco le avrebbero probabilmente fatto vincere le elezioni semplicemente attirando il voto dei giovani. Sulla base dei dati del sondaggio prima delle elezioni e delle interviste con i giovani condotte in seguito, è chiaro che Gaza ha avuto un ruolo enorme nel calo del sostegno dei giovani ai democratici, nonostante non sia stata la “preoccupazione principale” per la maggior parte degli elettori. La situazione è, in effetti, piuttosto surreale a prima vista. Questa è un’atrocità storica mondiale commessa davanti ai nostri occhi, condotta con i soldi delle nostre tasse, il tutto meticolosamente documentato. La maggior parte degli americani ha costantemente dimostrato di disapprovare l’azione militare israeliana (sebbene il numero fosse più vicino al 50/50 proprio all’inizio) e, tra i giovani, a disapprovarla è una schiacciante maggioranza. Questa maggioranza di giovani ha condotto proteste di massa, chiedendo agli Stati Uniti di unirsi alla maggior parte della comunità internazionale nel sanzionare Israele. Non c’è assolutamente alcuna ambiguità in questa situazione. E tuttavia il consenso liberale è stato esattamente l’opposto: che qualsiasi critica al genocidio costituisce “antisemitismo”, che Israele è del tutto giustificato e che non c’è semplicemente alcun dubbio sul fatto che i soldi delle tasse statunitensi continueranno a essere utilizzati per massacrare civili e operatori umanitari. Al contrario, la guerra in Ucraina non è stata particolarmente importante per le elezioni, anche se forse il voto di Trump ha ricevuto una leggera spinta per le preoccupazioni sui costi, ma si può vedere la stessa logica spaventosa in gioco. Non è una sorpresa, ma è certamente terrificante vedere tutti i tipi “liberali equilibrati” trasformarsi in falchi di guerra assetati di sangue da un giorno all’altro.
Contesto globale
Alcuni parlano di de-globalizzazione, altri di decoupling: cosa ci dicono le catene del valore capitaliste?
Come detto sopra, non c’è alcuna prova di “deglobalizzazione” o di un sostanziale “decoupling” delle economie statunitense e cinese. Ma c’è stata una relativa stagnazione nella crescita del commercio sia in Cina che negli Stati Uniti e, in particolare, tra i due. Quindi la polarità della produzione planetaria che si è formata nell’era della globalizzazione ha, di fatto, iniziato a rompersi, il commercio tra paesi non ricchi è aumentato e le catene di fornitura sono diventate più regionalizzate anche se il capitale (visibile nel movimento degli investimenti, nell’uso del dollaro come valuta commerciale, ecc.) rimane interamente globale e ancora in gran parte dominato dalle aziende statunitensi. Potremmo dire che i collegamenti commerciali e di produzione regionali sono diventati più densi, che entrambi sono distribuiti tra un numero crescente di nodi e che i lunghi collegamenti globali tra queste regioni sono stati ridotti e persino reindirizzati in una certa misura. Ma queste reti di produzione continuano a funzionare sullo stesso substrato di base: dollari statunitensi e capitale dalle aziende leader con sede nei paesi più ricchi. Allo stesso tempo, tuttavia, nei segmenti di minor valore del commercio globale, i prodotti manifatturieri cinesi sono diventati ancora più dominanti, così come i prodotti agricoli brasiliani e il petrolio e il gas russi (ora commercializzati illecitamente).
Come si inserisce la guerra in questo quadro?
Bene, la prima domanda è: quale guerra? Forse la caratteristica più notevole del momento è l’aumento dei conflitti armati in tutto il mondo, anche ai margini dell’Europa. Sebbene nessuno di questi conflitti sia ancora una guerra “importante”, non sono più nemmeno piccoli. Né sono le lunghe campagne di controinsurrezione decennali e le forme di conflitto civile a combustione lenta che erano aumentate di frequenza negli ultimi decenni. Sono invece vere e proprie guerre regionali che, dal 2020, hanno coinvolto almeno tre dei dieci eserciti più grandi (in base al numero di membri attivi) del mondo: quelli di Russia, Ucraina ed Etiopia. Il maggior numero di vittime militari è stato, finora, nella guerra russo-ucraina, mentre il maggior numero di vittime civili è stato nella guerra del Tigray. In entrambi i casi, ciascuna di queste guerre ha visto più morti nei primi due anni rispetto al numero totale di vittime in Iraq nel corso di due interi decenni, inclusa l’invasione americana iniziale. Nel frattempo, la guerra civile in Sudan, che ha le sue radici nella soppressione della rivoluzione sudanese e si è ora evoluta in una guerra per procura (che coinvolge paesi come gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e l’Egitto) per il controllo dei flussi di oro alle sorgenti delle catene di approvvigionamento globali, ha visto circa tre milioni di persone fuggire dal paese e otto milioni e mezzo diventare sfollati interni. Nel complesso, ciò rappresenta quasi un terzo della popolazione totale del paese. E, sebbene i numeri totali di Gaza siano molto più bassi rispetto a quelli altrove, la natura del genocidio in corso è ovviamente la più atroce di tutte.
Tutto ciò è certamente correlato, almeno lontanamente, alla frammentazione delle catene del valore globali. Ad esempio, il governo di destra in Polonia, che ha visto i maggiori aumenti di spesa militare al mondo negli ultimi anni, ora si sta posizionando come il “salvatore dell’Europa”. Non a caso, la Polonia ha anche visto una delle più rapide crescite commerciali nello stesso periodo di tempo, poiché le reti di produzione dell’Europa orientale sono diventate sedi centrali per le aziende leader (in gran parte tedesche) che si sono diversificate dagli investimenti diretti in Cina. Allo stesso modo, nel mezzo del suo genocidio, il governo israeliano accenna a un futuro corridoio commerciale indo-israeliano che offrirebbe una rotta alternativa verso il Pacifico. Ma è anche importante non essere troppo meccanici. Mentre possiamo collegare grandi tendenze economiche strutturali come il rallentamento dei tassi di crescita, la frammentazione del commercio e l’ascesa di alcune potenze economiche periferiche all’aumento generale del conflitto, raramente ha senso attribuire semplici cause economiche a una singola guerra. Allo stesso modo, anche se Gaza sembra comprimere la logica del nostro sistema sociale – e più in generale l’abiezione della condizione proletaria – in una concisa calligrafia di violenza, dare troppo peso ad analogie vaghe comporta il rischio di equiparare l’eccesso alla necessità, come se la configurazione specifica delle forze sociali in un particolare momento storico fosse semplicemente l’espressione predeterminata delle forze strutturali sottostanti che l’hanno causata. In realtà, è vero il contrario: le contraddizioni immanenti alla produzione capitalista generano una turbolenza intrinseca nel sistema che, superando una certa intensità, genererà un caos auto-rafforzante irriducibile alla sua causa iniziale. In definitiva, non è del tutto corretto, quindi, dire che il genocidio a Gaza è “causato” da una sorta di tendenza politico-economica sottostante, anche se potrebbe essere “condizionato” o addirittura “abilitato” da queste forze. L’atrocità in sé è chiaramente causata, nell’immediato, dai nazionalisti israeliani virulentemente razzisti che hanno lavorato per decenni per creare le condizioni in cui un genocidio sarebbe diventato possibile e che ora sono impegnati a mettere in atto sistematicamente il genocidio da loro pianificato.
Su larga scala, sia che si tratti di conflitti aperti o di una crescente competizione nella catena di fornitura, stiamo “semplicemente” parlando di cambiamento egemonico?
L’idea che siamo in un “interregno” tra l’egemonia statunitense e quella cinese è di per sé un’immagine ideologica creata dall’operazione del potere imperiale statunitense stesso, che viene poi utilizzata per rafforzare tale potere.16 Se si considera l’intera storia dell’egemonia statunitense, dalla seconda guerra mondiale in poi, quasi ogni singolo decennio è stato caratterizzato da previsioni di imminente declino, presumibilmente evidenziato dall’ascesa di nuovi sfidanti in Asia. All’inizio della Guerra fredda, era la minaccia di un’Unione Sovietica tecnologicamente avanzata che aveva lanciato nello spazio sia il primo satellite che il primo essere umano. Pochi decenni dopo, il nemico era il Giappone, che aveva goduto di alcuni dei tassi di crescita economica più rapidi visti in qualsiasi parte del mondo fino a quel momento. E poi, naturalmente, arrivò la Cina. In ogni caso, le previsioni non solo si rivelarono sbagliate, ma furono anche utilizzate per riaffermare gli interessi statunitensi in tutto il mondo. Questo argomento è stato utilizzato per raccogliere denaro per guerre per procura e armamenti nucleari veri e propri durante la Guerra Fredda, per implementare tariffe severe contro il Giappone e, in ultima analisi, imporre un accordo monetario (il Plaza Accord) che ha innescato una profonda depressione economica durata decenni. Oggi, la stessa narrazione viene utilizzata dai guerrafondai americani che sperano di erodere i magri progressi della Cina, innescare un crollo politico-economico ancora più devastante attraverso il Pacifico e tingere di sangue lo Stretto di Taiwan.
Forse ancora più importante, quando osserviamo l’effettivo processo storico di transizione egemonica sotto il capitalismo, di cui abbiamo fondamentalmente uno, forse due esempi legittimi, ci sono alcune cose che risaltano: in primo luogo, il processo sembra richiedere un lungo periodo di guerra “importante” per essere completato, in cui gli apparenti successori della potenza leader possono cambiare rapidamente. Pochi ricordano oggi, ad esempio, che la Germania era un tempo considerata in vantaggio sugli Stati Uniti nella sua competizione con l’Impero britannico perché era in prima linea nell’innovazione industriale globale. In secondo luogo, le transizioni egemoniche non sono mai state in realtà semplici conflitti frontali. Invece, il potere egemonico di alcune frazioni vagamente nazionali del capitale e delle istituzioni governative che le servono è sempre stato incarnato nel controllo sulla finanza, sulla valuta del commercio globale e su un esercito mondiale dominante, e questi fattori sono cambiati di mano tanto attraverso la cooperazione quanto attraverso un conflitto diretto. I cambiamenti egemonici sono stati, fino ad ora, fondamentalmente dinamiche agglomerative, in cui nuovi nuclei di capitale formatisi con l’aiuto dei nuclei più vecchi finiscono per sostituire quei vecchi nuclei, dapprima gradualmente e poi rapidamente in una sequenza di crisi e guerra. Ma, il più delle volte, vecchi e nuovi si ritrovano alleati in molti di questi grandi conflitti, anche se possono essere concorrenti industriali sotto altri aspetti.17 Terzo, ogni cambiamento nell’egemonia è stato anche un cambiamento nella scala geografica, il che significa che qualsiasi futuro egemone dovrebbe assumere una forma di governance più o meno globale per la quale attualmente non esiste alcun modello.
Allo stesso tempo, è anche ovvio che si sta verificando una sorta di cambiamento e che ha qualcosa a che fare con l’Asia. Quindi, cosa sta realmente accadendo? E perché il nostro momento storico sembra sia il segnale di un cambiamento nell’egemonia e, allo stesso tempo, non sembra esserlo sufficientemente? I cambiamenti nella geografia di base della produzione globale aiutano a rispondere a questa domanda. La disciplina dei costi del mercato ha stimolato, sin dal dopoguerra, una ricollocazione quasi continua della capacità industriale verso ovest attraverso il Pacific Rim, formando nuovi territori industriali nelle regioni costiere dell’Asia orientale in una sequenza di boom di sviluppo. Questi sono stati accompagnati dalla rapida costruzione di infrastrutture petrolifere negli Stati del Golfo, dalla riabilitazione selettiva dell’Europa e dalla costruzione militare-industriale dello stato coloniale israeliano, il tutto sotto gli auspici del potere degli Stati Uniti. In ogni caso, ciò ha comportato, in primo luogo, una difficile condivisione del potere tra le aziende leader nel “condominio di stati” che si trovano in cima alla gerarchia imperiale e, in secondo luogo, la crescente delega di potere ai loro subappaltatori, situati in paesi più in basso nella gerarchia. Mentre le aziende leader hanno continuato a godere di un alto grado di potere monopsonistico18 anche dopo aver cosí esternalizzato un’enorme porzione della loro produzione, il processo di esternalizzazione stesso ha infine prodotto nuovi produttori su scala monopolistica che possono poi crescere fino a diventare aziende leader a sé stanti.
Di conseguenza, nuove frazioni nazionali e settoriali di capitale prendono forma e si dimostrano più capaci di garantire una quota maggiore dei profitti totali che fluiscono attraverso queste catene del valore.19 Ma ciò avviene solo attraverso un processo che è contemporaneamente competitivo e cooperativo. Il rapporto con le aziende leader e i blocchi di capitale nei paesi ricchi che le guidano è, per la maggior parte, uno di interdipendenza diseguale in cui le aziende più povere si affidano a quelle più ricche per contratti cruciali. Ma questa cooperazione è anche un metodo per far rispettare la disciplina dei costi ai subappaltatori, in modo tale che la maggior parte della pressione competitiva sia concentrata più in basso nella catena di fornitura piuttosto che diretta alle aziende leader. Quindi, per tutto il parlare di una guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, che in realtà non esiste nella maggior parte delle linee di prodotti, c’è stata invece una guerra commerciale piuttosto intensa più in basso nella catena di fornitura tra aziende della Cina continentale e aziende di Taiwan o Corea del Sud, ad esempio. Oppure, ancora prima, possiamo sottolineare come la crescente concorrenza della Cina abbia completamente spazzato via il “miracolo del sud-est asiatico” che si era verificato negli anni ’80 e ’90, ostacolando la ripresa dalla crisi finanziaria asiatica in paesi come la Thailandia e la Malesia e contribuendo a garantire che sarebbero rimasti intrappolati nella cosiddetta “trappola del reddito medio”.
In pratica, le condizioni iper-competitive vengono stimolate all’interno del nucleo del sistema manifatturiero globale, dove un gran numero di aziende inizialmente molto piccole sono costrette a operare con margini ridottissimi. La maggior parte muore. Nel frattempo, le più capaci tra loro scoprono che l’unico modo per sopravvivere è implementare rapide “soluzioni” organizzative, tecnologiche e spaziali a questi problemi di redditività. Quindi, iniziano fusioni e acquisizioni aggressive che ristrutturano la loro organizzazione aziendale, escogitano modi per meccanizzare il lavoro di assemblaggio e investire tutti i soldi che possono in R&S (Ricerca e Sviluppo, NdT), e iniziano a trasferirsi sia in siti di produzione più economici sia in aree più ricche dove possono acquisire tecniche di produzione più avanzate e servire mercati di maggior valore con margini più ampi. Di conseguenza, sono quindi in grado di produrre ancora più beni all’interno della loro linea di prodotti per unità di lavoro, peggiorando così la sovracapacità in tutto il settore e abbassando ulteriormente i tassi di profitto settoriali (anche se loro stessi ne traggono profitto). Il risultato finale è che la “sovrabbondanza globale di prodotti manifatturieri” cresce, creando più pressione lungo tutta la filiera per tagliare ulteriormente i costi. Allo stesso tempo, però, la singola azienda che ha dimostrato di avere successo cresce fino a diventare un conglomerato sostanziale con i propri poteri di monopolio.20
Ma allo stesso tempo, queste aziende alla fine si affidano ancora a contratti di aziende leader al di sopra di loro. Infatti, i singoli contratti (ad esempio, il contratto per produrre gli airpod per Apple) possono costituire una grossa fetta del loro fatturato annuale. Oltre una certa dimensione, sono in una posizione migliore per negoziare accordi migliori su questi contratti e accettare più lavoro che è più prezioso, ma sono ancora, in ultima analisi, subordinati. È questa dinamica che produce la situazione apparentemente paradossale che vediamo, in cui sempre più potere sulla produzione è stato chiaramente delegato a nuovi nuclei di capitale in Asia e tuttavia l’accumulazione è ancora chiaramente governata da aziende leader nei paesi ricchi. Ma questa è una situazione sbilanciata che non può durare a lungo, e condizioni simili hanno, di fatto, prevalso prima dei precedenti cambiamenti egemonici. In definitiva, però, l’egemonia non è realmente una questione “nazionale”. I cambiamenti nell’egemonia riguardano più i cambiamenti nella governance sulla geografia globale della produzione e nel substrato militare-finanziario di base che la sottende. Ed è proprio lì che non vediamo alcuna prova di un importante cambiamento egemonico in atto, almeno non nei prossimi decenni. Ad esempio: nonostante i resoconti esagerati del contrario, non ci sono state mosse sostanziali per abbandonare il dollaro; il controllo delle principali società finanziarie statunitensi, ora incarnato da JP Morgan-Chase e da enormi società di gestione patrimoniale come BlackRock e Vanguard, è in realtà diventato più espansivo; e, nonostante la rapida crescita militare altrove, gli Stati Uniti rimangono la potenza militare preminente. E tuttavia, tutti questi poteri finanziari e militari operano anche sempre più attraverso pericolose forme di delega, come suggerisce la rapida militarizzazione guidata dalle forze di destra in luoghi come l’Ucraina e la Polonia.
Quindi non si tratta semplicemente di un “declino” degli Stati Uniti e di una “ascesa” della Cina?
No, per niente. In effetti, l’intera narrazione è per lo più solo una distrazione dalle dinamiche molto più pericolose in gioco. Molte delle caratteristiche chiave della storia “USA contro Cina” sono di per sé iperboliche o vere e proprie falsificazioni. Ciò è particolarmente vero per i resoconti sulla “Cina in Africa”, di cui ho parlato altrove.21 La Cina è ancora un paese piuttosto povero, in media. Non è stata realmente coinvolta in quel tipo di competizione frontale con le principali aziende statunitensi per cui il Giappone, ad esempio, è diventato famoso negli anni ’70 e ’80. È certamente probabile che la Cina ci arriverà presto. Ma, per ora, la maggior parte di queste misure di “guerra commerciale” riguardano in realtà meno l’allontanamento dalla concorrenza diretta che il “punching down” per impedire alle aziende cinesi di arrivare al punto in cui potrebbero competere con importanti aziende occidentali nel prossimo futuro. E tuttavia l’ultimo decennio circa di politiche anti-Cina ha avuto anche l’effetto di stimolare le industrie altrove in Asia, così come nell’Europa orientale e in Messico, più che rilanciare la produzione negli Stati Uniti. Nella misura in cui c’è stato un aumento nell’industria, molti dei più grandi nuovi investimenti nella produzione sono stati finanziati da aziende sudcoreane, taiwanesi, giapponesi e tedesche. Quindi, quello che stiamo vedendo è che, nonostante i tentativi a metà di escludere la Cina dal gioco, tutta questa delega di potere sulla produzione sta comunque generando nuclei subordinati di capitale in tutta l’Eurasia che stanno diventando più potenti e stanno assumendo un numero crescente di funzioni “sub-imperiali” ai livelli mediani dell’ordine imperiale.
E questo crea i conflitti di cui parlavamo prima. Ma questi conflitti, in modo abbastanza evidente, non coinvolgono la Cina (anche se ovviamente hanno alcuni legami commerciali), e raramente coinvolgono direttamente gli Stati Uniti, almeno non nel senso di “boots on the ground” degli anni di Bush. Naturalmente, gli Stati Uniti di solito offrono ancora finanziamenti, un po’ di addestramento, attacchi di droni periferici e, naturalmente, il posizionamento sempre presente di portaerei sullo sfondo quando ritengono che il conflitto possa minacciare il commercio globale. Al posto del classico interventismo della guerra al terrorismo da parte dell’egemone imperiale o persino della vecchia politica per procura della Guerra Fredda tra “superpotenze”, troviamo invece il coinvolgimento più attivo tra le stesse potenze sub-imperiali, che operano in gran parte nei propri interessi. Alcune di queste sono potenze in declino o sotto minaccia, come i russi e i francesi, e altre sono chiaramente in ascesa, come gli Emirati, i sauditi, i turchi e, naturalmente, un’amministrazione sempre più di estrema destra in India. Prendiamo il Sahel come caso di studio. Gli Stati Uniti, naturalmente, hanno ampliato la loro presenza in modi sottili, come tramite AFRICOM e la sua rete di partner militari subordinati come il Kenya. Fanno attacchi con droni e addestramenti e rimpinguano le tasche di alcune élite. E tuttavia sono mosse relativamente passive, rispetto agli interventi attivi dei francesi, che hanno schierato legionari nel deserto per proteggere i depositi di uranio, e delle aziende militari russe come Wagner, che ora sono in conflitto con gruppi mercenari simili dall’Ucraina schierati per sfidare gli interessi russi nel Nord Africa.
Lo stesso vale per il dominio economico. Ad esempio, sentirai molto parlare della Cina che cerca di acquisire porti in tutta l’Africa per ottenere importanti strozzature logistiche e per stazionare il suo esercito. Ma quando scavi nei fatti sul campo non trovi quasi nessuna prova di ciò, a parte l’unica base a Gibuti (che esiste accanto a basi associate a un certo numero di altri paesi), il subappalto di alcuni lavori di costruzione portuale a società cinesi e alcuni terminal container gestiti da aziende cinesi, queste ultime spesso erroneamente indicate come prova di porti “di proprietà cinese”. Ovviamente, la Cina è un’economia enorme e le aziende cinesi sono i più importanti appaltatori internazionali di costruzioni e ingegneria in giro per il mondo. Sono particolarmente importanti nel mercato africano e, di fatto, detengono la maggioranza della quota di mercato nei grandi progetti di costruzione nel continente. Ma le aziende di costruzione non possiedono le cose che costruiscono. La mera presenza di aziende edili cinesi in Africa è una cosa molto diversa dal finanziamento, dall’investimento e dalla proprietà veri e propri, che operano tutti attraverso catene di capitali molto più complesse, il più delle volte incanalate attraverso istituzioni multilaterali tradizionali come il FMI e la Banca Mondiale.
Al contrario, le aziende e gli interessi militari turchi sono stati coinvolti esattamente nel tipo di attività per cui la Cina viene criticata, e tuttavia questo appare a malapena sui media. Le aziende turche hanno firmato importanti accordi di gestione portuale (non solo di locazione di terminal) in tutto il continente e sono state costantemente accusate di essere coinvolte in pratiche commerciali corrotte in seguito, tra cui l’illecito incanalamento di denaro non tassato in Turchia. Il caso più eclatante è la Somalia, dove le aziende turche hanno contratti a lungo termine per gestire sia il porto marittimo (Albayrak Group) che l’aeroporto (Favori LLC) a Mogadiscio, così come i porti più a nord e i diritti di prospezione petrolifera offshore (insieme agli Stati Uniti). Questi accordi sono stati negoziati con l’assistenza diretta dell’amministrazione Erdoğan, a seguito di una serie di accordi di aiuto. Inoltre, dopo la firma di una serie di accordi militari, la Turchia ha aperto un’enorme base militare a Mogadiscio, dove addestra le forze armate nazionali somale (e facilita la vendita di armi turche al paese). L’ultimo di questi accordi consentirà presto alla marina turca di pattugliare le acque somale, fungendo di fatto da marina e guardia costiera del paese, e cedendo inoltre almeno un terzo delle entrate della zona economica esclusiva offshore della Somalia alle aziende turche.22 E la Turchia non è la sola. Ad esempio, gli interessi capitalistici degli Emirati Arabi Uniti hanno letteralmente saccheggiato l’Africa, canalizzando illecitamente enormi quantità di oro dall’industria mineraria “artigianale”, che viene poi riciclato negli Emirati Arabi Uniti prima di raggiungere altri centri finanziari come la Svizzera o Hong Kong.23 A tal fine, il governo degli Emirati ha finanziato una fazione (Hemeti e le sue Rapid Support Forces, o RSF) nella guerra civile sudanese e quindi ha una grande responsabilità per l’attuale crisi dei rifugiati. In realtà, è ancora più complicato di così, poiché molti di questi soldati RSF hanno ricevuto la loro esperienza di combattimento nello Yemen, dove hanno combattuto un altro conflitto per procura per conto degli Emirati Arabi Uniti.24
Quindi, nel complesso, qual è il quadro? È uno in cui la delega di potere all’interno della gerarchia imperiale globale trasmette anche la tensione verso il basso, stimolando un’intensa competizione negli strati intermedi della catena del valore e innescando un conflitto aperto alle sorgenti globali del valore. Nel frattempo, i livelli superiori della catena hanno continuato ad appropriarsi di enormi masse di profitto, anche se la crescita di altri nuclei di capitale ha ridotto la loro quota di flussi complessivi. Ma la delega di potere è anche rischiosa, perché pone la prospettiva di una rottura dovuta a conflitti intra-classe tra frazioni di capitale o conflitti inter-classe, poiché i lavoratori di produttori a contratto sempre più grandi si trovano più in grado di mobilitare azioni industriali per chiedere salari più alti.25 Quindi, piuttosto che una transizione egemonica dagli Stati Uniti alla Cina, vediamo un metodo particolare per rafforzare il potere degli Stati Uniti che incoraggia anche l’ascesa di questo campo molto ampio e molto diversificato di capitale panasiatico che per certi aspetti opera come un singolo “blocco” ma, nella maggior parte dei casi, mostra interessi estremamente divergenti e spesso conflittuali che si manifestano sia nella sfera economica che geopolitica, con conseguenze spesso violente. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica e la sconfitta dei giapponesi nella guerra commerciale, il teorico della dipendenza Samir Amin ha messo in guardia da un imminente “impero del Caos”, in cui i disperati tentativi di rafforzare un’egemonia in decadenza si verificano in assenza di qualsiasi nuovo contendente egemonico. E questo sembra descrivere al meglio le condizioni odierne. Semplicemente non esiste alcun nucleo di accumulazione là fuori che sembri in grado di soppiantare l’egemonia degli Stati Uniti, nonostante questa egemonia si stia svuotando man mano che più potere sulla produzione viene delegato all’estero.
Militanza
In Italia la militanza è concentrata soprattutto nelle grandi città universitarie, che però demograficamente, socialmente e culturalmente sono minoritarie. Alcuni collettivi stanno iniziando a chiedersi come intervenire all’interno di contesti diversi, ti sei chiesto quali potrebbero essere percorsi utili in tal senso? Oppure dovremmo auspicare uno sviluppo autonomo della militanza in questi contesti?
Questa condizione è comune non solo in Italia, ma in molti paesi. Allo stesso tempo, abbiamo anche la tendenza a leggere questo problema con registri tratti dal passato, trattandolo più o meno allo stesso modo in cui la New Left fece sessant’anni fa. Ma molte cose sono cambiate anche in quel periodo. Ad esempio, dici che le grandi città universitarie sono la minoranza e, mentre capisco cosa intendi, le università più grandi sono generalmente nelle città più grandi, e oggi sono anche spesso tra i maggiori datori di lavoro in quelle città. E, rispetto a cinquant’anni fa, molti di questi lavori sono posizioni a basso salario e molto richieste. Non sono sicuro di quali siano le condizioni di lavoro in Italia, ma negli Stati Uniti, ad esempio, la maggior parte dei corsi universitari oggi sono tenuti da assistenti o studenti laureati che vengono pagati meno del vostro operaio medio. Nel frattempo, le università oggi sono vasti schemi immobiliari che aiutano ad ancorare i mercati immobiliari locali. Servono anche come siti di R&S (Ricerca e Sviluppo, NdT) avanzati per interessi militari-industriali. Se uno sciopero militante tra i lavoratori accademici chiude la principale università di ricerca in una data città, ciò avrà quindi un impatto economico sostanziale. Inoltre, poiché l’istruzione superiore si è generalizzata in tutta la popolazione, oggi più studenti provengono da contesti di classe inferiore. Di conseguenza, più persone svolgono lavori mal pagati fuori dall’università, tornano nei quartieri operai e, naturalmente, hanno contratto debiti immensi. Quindi, questi sono, in ogni modo, tra i principali siti di conflitto di classe in sé e per sé. Dobbiamo abbandonare quella vecchia idea della New Left secondo cui questi siano strati “borghesi” o persino “professionisti” che in qualche modo non fanno parte della più ampia classe proletaria e quindi hanno bisogno di entrare in quella classe dall’esterno. In tutte le istituzioni tranne quelle più elitarie, questo semplicemente non è più vero.
Ma c’è sempre un problema di insularità, che si parli di università contro società, diversi settori industriali o anche diverse occupazioni all’interno dello stesso settore. La maggior parte dell’organizzazione di classe emerge prima sotto forma di specifiche lotte di sussistenza, che si concentrano sui termini immediati della sopravvivenza: quanto vieni pagato, quanto costa il tuo affitto, è probabile che il tuo lavoro ti uccida, è probabile che la polizia ti uccida, ecc. Ma queste questioni sono anche spesso contraddittorie, poiché sono simultaneamente specifiche (ad esempio, questo gruppo di lavoratori che avanza richieste salariali specifiche relative a questo posto di lavoro) e anche generali, risuonando con segmenti più ampi della classe (ad esempio, gli stipendi di tutti sono troppo bassi). Oltre a questo, le lotte tendono a innescare conflitti più ampi che poi assumono significati aggiuntivi e acquisiscono il loro slancio, diventando importanti espressioni del conflitto di classe in sé e per sé, e quindi superando completamente le loro preoccupazioni iniziali di sussistenza. Vediamo queste contraddizioni poi svolgersi in tensioni tattiche. Prendiamo, ad esempio, le rivolte ricorrenti contro gli omicidi della polizia. Inizialmente, hanno un obiettivo molto chiaro: l’uccisione di un individuo specifico da parte di specifici ufficiali di polizia. Alcuni interpretano quindi il “significato” della rivolta in un modo altrettanto specifico, chiedendo che quegli ufficiali individuali vengano puniti. Altri interpretano la rivolta in un modo più generale, ma comunque limitati da questa logica di base delle richieste di sussistenza, chiedendo ampie riforme del sistema di giustizia penale, maggiore controllo, per ritenere tutti i poliziotti legalmente responsabili dei loro omicidi, ecc. Ma una volta che l’evento si generalizza in una rivolta, anche questa interpretazione più ampia non cattura del tutto il suo effettivo significato politico, perché non coglie tutti i significati aggiuntivi assunti dallo slancio della rivolta stessa, che ovviamente tende a diventare una ribellione più generale contro le condizioni di vita nel capitalismo attraverso più registri.
Questa eccedenza è l’aspetto più importante, perché è solo attraverso questa dimensione sincretica e autoreferenziale che ogni data lotta può superare i suoi limiti iniziali.26 E questa è anche l’apertura per l’organizzazione, che aiuta a elaborare la lotta colmando l’insularità di queste numerose richieste di sussistenza individuali. Ci sono molti esempi storici di come ciò sia stato fatto in passato. Ma è una questione fondamentalmente pratica, il che significa che è molto sensibile ai problemi locali che stai affrontando. Non puoi semplicemente trapiantare questi modelli dalla storia al presente perché si tratta di fenomeni inseparabili dal loro ambiente. Se ci provi, finisci con un guscio morto e vuoto: le varie sette che oggi pensano a se stesse come “partiti” e “sindacati”, per esempio. Nel frattempo, i cambiamenti strutturali di base nell’occupazione e nella geodemografia hanno ovviamente cambiato le coordinate in modo tale che non ha più senso cercare di costruire un esercito contadino oggi, per esempio, anche se l’esperienza storica dell’organizzazione rivoluzionaria tra i contadini offre ancora lezioni utili. Quindi, dobbiamo davvero rispondere alla tua domanda fondamentale suddividendola e ristrutturandola in una serie di domande più mirate: cosa stanno cercando di fare esattamente questi collettivi che sperano di fuggire dall’università e dove stanno cercando di andare? Allo stesso modo, cosa concepiscono come “militanza” e come viene misurata? E, oltre a questo, dovremmo quindi comprendere meglio le condizioni sociali specifiche coinvolte. Ovviamente, aiuta ad allargare lo sguardo oltre l’ambiente circostante immediato. Ma c’è anche una tendenza a ignorare le nostre esperienze di classe e le varie lotte di sussistenza che affrontiamo quotidianamente, immaginando che la “vera” lotta si trovi altrove, tra una demografia speciale che è in qualche modo più vicina a una condizione puramente proletaria. Le persone quindi tentano di autoflagellarsi, negando la propria esistenza e invece cercando questa “pura” esperienza di classe o recitando un’immagine più fantasiosa di “militanza”. In realtà, tutti noi sperimentiamo diversi aspetti dell’esistenza proletaria. Possiamo combattere da più posizioni, purché nel farlo superiamo anche quelle posizioni.
Dici spesso che ciò che vedremo, in termini di organizzazione di classe, sarà qualcosa di totalmente diverso da ciò che abbiamo visto finora. Non sarà il “doppio potere”, l’autonomia, il classico partito marxista-leninista, ecc., ecc. Hai voglia di approfondire un po’?
Io sostengo che l’organizzazione di classe non adotterà esattamente i nomi che ha preso in passato, non necessariamente che non assumerà forme simili. Questo approccio è solo un modo per cercare di costringere le persone a uscire dal loro attaccamento ossessivo e malinconico alla storia di sinistra. La prima cosa che devi fare se stai cercando di organizzarti è ovviamente guardare le condizioni che ti circondano così come sono, non come erano cento anni fa. A livello pratico, però, non penso che l’organizzazione futura sarà qualcosa di “totalmente diverso da quello che abbiamo visto”. In effetti, direi che la mia posizione è esattamente l’opposto: non abbiamo bisogno di una qualche magica “nuova” forma di organizzazione, dobbiamo tornare a principi di partigianeria molto più antichi che, ovviamente, hanno contribuito a ispirare tutti questi esempi che hai elencato. Non puoi semplicemente trapiantare in tutto e per tutto questi esempi storici, ma puoi “rigenerare” l’organizzazione partigiana in forme che possano prosperare all’interno dell’attuale ecosistema. In definitiva, questo è ciò di cui si occupa la teoria del partito e io sono un grande sostenitore del partito, nel senso ortodosso. Infatti, ogni volta che si parla di organizzazione, o almeno di organizzazione con una sorta di orientamento verso un orizzonte politico, si parla di partiti, che lo si sappia o no. Ma il problema è che oggi le persone sentono “ortodosso” e “partito”, e invece pensano che io stia parlando del tipo di entità dogmatiche e crepuscolari prodotte dagli spasmi mortali del Partito Comunista globale sconfitto il secolo scorso. O peggio ancora, la loro educazione politica è stata così stentata che pensano che “partito” si riferisca a un’entità elettorale!
Oggi, ci troviamo ovviamente in una fase di stallo, circondati da rivolte di vario genere sempre più comuni e sempre più consistenti, ma siamo anche incapaci di impegnarci adeguatamente o persino di comprendere questi eventi, che rimangono in gran parte nichilisti e apolitici o, nella migliore delle ipotesi, esprimono una sorta di sentimento repubblicano radicale. Ci ritroviamo quindi con vaghe banalità teoriche e le rudimentali forme di organizzazione che sorgono nella situazione immediata della rivolta. E, sebbene queste misure improvvisate vengano poi romanticizzate o criticate in seguito, non sono realmente scelte come strategia consapevole. Sono il risultato di questioni pratiche che si scontrano con l’ideologia del buon senso dell’epoca. Quindi, i limiti dell’organizzazione che sorgono sono in realtà sintomi di qualcosa di più profondo, che opera prima a livello strutturale, ovvero le forze che producono i nostri ambienti immediati e quindi ci pongono le particolari preoccupazioni pratiche che sorgono in una rivolta, e solo in secondo luogo a livello di tattiche politiche intenzionali. Poiché gli interventi propagandistici che sostengono che le persone “dovrebbero assolutamente fare qualcosa in un determinato modo” operano solo a questo livello secondario, il loro impatto è estremamente limitato. Ad esempio, in tutte le rivolte degli ultimi quindici anni, hai avuto molti partecipanti (in effetti, spesso persone in ruoli molto decisivi) che esortavano le persone ad adottare forme di organizzazione più rigorose, sostenendo un “partito dei lavoratori” o qualcosa del genere, e molte persone che cercavano di vendere le proprie piccole sette. Ma nessuno ci credeva.
E questo perché l’intero modello di “mercato delle idee” in cui andiamo e “comunichiamo” la nostra politica e cerchiamo di far sì che le persone siano d’accordo con noi è completamente all’indietro. Questo è il problema con tutte quelle persone che pensano che il fallimento delle rivolte degli anni 2010 sia stato il fatto che hanno scelto di aderire ai principi di “orizzontalità” e “assenza di leader”. Nessuno ha scelto questo, ovviamente, e molte persone erano lì a sostenere il contrario e, in effetti, il “partito dei lavoratori” è stato provato in Grecia (SYRIZA), in Spagna (Podemos), negli Stati Uniti (Sanders) e nel Regno Unito (Corbyn), e ha fallito sistematicamente anche lui, per ragioni notevolmente simili. In definitiva, il punto è che le idee politiche non vengono adottate tramite un’argomentazione abile. Sono inscritte in noi nella nostra vita fisica. Puoi discutere tutto il giorno con qualcuno sul fatto che la polizia non faccia “parte del 99%” e non importa quanto tu sia ragionevole, quante prove tu offra, non ti crederanno comunque. Ma se escono e vengono colpiti in testa anche solo una volta da un manganello della polizia, all’improvviso diventano dei convertiti. È, letteralmente, un battesimo politico, con tutto lo shock religioso che ciò comporta. Le idee non entrano nella mente attraverso le orecchie, entrano attraverso ferite aperte, attraverso giunture che bruciano dopo turni infiniti di lavori senza futuro, attraverso piedi pieni di vesciche per lunghe giornate in picchetto, attraverso mani squarciate da qualche macchina, braccia ricoperte di cicatrici di grasso, il rivestimento dei polmoni pieno di gas lacrimogeni. Una conseguenza di ciò è che, nella misura in cui “comunichiamo” le nostre idee politiche, lo facciamo in gran parte attraverso l’azione nel momento della rivolta.
Quindi, se vuoi sostenere un particolare tipo di organizzazione o orientamento strategico, devi assumere una guida tattica nella rivolta, qualunque essa sia: compiere atti concreti che superino i limiti immediati che limitano l’estensione e l’elaborazione della sequenza politica. In alcuni casi, la forma organizzativa che stai sostenendo in astratto potrebbe persino svolgere questa funzione pratica. Ma, in molti casi, in realtà ha poco a che fare con qualsiasi teoria di organizzazione su larga scala tu abbia, poiché l’azione non è forse niente di più che trasportare cibo per le persone, irrompere per occupare il centro di distribuzione piuttosto che farci i picchetti davanti, rompere la prima finestra del parlamento o, naturalmente, dare fuoco alla prima stazione di polizia. Qualunque cosa sia, però, dovrebbe essere rivolta verso l’esterno, piuttosto che focalizzata sulla critica o l’attacco o la discussione con gli altri partecipanti. Si potrebbe pensare che l’iper-settarismo della New Left sarebbe stato sufficiente come ammonimento, ricordandoci che dobbiamo essere gentili gli uni con gli altri ed ecumenici. Ma è difficile, perché queste azioni sono anche una scommessa. Gli atti di leadership sono sempre pericolosi e non è mai chiaro se avranno l’effetto desiderato o se si riveleranno degli eccessi avventuristi. Qualcuno sarà sempre in disaccordo con te, terrorizzato dal fatto che tu stia mettendo in pericolo tutti i soggetti coinvolti.27 Se hai successo, però, altri partecipanti saranno attratti dalle insegne della tua politica e quindi aperti alle idee che accompagnano queste insegne.28 Queste arene pratiche sono il punto di partenza dell’organizzazione, da cui iniziamo ad aggregare una sorta di coscienza collettiva su come elaborare lotte oltre i loro limiti iniziali. Ma per iniziare, c’è solo un suggerimento: prendi l’iniziativa, non limitarti a parlarne.
NOTE:
- Mike Davis, “Trench Warfare: Notes on the 2020 Election”, New Left Review, 126, Nov/Dic 2020. https://newleftreview.org/issues/ii126/articles/mike-davis-trench-warfare ↩︎
- Alexander Sammon, “Want to Star Into the Republican Soul in 2023?” Slate, 30 Maggio 2023. https://slate.com/news-and-politics/2023/05/rich-republicans-party-car-dealers-2024-desantis.html ↩︎
- National Low Income Housing Coalition, “New Census Data Reveal Voter Turnout Disparities in 2022 Midterm Elections”, National Low Income Housing Coalition, 15 Maggio 2023. https://nlihc.org/resource/new-census-data-reveal-voter-turnout-disparities-2022-midterm-elections ↩︎
- Eva Xiao, Clara Murray, Jonathan Vincent, John Burn-Murdoch, and Joel Suss, “Poorer voters flocked to Trump – and other data points from the election”, Financial Times, 09 Novembre 2024. https://www.ft.com/content/6de668c7-64e9-4196-b2c5-9ceca966fe3f ↩︎
- NdT: il Putsch della Birreria o Putsch di Monaco fu un tentativo di colpo di stato organizzato da Hitler nel 1923. Il colpo di stato, ispirato dalla marcia su Roma di Mussolini fallì e Hitler venne arrestato, ma fu questo il primo momento in cui le sue azioni ebbero un eco significativo nella Repubblica di Weimar. ↩︎
- Per una panoramica sulla questione della misurazione, si veda: Adam Tooze, “Chartbook 327 From ‘anti-core’ to ‘felt inflation’: Or how I calmed my populist demons & resolved my cognitive dissonance on inflation, and how the Fed could do more to help”, Chartbook, 16 Ottobre 2024. ↩︎
- Per maggiori dettagli vedi l’articolo completo: Neel, Phil A., “The Knife at Your Throat”, The Brooklyn Rail, Ottobre 2022. https://brooklynrail.org/2022/10/field-notes/The-Knife-At-Your-Throat/. Qui la nostra traduzione in italiano: https://infoaut.org/approfondimenti/il-coltello-alla-gola-inflazione-e-lotta-di-classe ↩︎
- Nel complesso, i veicoli elettrici richiedono meno componenti e hanno un design più semplice dei gruppi propulsori, rappresentando quindi un’ulteriore razionalizzazione di un’industria già altamente razionalizzata che oggi impiega molti meno lavoratori (in termini assoluti, per unità di produzione e pro capite) rispetto, ad esempio, al picco del dopoguerra, quando quasi un sesto della forza lavoro statunitense era impiegato direttamente o indirettamente dall’industria automobilistica. ↩︎
- Per contestualizzare, l’ultima volta che la cifra è stata così bassa è stata negli anni ’70, quando le donne avevano appena iniziato a entrare in massa nella forza lavoro. ↩︎
- Sull’aumento delle disabilità, vedi: Chan Joffe-Walt, “Unfit for Work: The startling rise of disability in America”, NPR, 22 Marzo 2013. https://apps.npr.org/unfit-for-work/ ↩︎
- L’ingresso delle donne nella forza lavoro è stato il motivo principale per cui il tasso di partecipazione al lavoro ha iniziato ad aumentare negli anni ’70, ma non c’è stato un significativo “ritorno al nucleo domestico” alla base della tendenza attuale. Le ragioni di base addotte per la mancata partecipazione non differiscono per genere. Detto questo, la maggior parte delle donne non partecipanti che non erano pensionate viveva con un coniuge o un partner e le donne con un livello di istruzione inferiore alla scuola superiore costituiscono ancora il gruppo più numeroso in età lavorativa al di fuori della forza lavoro. Nel frattempo, gli uomini al di fuori della forza lavoro hanno riferito di vivere più spesso con un genitore. ↩︎
- I dati sul tasso di partecipazione al lavoro provengono dal Bureau of Labor Statistics. I dati sulla composizione della popolazione non partecipante provengono da un documento di ricerca del 2017 sull’argomento del Progetto Hamilton: Diane Whitmore Schanzenbach, Lauren Bauer, Ryan Nunn, Megan Mumford, “Who is out of the labour force?” Progetto Hamilton, 17 agosto 2017. https://www.hamiltonproject.org/publication/paper/who-is-out-of-the-labor-force/. I dati più recenti sulla ripartizione della popolazione totale non partecipante, compresi gli over 55, sono riassunti qui: Victoria Gregory, Joel Steinberg, “Why are Worker’s Staying Out of the U.S. Labor Force?”, Federal Reserve Bank of St. Louis, 02 Febbraio 2022. https://www.stlouisfed.org/publications/regional-economist/2022/feb/why-workers-staying-out-us-labor-force ↩︎
- Il classico studio sul fenomeno è: Michael J. Piore, Birds of Passage: Migrant Labor and Industrial Societies, Cambridge: Cambridge University Press, 1979. ↩︎
- NdT: Investimento Diretto Estero. Flusso di investimenti effettuati dagli operatori in Paesi diversi da quello dove è insediato il centro della loro attività. In particolare, sono definiti i. d. e., anche noti con la sigla IDE, gli investimenti internazionali volti all’acquisizione di partecipazioni ‘durevoli’ (di controllo, paritarie o minoritarie) in un’impresa estera o alla costituzione di una filiale all’estero, che comporti un certo grado di coinvolgimento dell’investitore nella direzione e nella gestione dell’impresa partecipata o costituita. ↩︎
- Mica Rosenberg, Kristina Cooke, and Joshua Schneyer, “Child workers found throughout Hyundai-Kia supply chain in Alabama”, Reuters, 16 Dicembre 2022. https://www.reuters.com/investigates/special-report/usa-immigration-hyundai/ ↩︎
- Il mio prossimo libro, che si spera esca l’anno prossimo, affronta in dettaglio la questione dell’egemonia. Questa sezione dell’intervista è un riassunto molto breve di alcuni dei suoi argomenti principali. ↩︎
- Così, gli inglesi divennero la potenza navale e, in seguito, finanziaria preminente, anche grazie ai loro stretti legami con gli olandesi in seguito alla Gloriosa Rivoluzione; gli americani svolsero un ruolo simile nei confronti degli inglesi dopo l’inizio del XX secolo. ↩︎
- NdT: Il monopsonista dà origine a una situazione speculare a quella del monopolista rappresentato da un unico venditore. Può decidere se e in quali quantità acquistare il prodotto o il servizio di cui è l’unico acquirente. ↩︎
- Ashok Kumar ha documentato il processo in dettaglio in: Monopsony Capitalism: Power and Production in the Twilight of the Sweatshop Age, Cambridge: Cambridge University Press, 2020. ↩︎
- Stiamo iniziando a vedere questo, ad esempio, con aziende di cui probabilmente non avete mai sentito parlare come Luxshare Precision, Longcheer, Huaqin o GoerTek, che erano tutte piccole fornitrici per produttori a contratto come Foxconn, poi hanno iniziato ad aggiudicarsi contratti diretti da aziende leader come Apple e ora sono importanti produttori di beni “white label”, ovvero la maggior parte degli smartphone e di altri dispositivi elettronici più economici sul mercato, già pronti da queste aziende utilizzando i loro progetti e acquistati da un’azienda che poi vi appiccica semplicemente il suo marchio. Alcune potrebbero essere sulla buona strada per diventare la prossima Foxconn. ↩︎
- Vedi, ad esempio, la mia intervista con il collettivo turco Komite: Phil Neel con Komite, “Hostile Brothers: New Territories of Value and Violence”, Brooklyn Rail, Novembre 2023. https://brooklynrail.org/2023/11/field-notes/Phil-Neel-with-Komite/ ↩︎
- Kiran Baez, “Turkey signed two major deals with Somalia. Will it be able to implement them?”, Atlantic Council, 18 Giugno 2024. https://www.atlanticcouncil.org/blogs/turkeysource/turkey-signed-two-major-deals-with-somalia-will-it-be-able-to-implement-them/ ↩︎
- Per una ripartizione dettagliata del processo, vedere: Marc Ummel e Yvan Schulz, “On the Trail of African Gold: Quantifying production and trade to combat illicit flows”, Swiss Aid, Maggio 2024. ↩︎
- Molti giovani soldati reclutati nella RSF pensavano in realtà di candidarsi per diventare lavoratori ospiti nei ricchi Stati del Golfo. Invece, sono stati spediti in una zona di guerra e hanno ricevuto una pistola. Per maggiori dettagli su questi gruppi, vedere: Adam Benjam e Magdi el Gizouli, “Marketing War: An Interview with Magdi el Gizouli”, Phenomenal World, 30 Settembre 2023. https://www.phenomenalworld.org/interviews/magdi-el-gizouli/ ↩︎
- Vedi: Ashok Kumar, “When Monopsony Power Wanes – Part Two: Subjective Agency”, Historical Materialism, 32(1), 2024. pp.3-33. ↩︎
- Classicamente, questo è il movimento da forme “economistiche” di organizzazione di classe a forme di azione propriamente politiche, come discusso nella critica di Marx al sindacalismo inglese e nella critica di Lenin all’economismo. Questo è anche lo spazio in cui diventa possibile un’unione tra il partito “storico” delle lotte di massa ricorrenti all’interno della classe e i partiti “formali” della frazione intenzionalmente auto-organizzata della classe e questa unione del partito storico e di molti singoli partiti formali costituisce il “Partito Comunista”, in quanto tale, spesso catturato dalla nozione di un più ampio “movimento comunista” o formalizzato come una specifica “Internazionale Comunista” che coordina tra i molti partiti formali. ↩︎
- Ma le preoccupazioni per la “sicurezza” sono anche i semi di una mentalità da informatore (snitch mindset nella versione originale, NdT). ↩︎
- NdT: sigils nella versione originale. ↩︎
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