Tecnotrumpismo. Dalla Groenlandia al caso DeepSeek
Trump è diventato il referente politico delle Big Tech e non è una congiuntura.
Abbiamo già provato a raccontare come mai a nostro parere il secondo ciclo trumpista rappresenta una cesura definitiva con l’immaginario liberale. In sostanza l’idea di un capitalismo in grado di coordinare progresso sociale (o almeno civile) e sviluppo infinito è arrivata a fine corsa (almeno nella versione che abbiamo conosciuto finora). Questo frame ideologico ha mostrato la corda diverse volte negli ultimi decenni, ma oggi a cadere non è solo la maschera, ma l’alleanza storica tra determinati settori del capitalismo USA (ma non solo) ed il ceto politico che negli Stati Uniti, come ovunque in Occidente, si è candidato a favorire lo sviluppo neoliberista “da sinistra”.
Lo si nota nello spaesamento che alcuni giornali liberal mostrano nel raffigurare Elon Musk come uno e trino: allo stesso tempo imprenditore brillante, genio della tecnologia ed estremista di destra. Ne parlano come se si trattasse di tre persone diverse, indice della difficoltà in cui versa una certa narrativa.
Ma qui, più che concentrarci sulla crisi del paradigma precedente ci interessa provare ad inquadrare quali sono gli elementi che hanno prodotto questa svolta, che va ben oltre il semplice opportunismo, ma ha motivazioni profonde. Come spiega Raffaele Sciortino: “Se noi prendiamo Musk o Peter Thiel, loro, piaccia o meno […] sono pienamente consapevoli che gli Stati Uniti, e direi di più il mondo, sono di fronte ad una crisi di civiltà a cui loro approntano una certa risposta.”
La premessa è che per provare a capirci qualcosa bisogna prendere Trump ed il trumpismo sul serio, non come una tragica macchietta di un dittatore. Appena tornato al potere Trump ha mostrato di avere una squadra collaudata alle spalle (a differenza della scorsa amministrazione) e di avere dei progetti ben precisi in testa. Prendere le sue dichiarazioni sulla Groenlandia, sul Canada e sul Canale di Panama come delle sparate propagandistiche non aiuta.
La Groenlandia potrebbe avere un’importanza strategica per l’industria tecnologica USA. Oltre ad ingenti riserve di gas naturale e petrolio secondo l’Economist, l’isola possiede riserve per 43 dei 50 minerali considerati “critici” dal governo americano, con una stima di disponibilità di 42 milioni di tonnellate, circa 120 volte di più di quanto sarà estratto a livello mondiale nel 2023. Anche il Canada ha degli importanti giacimenti. Ad oggi il mercato è dominato dalla Cina che produce circa il 60% delle terre rare mondiali, ne lavora e raffina il 90% e detiene il 37% circa delle riserve mondiali. La situazione si fa un po’ più chiara se si considera che al secondo posto ci sono gli Stati Uniti con solo il 12,3% circa. E’ del tutto evidente che una dipendenza così significativa dalle materie prime strategiche prodotte in Cina rappresenta una debolezza importante per l’industria Tech USA, debolezza che in epoca di guerre commerciali potrebbe via via aggravarsi. Qui torniamo all’ipotesi della “regionalizzazione” delle catene del valore che ci ha proposto Phil A. Neel. Se il capitalismo USA deve accorciare le catene di approvvigionamento, è chiaro come il suo sguardo si rivolga ai territori limitrofi che possiedono questa importante risorsa. Groenlandia, Canada, America Latina sono tutti luoghi su cui cala (in alcuni casi ancora una volta) la bramosia dei colossi delle Big Tech. Trump è l’interprete perfetto di quest’epoca, di una nuova febbre americana, dal quella dell’oro, a quella del petrolio, a quella per le terre rare.
Ma il petrolio e più in generale le energie fossili non verranno messe da parte. La rivoluzione informatica è stata a lungo accompagnata dall’ennesima falsificazione ecologica che vedeva l’epoca dei computer contrapporsi a quella dei motori a scoppio. In seno a questa falsificazione abbiamo assistito al più becero greenwashing, al tecnosoluzionismo e alla produzione di mercati collaterali “verdi” che hanno accompagnato gli ultimi decenni. In realtà non solo tutte queste si sono rivelate favole, ma lo sviluppo di tecnologie come le Intelligenze Artificiali ci prospetta uno scenario in cui la produzione di energia dovrà intensificarsi enormemente. In parole povere le IA necessitano di un’enorme potenza di calcolo e dunque di enormi e diffuse server farm che vanno alimentate con una spropositata quantità di energia. Non a caso Sam Altman (in foto mentre dice di aver cambiato prospettiva su Trump, lol), amministratore delegato di Open IA, ha da tempo rivolto il suo sguardo verso il nucleare di “nuova generazione” (anche se pare che molte di queste operazioni siano al momento speculative). Appena dopo il suo insediamento Trump ha lanciato il progetto “Stargate”: Il progetto coinvolge OpenAI, Oracle, Softbank e il fondo emiratino Mgx, con un impegno economico straordinario: 500 miliardi di dollari, destinati a creare un’infrastruttura senza precedenti per la creazione di data center e infrastrutture di calcolo avanzate, necessarie a garantire la leadership americana nell’intelligenza artificiale. Microsoft, Nvidia e Arm si sono uniti come partner tecnici, rafforzando la portata strategica del progetto. Ma non solo, Trump parallelamente ha dichiarato l’emergenza energetica nazionale garantendo una produzione adeguata per sostenere Stargate e altre iniziative. Non a caso i lavori per la costruzione di alcune di queste strutture sono iniziati in Texas dove vi è un’ampia disponibilità di energia fossile a sostegno delle farm.
Riprendendo ancora Raffaele Sciortino si può dire che i magnati della Silicon Valley vogliono “meno Stato per più Stato. Cioè vogliono meno Stato per le funzioni sociali, soprattutto meno Stato che regola, che pone vincoli. Ma più Stato perché […] oltre ad un certo punto il capitale ha bisogno dello Stato in termini di difesa, di rilancio del riarmo e di una mole di investimenti straordinaria come nel caso dell’AI. Quindi l’intreccio tra Stato e Capitale dev’essere ancora più stretto.”
Oltre a ciò è evidente che qualsiasi vincolo all’estrazione di risorse, alla devastazione ambientale ed al consumo di energia (fossile e non) oggi per i capitalisti del tech viene vista come una minaccia esistenziale. In questo quadro si inserisce anche il caso DeepSeek (qui un interessante approfondimento di Radio Blackout), l’intelligenza artificiale made in Cina che performa come quelle statunitensi, ma con meno spesa. Con il suo lancio, che alcuni leggono come una risposta al varo del progetto Stargate, la Cina ha dimostrato di poter realizzare una IA competitiva abbassando il costo di 20 volte. Ciò ha creato un discreto panico finanziario, solleticando le bolle speculative che permangono sui titoli tech, ma ha soprattutto gelato amministratori delegati e politici. DeepSeek in brevissimo tempo è stata bloccata in metà occidente con il solito corollario di giustificazioni: dal pericolo per la sicurezza globale, alla raccolta di dati, alla censura. Ma è piuttosto evidente che si tratta di retoriche, magari anche in parte fondate, ma principalmente atte a demonizzare la tecnologia e a delegittimare il successo cinese.
In questa fase una serie di veli ideologici dietro cui si nascondevano gli interessi capitalisti stanno collassando, i rapporti di classe si stanno chiarendo sempre di più, così come la natura sistemica delle guerre. I posizionamenti ideologici a favore dell’Occidente come paradigma si dovranno misurare con un America First sempre più spregiudicato e coercitivo nei confronti di chi vuole godere dell’ombrello statunitense. La storia si muove in fretta, sempre più in fretta.
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