Lotta di classe in Sardegna – seconda puntata
Seconda parte di un viaggio dentro la lotta dei pastori sardi. Leggi qui la prima puntata.
Bivio di Lula
Il bivio di Lula sulla 131 si trova al centro di un poligono virtuale con ai vertici i principali centri della Barbagia: Orani, Bitti, Onanì, Nùoro. La 131 è una trincea che si spinge in un regno nemico. Una trincea da assaltare. È mercoledì. I paesi del centro Sardegna si riversano sulle quattro corsie della statale, occupando i due sensi di marcia all’altezza del distributore. Sono pastori ma non solo. Comunità intere. Ci sono anche gli allevatori della Baronia e quelli che si danno i cambi al presidio del caseificio Mura di Buddusò, uno dei principali in questa regione. In centinaia scalano le rampe del cavalcavia e si assiepano sulle protezioni dove srotolano striscioni e iniziano a sversare fiumi di latte sulla strada sottostante. In poco tempo l’aria è invasa dall’odore pungente del latte di pecora. Ci sono almeno tremila persone. Un mezzo articolato viene messo di traverso sulla corsia di marcia per far rallentare i mezzi in transito. Come se si simulasse una rapina a un portavalori. La circolazione è filtrata dalla protesta. L’industriale non dispone più di tutta la filiera, di tutto il territorio, di tutte le infrastrutture, di tutti i servizi, di tutta la politica, di tutte le ragioni. Ora due ragioni si scontrano. La filiera si è spaccata in due interessi contrapposti. “Più guadagna l’industriale, meno veniamo pagati noi. Per guadagnare più noi, deve guadagnare di meno l’industriale”. I camion devono passare per l’ispezione dei pastori. Sono più di quaranta gli articolati incolonnati. Vengono visionate le “bolle” che certificano le quantità, la provenienza, la destinazione delle merci trasportate. Le etichette sono controllate e valutate secondo un criterio di giudizio di parte nel conflitto in corso: il codice a barre non è più solo l’identificativo della merce ma la sua qualificazione come fattore dannoso o non dannoso, come strumento nella filiera ancora controllata dai padroni, quindi dagli industriali e dal loro mondo, per abbassare il costo del lavoro del pastore e aumentare il costo della riproduzione della sua comunità attraverso la mercificazione del consumo per profitti esterni. “Noi di carne ne abbiamo abbastanza qui, ma non ce la fanno commerciare”.
Uno dei primi camion viene fermato. L’autista è agitato. Fa storie per mostrare la bolla. Balbetta. I pastori si spazientiscono e un grosso gruppo si avvia a passo spedito verso i portelloni del mezzo. La celere goffamente li insegue e si infila tra gli uomini e il camion. La tensione sale. “Oberre!” urla la folla: apri! Un funzionario di polizia convince l’autista ad aprire il camion. Salgono due pastori. Il camion trasporta carne di manzo. Prendono il primo capo appeso al gancio, controllano l’etichetta. Si rivolgono alla folla assiepata attorno al sipario aperto del rimorchio. Un attimo di silenzio: “sa petza est italiana!”. La carne proviene dall’Italia. Silenzio. “Può passare”, dicono da sotto. La polizia si scansa. Il camion chiude e avanza lentamente per lasciare ispezionare gli altri mezzi in coda. Ogni articolato viene controllato. Infagottati nelle fasce tricolore un gruppo di amministratori locali partecipa alla protesta. Ci entrano in punta di piedi. Si avvicinano ai suoi epicentri con apprensione solo quando la polizia si infila corazzata tra i pastori, invitando alla calma ma senza sapere bene a quale delle due parti rivolgersi. “Fino a due giorni fa ci dicevano di smetterla con i blocchi, che la protesta si era fatta e che ora bisognava finirla”, spiega uno dei pastori impegnati a smistare i camion. C’è diffidenza e giudizio. Come verso chi continua a conferire “clandestinamente” ma che, quando si vincerà questa lotta, godrà dei frutti conquistati con l’abnegazione di chi con ostinazione ha continuato a lottare. La politica è stata presa in contropiede da questa rivolta. Si è rovesciata l’insana consuetudine delle elezioni come tempo di sospensione ulteriore delle proprie esigenze di comunità, sacrificate sull’altare dello scambio tra consenso e l’ aleatorio miraggio delle ricompense a venire. Vota questo e avrai quest’altro. No, questa volta la sospensione è della politica: la campagna elettorale per le regionali del 24 febbraio non si sente più, non interessa più nessuno. Si tiene lontana perché estranea e d’ostacolo alle soluzione immediata avanzata dai pastori: gli industriali ci paghino il latte un euro a litro! Rimane difficile per le vecchie istituzioni intestarsi e mettersi a capo della protesta per governarla. Questa volta non è un lamento disperato. È uno sciopero in cui divampa il rifiuto che fa male a chi comanda. Allo stesso tempo le vecchie istituzioni non possono ignorare quanto accade, pena l’ignota destinazione di cotanta radicalità, e il rischio di venire accusati dall’accusa fatta dal popolo di “stare con gli industriali”. Un capannello si infiamma. Si discute di un diverbio con i carabinieri accaduto poco prima, qualche passo più in là. Un sindaco urla più degli altri: “Non posso permettere venga offesa la divisa che rappresenta lo Stato italiano che io stesso rappresento”. Pensa di imporsi alzando la voce. Per ristabilire una gerarchia. Ma i silenzi da queste parte sono già delle risposte eloquenti.
Mentre si scavalcano recinzioni, cunette, guard-rail per vivere la 131 i camion scorrono lentamente passando da un controllo all’altro. Su 500 metri di strada in direzione Nùoro, dal distributore Agip al cavalcavia del bivio di Lula, i posti di blocco dei pastori sono due. In mezzo la folla. Il primo camion perquisito procede a passo d’uomo fino a quando incontra il secondo blocco.
–“I vostri colleghi mi hanno già controllato”.
–“Vogliamo rivedere. Scendi e apri”.
La tensione sale nuovamente. L’autista è ancor più reticente di prima. Qualcosa non torna. Si ripete la stessa scena iniziale, 500 metri più in là. Il camion viene circondato. La gente si accalca. La polizia accorre facendosi largo tra una selva di schiene. “Stessa formazione di prima”, urla il capo squadra facendo schierare gli agenti spalle al mezzo e faccia alla gente. Due pastori si fanno aprire il rimorchio. Riprende l’ispezione. Dura più di quella di prima. Si riapre lo sportello, un pastore agita un’etichetta che stringe tra le dita: “Questa è la dimostrazione di come siamo presi in giro: questa non è carne italiana! Non ha l’etichetta che richiede a noi allevatori”. Un’altro si affianca sporgendosi dal fondo del camion verso l’esterno. “Guardate come hanno messo l’etichetta!” Alza le braccia e stacca come una figurina un’etichetta dall’altra: sopra la provenienza italiana, sotto, coperta, quella polacca. “A terra!” urlano da sotto.
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La polizia si infittisce attorno al camion. Dopo un po’ gli allevatori decidono di chiamare l’ASL per far sequestrare il carico di carni destinate a una macelleria di Nùoro. Gli ispettori che scandagliano il lavoro dei pastori, quelli che li denunciano, ora sono al servizio dell’interesse di chi produce sul territorio. Il potere di sanzionare per ora è passato di mano. I visi di chi assiste alla scena si illuminano: “Senza il blocco non avremmo scoperto niente. Questa carne va a finire nelle nostre macellerie. Costa meno e la nostra carne, che nemmeno ce la fanno vendere, non la compra nessuno”. È una forma di difesa contro il mercato ma a partire da una critica a chi ne impone il dominio sul territorio. Gli industriali, i distributori. “Il problema è questa globalizzazione così: questa carne la gonfiano, sono allevamenti intensivi, la riempiono di vaccini. Per la produttività. Più produci meno costa la carne. Ma fa male. Poi ci sono le intolleranze, i tumori. Invece noi, se non produciamo secondo gli schemi dell’industria non possiamo commerciare, siamo fuori”. Il latte, i pascoli, il formaggio non sono più solo il DNA di questa terra: sono un mercato che ha inglobato tutto. Il mercato agropastorale in relazione col turismo e con la grande distribuzione plasma il consumo e il lavoro dei sardi e il loro modo di vivere. C’è una lotta per conquistare un’autonomia da questo. Un rebus di difficile soluzione. Questa è anche, nelle sue pieghe, una rivolta contro il mercato e contro le condizioni della vita e del consumo mercificati.
Il blocco sulla 131 al bivio di Lula verrà dismesso all’alba. 21 ore.
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Il pastore e l’industriale
Il presidio di Thiesi è forse quello più importante. Tanti altri caseifici sono presidiati 24 ore su 24. Sono sei o sette in tutta la Sardegna in questa settimana di fuoco: Sardaformaggi a Buddusò, Se.Pi a Marrubiu, Central a Sanluri, Podda a Sestu, Serra a Ortacesus, Aresu a Donori, Latteria sociale a Santadi. Praticamente tutti i caseifici dei grossi industriali, cooperative escluse. A Thiesi però ci stanno i Pinna. I veri padroni. Sono loro che impongono il prezzo del latte. Come si dice, “fanno cartello” con gli altri industriali, comprano dalle cooperative, controllano il mercato e gli organismi che dovrebbero vigilare su questo. Nel Consorzio di Tutela del Formaggio Pecorino Romano siedono solo industriali. Il controllato è anche il controllore. Poche ore dopo la fine del blocco al bivio di Lula l’antitrust apre un’istruttoria sul Consorzio e su 32 imprese di trasformazione. È d’altra parte opinione comune tra i pastori che la crisi di sovrapproduzione di pecorino che ha innescato il crollo del prezzo del latte ovino sia stata voluta dagli stessi industriali, non diversificando il cosiddetto portafoglio prodotti. Nonostante il mercato fosse già saturo gli industriali hanno continuato a produrre prevalentemente pecorino romano a scapito di altri prodotti, come il fiore sardo, il pecorino tipico della produzione casearia sarda. La produzione industriale standardizza. Migliaia di tonnellate di romano si sono accumulate nei magazzini. È dagli anni ‘70 in avanti che il mercato caseario dei derivati ovini si è orientato a una monoproduzione di pecorino romano assorbito soprattutto dal mercato americano. A partire dagli anni ‘90 l’apertura dei mercati precipita nella crisi la produzione di romano, insidiata dalla concorrenza di altri prodotti. Da allora il prezzo del latte sale e scende, raramente raggiungendo un euro a litro. Il settore non è mai stato riformato. È l’industriale a guadagnare anche dalla sovrapproduzione: il prezzo del latte resta basso e l’invenduto viene ritirato dal mercato a ogni ciclo di crisi, come successo nel 2017 quando 4,1 milioni di euro di fondi regionali sono stati dirottati nelle tasche degli industriali per svuotare i magazzini, destinare il prodotto agli indigenti e dare respiro al mercato. Controllando i consorzi gli industriali scelgono cosa produrre continuando a far girare la giostra nella spirale della crisi e degli aiuti pubblici. Una spirale sempre più stretta. Tanto stretta da strozzarsi. “Prima erano abituati che andavamo a chiedere alla Regione. Adesso non devono lavorare. Non guadagniamo noi, non devono guadagnare loro”, dice un pastore di Sant’Andrea Frius con lo sguardo rivolto al caseificio Aresu, nell’area industriale di Donori, nella regione del Parteolla; un sali e scendi di colline che dal Campidano di Cagliari prepara la scalata alle più aspre vette dell’interno.
Thiesi è un centro di antica ricchezza. Si capisce subito, quando si lascia la 131 e si battono le strade strette che portano al paese sulle quali si affacciano magazzini e capannoni industriali dell’inizio del secolo scorso. Le case su via Roma restano sfarzose, anche se abbandonate. È nel 1836 che Thiesi viene strappata definitivamente all’ordinamento feudale. I nuovi signori saranno quelli dell’industria casearia. Tutto il paese lavora per i Pinna, dal 1919. Festeggia un secolo il caseificio. Gli fanno la festa, i pastori. Giorno e notte la strada che porta al grosso stabilimento alla periferia del paese è occupata dagli allevatori che attorno al fuoco si avvicendano per impedire ai mezzi di arrivare al caseificio. “Qui non siamo ben visti. Il paese è con i Pinna. Qualche sera fa un gruppo armato è arrivato fino a qui. Volevano sgomberarci li abbiamo respinti”. Oltre 200 addetti al caseificio. Anche la squadra di calcio locale, sponsorizzata dai fratelli del formaggio, si schiera con l’industriale. È il suo piccolo feudo. I pastori tengono duro, questo presidio è fondamentale. Pinna comanda tutti. Qualcuno in questi giorni si è tolto più di una soddisfazione. Un pastore di Samugheo racconta di un altro: “La sera che è uscito dal caseificio ed è venuto dai pastori non l’hanno neanche fatto parlare, uno gli fa – tu sei un pezzo di merda! – Perché?- fa lui – Perché mi rubi il lavoro”. Ruba il lavoro. Non il clandestino. L’industriale. La pressione attorno al caseificio è alta. Questo non è un presidio come gli altri. Certo da qui ci si incontra e ci si organizza. Come negli altri presidi. Ogni pastore che smonta dal suo pick-up e si avvicina al fuoco per scaldarsi ha un aneddoto da raccontare di una caccia alla cisterna andata in una maniera oppure in un’altra. Ma qui c’è di più. Qui si fa sentire il fiato sul collo all’industriale. “Balla, Pinna no crocara cun popidda sua”, non dorme con sua moglie. “Dorme con le guardie del corpo”, dice ghignando un pastore davanti alla Central di Sanluri e non si capisce se sia ironia, un auspicio o una profezia. Lotta di classe è restituire un po’ della preoccupazione che appesantisce la vita a chi ne è responsabile. La sofferenza non è più l’angosciosa minaccia di non vincere la vita nonostante la fatica, nonostante si lavori. Lottare svela le condizioni della sofferenza e la vulnerabilità di chi la comanda. Par finirla con questa storia. Per stare bene. È un movimento che preoccupa il padrone, come uno spettro che torna a scuotere la sua tranquillità: “Qui si sta quasi parlando di conflitto di classe. Si stanno scomodando antichi termini e odi che ormai si sperava fossero totalmente sepolti… e pare invece che così non sia”, dichiara Paolo Pinna, preda dei suoi incubi, in una lunga intervista a una testata on-line locale.
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