Tenere il passo, la danza prosegue
Ancora nessun accordo: perché c’è ancora tanto da imparare da quanto succede in Sardegna.
Prima l’incontro al Viminale: “è una questione di ordine pubblico, si avrà una soluzione entro 48 ore per raggiungere un euro a litro”. Missione fallita. Era giovedì. Il giorno prima a Cagliari, in regione un altro tavolo senza esito. Ieri sera il nuovo tentativo a Cagliari, in Prefettura, il ministro Centinaio lavora per fare incontrare in rappresentanza dei pastori in lotta Coldiretti, Movimento Pastori Sardi – lo storico movimento degli allevatori ma non rappresentativo dell’intera protesta – e gli industriali caseari. La Sardegna è in ebollizione. Da dieci giorni gli allevatori non conferiscono più il loro latte ai caseifici i quali sono presidiati 24 ore su 24 e ogni strada dell’isola è controllata dai pastori che fermano mezzi sospetti di trasportare latte o merci che danneggiano il proprio interesse. Il governo ha bisogno di sbloccare la situazione, tra una settimana si vota, ma questo è un conflitto sociale vero.
I fatti: l’incontro in prefettura a Cagliari termina in tarda serata. Sviluppa le bozze per un accordo tra le parti già presentate in Regione e al Viminale. Bozze. La stampa non vede l’ora di tirare un sospiro di sollievo e parla di accordo raggiunto. Sono bozze. Anche perché delle due parti che dovrebbero trovare un accordo una manca al tavolo. Non può starci, non può essere rappresentata ad un tavolo dove siedono “dieci cravatte ma un solo vellutino”. Il Movimento Pastori Sardi è alla rincorsa di questo conflitto ed è soggetto al ricatto dei suoi protagonisti indisponibili a mediare su una richiesta unificante: 1 euro a litro di latte ovino, lo paghino gli industriali, sono loro a dover mettere i soldi, pensano i pastori, non l’assistenzialismo dello Stato. Il portavoce di MPS lo sa ed esprime cautela sull’incontro: “è una bozza”. Che bozza?
Gli industriali sono disponibili a rivalutare da subito il prezzo del latte dagli attuali 0,60 centesimi a 0,72 al litro aprendo alla possibilità di rivalutare ulteriormente il prezzo da maggio in avanti in funzione del variare sul mercato del prezzo del pecorino romano. Dicono, prevede il governo, il prezzo del romano dovrebbe salire facendo aumentare il prezzo del latte in virtù dei 50 milioni di euro di soldi pubblici impiegati per ritirare dal mercato, dai magazzini dei caseifici, le migliaia di tonnellate di pecorino invenduto. Ma qui c’è già una truffa: il prezzo del romano verrebbe calcolato su una media relativa a una forbice compresa in partenza tra giugno 2018 e maggio 2019. Una media falsata perché considera un periodo di forte ribasso del prezzo del latte. Primo dato: di pagare il latte un euro a litro, il minimo per coprire i costi di produzione a carico degli allevatori, gli industriali non ci pensano nemmeno. Secondo dato: con questa bozza elemosine ai produttori, ancora milioni ai padroni. Terzo dato: il costo del lavoro del pastore resta agganciato alle variazioni del mercato. Solita storia di sempre. Un buco nel latte.
Il rappresentante di MPS cerca di prendere tempo: “parlerò con i pastori ai presidi”. Ma teme il loro umore. Eppure il ministro avverte: “non c’è un piano B, da lunedì i presidi vanno sgomberati non ci sarà più tolleranza”. Il tavolo è l’occasione per dare un giro di vite sul governo di un fenomeno che sta sfuggendo di mano. È la logica stessa della trattativa: ora devono provare a far paura, intimidire per piegare chi lotta. Tutta politica. Con la politica al servizio degli industriali. Tutta forza. È il momento in cui si misura la tenuta della rigidità posta. 1 euro al litro e bo. Ma è tutto qui? Si tratta solo di una contrattazione tra l’interesse corporativo di un settore in rivolta e quello padronale? No. Allora perché bisogna osservare con attenzione quanto accade in Sardegna? Perché questa curiosità per un fenomeno che solo con la sua violenza si è imposto per qualche minuto di telegiornale e che ancora, nonostante tutto, resta così distante da chi non condivide la condizione di chi lotta, almeno fuori dall’isola?
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Innanzitutto abbiamo qui a che fare con il primo conflitto sociale di ampia portata sotto questa legislatura. A Roma annusano il fatto. Salvini ha fatto cilecca. Il governo è in reale difficoltà perché questo scontro si sviluppa dentro e contro il rapporto produttivo: un pezzo della filiera, quello più basso, si è negato nella sua funzione per i padroni, e risulta ingovernabile. Il latte dei pastori non entra più nei caseifici. Ma non è uno scontro riducibile alla mediazione sindacale perché sabotare la filiera significa compromettere l’organizzazione sociale governata dal suo rapporto: strade, paesi, comunità bloccate. Salvini non ha l’ultima parola, i suoi interventi affrettati, tradisce le sue promesse, le sue proposte effettive sono considerate vili. Al momento non si scorge un recupero del fenomeno neanche alle condizioni del populismo: il governo attraverso il conflitto è in questa vicenda trasformato in un governo del conflitto, ai suoi tempi, nelle sfere basse della riproduzione sociale e non a quelli dello Stato. Tutte le cosiddette risorse populiste funzionali all’accumulo verso l’alto del potere e del consenso per il dominio diventano ora risorse per organizzarsi in questa lotta dal basso: l’individuazione dei nemici è scelta guardando in alto, al nemico di classe; il riconoscersi come corpo collettivo rigetta la difesa di interessi comuni in seno al popolo, allo Stato, alla Nazione; la comunicazione sui social network si orienta alla condivisione di un sapere per la lotta. Lo sviluppo di questa spacca il popolo, che diventa il popolo in conflitto che tende ad espellere dalla sua comunità gli industriali e la politica che li difende.
Grandi coordinate, sì, ma comunque delle novità sia per i recenti schemi della politica sia per i protagonisti di questa rivolta. Se una costante collerica ha attraversato ogni lotta dei pastori oggi inequivocabilmente la mediazione al ribasso è una lingua sconosciuta. Politicamente, all’altezza di questo tempo, non – solo – per giusta testardaggine. Per i pastori in lotta c’è la sicurezza diffusa del conseguimento della vittoria, in altre parole la consapevolezza che fermarsi a mezza strada significa lasciarsi stroncare da una violenta ritorsione padronale. È per questa ragione che non attecchiscono i tentativi di ricondurre le espressioni di questa lotta a rappresentanze comandate da interessi superiori. Ogni tavolo, ogni incontro, ogni portavoce lascia sempre scontenti. Si punta in alto. A far male all’industriale, non a far incontrare le parti. Non si tratta di una dialettica che contrappone la sana spontaneità alla corruttibilità dell’organizzazione, ma si intravede piuttosto al fondo di tutto l’indisponibilità ad assumere l’interesse generale del settore produttivo, il suo rilancio, la collaborazione per riprendere una normalità che arricchisce solo il padrone. La filiera è rotta, l’interesse dall’industriale non è quello del pastore e attorno a questo si organizza una domanda collettiva, dei comportamenti in comune. Non a caso questa è la guerra del latte.
La contrattazione individuale dei singoli allevatori sul prezzo del latte imposta dagli industriali è stata rotta da un conflitto collettivo che per la prima volta ha fissato una rigidità: il prezzo lo fanno gli allevatori per garantire la propria riproduzione, la dignità della propria vita. Il costo della forza lavoro non deve più essere deciso dalle fluttuazioni del mercato e imposto dalla forza e dal ricatto dell’industriale. Questa è una lotta per fissare il salario di fatto percepito da chi produce come una variabile indipendente dalla produttività del capitale. Utopia al tempo della globalizzazione capitalistica? Può darsi. Eppure qui sta l’autonomia, quella effettiva di questo movimento che stravolge in meglio da dieci giorni le vite di migliaia di pastori e delle loro comunità. L’autonomia che manca, quella del progetto che non c’è o che forse solo non si vede.
Il realismo capitalista dice che per competere sul mercato globale i trasformatori hanno sempre bisogno di abbassare i costi di produzione. L’indisponibilità degli industriali ad anche solo approssimarsi alla richiesta dei pastori non è solo un frutto dell’abitudine alla prepotenza di chi comanda. Si tratta anche della condizione oggettiva che, a questo stadio di sviluppo delle connessioni intracapitalistiche, impedisce una effettiva redistribuzione degli utili verso il basso senza perdere posizioni sul mercato globale, senza sacrificare i margini complessivi di profitto. I loro margini di profitto. Quelli di chi li fa ora. A queste regole a sacrificarsi devono essere i pastori. Loro sì. Nell’impossibilità di mediare questa contraddizione lo Stato si mostra solo come strumento a difesa della rendita del padrone e garante dell’ordine. Tutto ciò rende solo più odiosi i nemici e significativo il conflitto in corso. Ma qui sta il punto: davanti all’impossibilità della risoluzione della vertenza quali sviluppi della contraddizione sollevata si possono dare? I presidi ai caseifici restano, si programmano nuovi blocchi, la promessa di non fare arrivare le cisterne del latte viene rinnovata… da stanotte la sfida è la minaccia dell’estensione della protesta su altre geografie.
Mantene su passu, ca su ballu sighit
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