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” Noi dei vostri diritti non sappiamo che farcene..!”

 

Come primo punto, per iniziare la discussione, mi pare di poter dire che gli eventi di ieri notte (e comunque oggi sono previsti molti altri appuntamenti che probabilmente daranno continuità all’esplosione che c’è stata ieri dopo il verdetto che di fatto non porta neanche a processo il poliziotto che ha ucciso Mike Brown), oltre alla durezza e alla radicalità dello scontro che si è manifestato soprattutto a Ferguson, a differenza di quanto successo ad agosto, che pure aveva avuto un interesse, diciamo così, da parte dei movimenti anche in alte città, questa volta pare che l’interesse si sia trasformato immediatamente in iniziativa politica. Certo, magari con numeri non altissimi, però da New York a Los Angeles a Oakland, in tante città si sono date iniziative di solidarietà attiva con blocchi dei ponti, delle autostrade ecc… Volevo chiederti, dunque, da un lato di introdurre un po’ il contesto, dall’altro di dirci se condividi questa analisi di una Ferguson che inizia a generalizzarsi e probabilmente a toccare anche aspetti delicati, nervi più scoperti degli Usa delle ultime settimane.

 

E’ interessante capire cos’è successo in questi tre mesi e mezzo a Ferguson, dall’uccisione di Mike Brown alla sentenza del Grand jury. Credo che da questo punto di vista si possano fare alcune valutazioni interessanti. In una prima fase l’amministrazione Obama ha tentato di riprodurre il modello di Brooklyn dopo l’uccisione di Kimani Grey da parte della polizia nel marzo dell’anno scorso, cioè, in poche parole, anestetizzare la rivolta mediante leader religiosi leader afroamericani del partito Democratico. Questa operazione a Ferguson è fallita da subito. E nuovamente, ai primi di settembre, quando gruppi di cittadini, cosa inedita negli Usa, hanno interrotto più volte le sedute del consiglio comunale di Ferguson. Alla fine di settembre ci sono state le dimissioni del procuratore generale dello Stato, Eric Holder, che è l’equivalente del ministro della giustizia del governo americano. L’unico che era andato a Ferguson. Eric Holder era la faccia liberal-progressista dell’amministrazione di Obama. Nato nel Bronx, afroamericano, leader dei diritti civili. Holder si dimette dopo essere stato a Ferguson ed avendo capito che lì la possibilità di mediazione è totalmente fallita. Ferguson è stata praticamente la goccia che ha fatto traboccare il vaso delle divergenze tra Holder e Obama. Il passaggio successivo è stato invece a metà ottobre, quando a Ferguson per quattro giorni consecutivi si sono riunite associazioni, movimenti, gruppi politici, organizzazioni antirazziste. Quattro giorni di discussione vera e intensa, a tratti anche molto dura e polemica all’interno di questo grande schieramento. Ebbene, in quei giorni, non hanno certo trovato il modo per ricomporre tutti i soggetti che hanno partecipato alla rivolta, ma hanno formato una coalizione che garantiva spazi politici e di iniziativa a tutti i soggetti. Questa ha messo in campo sabato 11 ottobre la più grande manifestazione fatta a Ferguson dal 1930. A quel punto il governo americano capisce che la questione di Ferguson non è più limitata al solo giudizio dell’uccisione di Mike Brown da parte di Darren Wilson. La decisione del Grand jury avrebbe chiamato a rispondere del comportamento della polizia in generale. Gli effetti politici sarebbero andati molto oltre il fatto in sé dell’uccisione di Mike Brown. L’amministrazione Obama, il governatore del Missouri, tutto l’entourage repressivo, si accorge che Ferguson non è assolutamente addomesticabile, omologabile. E’ a quel punto che ovviamente decidono di prendere le contromisure. Negli ultimi quindici giorni, tanto per farvi alcuni esempi, il governatore del Missouri ha praticamente spostato reparti della Guardia Nazionale nella vicina base di Saint Louis; da quindici giorni su Ferguson vola un Global Hawk, il cosiddetto super drone che è in grado addirittura di disturbare le comunicazioni di cellulari, social network ecc… e terza cosa, da più di una settimana è stato dichiarato lo Stato di Emergenza. La sentenza del Grand jury era nota da più di un mese, essenzialmente stavano aspettando il momento per annunciarla. Nel momento in cui annunciano questa sentenza, ieri, in molte città erano già stati convocati una serie di happening, di manifestazioni. E quindi in molte città, compresa New York, erano già pronti. Anche perché, a questo punto, Ferguson sta veramente diventando un piccolo laboratorio dove tutti guardano, anche all’interno dei movimenti. Io credo che sia questa la parte interessante su cui fare valutazioni.

 

 

Rispetto al passato, penso agli anni ’60, qualcuno potrebbe dire che ci troviamo di fronte alla stessa dinamica. In qualche modo Obama dice: quello che stiamo vedendo oggi è il lascito, se vogliamo più nefasto, di una lunga storia. Qualcuno potrebbe essere tentato da dire: siamo sempre di fronte al ghetto nero ipersfruttato ed emarginato in cui scoppia la rivolta di fronte alla brutalità della polizia. Però siamo sempre lì dentro, in quella storia. Come risponderesti a queste affermazioni? A te quali sembrano le continuità e quali invece le novità dentro la storia della “linea del colore” negli Usa?

 

Sinceramente penso che ci sia una grande frattura rispetto al passato. Una grande differenza. Su più livelli. Il primo riguarda i soggetti in campo, che esprimono la maggior capacità conflittuale e l’opposizione più decisa nei confronti del sistema in quanto tale, in modo anche confuso e non riassumibile in un modello come quello della rivolta dei ghetti del passato, degli anni ’60, le rivolte di Watts, di Detroit ecc. Questo perché credo che la composizione sociale sia diversa. Oggi si ha a che fare con uno strato soprattutto giovanile, molto precario, che ha abbandonato anzitempo la scuola, che non ha una prospettiva di futuro se non all’interno di queste che sono state nominate come “le grandi praterie urbane”, e cioè dove non c’è assolutamente nulla che possa aggregarli in un qualsiasi modo che non siano le grandi lavanderie, le groceries, oppure i grandi parcheggi. Che vivono ovviamente in molti casi, essendo la precarietà a dei livelli eccezionali, di salari marginali, di un welfare di comunità distribuito dalle organizzazioni religiose. Questa cosa secondo me genera una forma di soggettivazione molto diversa dal passato. Racconto un piccolo episodio a mio avviso illuminante. Durante la quattro giorni di Ferguson dal 10 al 13 ottobre, dove hanno partecipato un ampio spettro di associazioni dalle più moderate alla più radicali, in un grande workshop del venerdì gestito da una delle grandi reti non governative che si occupa di antirazzismo, i relatori sono stati interrotti da un gruppo di giovani che avevano partecipato alla rivolta di Ferguson, i quali hanno detto, in modo molto esplicito e anche molto provocatorio: “Noi dei vostri diritti civili non sappiamo che farcene”. Un’immagine direi plastica che mostra una chiara divisione. Cioè: i vostri diritti civili non sono trasmissibili oggi. Tradotto in un linguaggio, diciamo, europeo, e tenendo conto delle loro modalità di linguaggio, delle loro forme espressive, praticamente dicevano: un diritto oggi ha un senso se apre uno spazio di conflitto o un processo di soggettivazione. Noi non possiamo guardare al passato, a quello che è successo. Vi rispettiamo ovviamente per le grandi lotte che avete fatto, ma oggi la situazione è un’altra. I vostri diritti per noi sono inservibili. Noi rivendichiamo nuove forme di soggettivazione rispetto al passato. La società americana in questi anni, definita come “post-razziale”, in realtà ha una combinazione molto forte tra una gerarchia razziale, una gerarchia urbana, una gerarchia di classe su territori con confini molto mobili. Tanto che lo stesso concetto di comunità non ha più il valore del passato. Cosa appunto diversa dai classici ghetti. Secondo me c’è questa frattura col passato, e si è pure interrotta anche una forma di “narrazione” tra chi racconta di quelle lotte e i protagonisti delle rivolte di questi giorni. Anche da un punto di vista delle forme che assume il conflitto la cosa è molto diversa. A Ferguson e in molte altre città, in questi giorni, ma già da agosto, non è che si svolgevano i classici cortei di protesta. Si hanno aggregazioni di strada molto veloci, che si spostano da un punto all’altro, che assumono più un andamento fluttuante all’interno dei quartieri. Ed pure le forme di solidarietà sono diverse. Si reggono molto di più sul riconoscimento reciproco, sul senso di prossimità, sulla cerchia amicale. E non tanto su un ideale di diritto civile nel quale i neri dovrebbero riconoscersi.

 

 

Guardando, anche sui social network, gli eventi che chiamano alla mobilitazione, molti hanno la bandiera americana bruciata come simbolo dell’evento. Cosa non scontata per i movimenti, anche radicali, negli Stati Uniti. Inoltre questi eventi di Ferguson arrivano a poco tempo dalle elezioni di “mid term” che hanno segnato un passaggio che dire complicato è poco per l’amministrazione Obama. Possiamo dire, su un piano quantomeno simbolico, che con tutte le difficoltà che l’amministrazione già aveva, i fatti di questi giorni sono la chiusura definitiva dell’era Obama e di quello spazio di immaginario, e anche di tenuta e di sussunzione dei conflitti, che era riuscito a creare? Si apre ,secondo te, uno spazio nuovo? Che non significa per forza nuovo…

Penso che l’era Obama sia finita con le elezioni del secondo mandato. Quella campagna elettorale ha chiuso quell’era. Sicuramente per la grande maggioranza della popolazione afroamericana più politicizzata, quella che vota. Dopodichè, Obama, in questi due anni ha cercato di recuperare su alcuni terreni. Ma il recupero di Obama è avvenuto all’interno di una concezione amministrativa e autoritaria della politica. E di una concezione del ruolo degli Stati Uniti, sia dal punto di vista interno che esterno, che non ha nulla a che fare nemmeno con le flebili aspirazioni liberal-progressiste interne al partito democratico. Obama ha riorganizzato completamente il sistema repressivo americano. Ha introdotto una nuova filosofia per quanto riguarda la proiezione esterna degli Stati Uniti e questo è stato il suo, tra virgolette, grande successo politico in questi anni. Non è stato certo il welfare. Il famoso ObamaCare, dal punto di vista sanitario, è fallito, e non tanto per l’opposizione repubblicana, ma per l’inconsistenza completa del diritto ad essere curati da strutture pubbliche. Gli stessi annunci fatti anche recentemente in tema di immigrazione, spacciati per grandi aperture, si rivelano pochissima cosa. Si rivelano ancora una volta come controllo dei flussi migratori mediante permessi di soggiorno temporanei ,contratti di lavoro precari e centri di detenzione. Ferguson in questi mesi sta convincendo anche i più recalcitranti che l’era Obama è finita da un po’ di tempo. Credo che sia molto interessante guardare, oggi, con molta attenzione quello che succederà nei prossimi giorni a Ferguson, ma anche negli altri due poli che, come dire, vengono tenuti sott’occhio sia dai grandi media mainstream americani che dall’intera Amministrazione, che sono da una parte New York e dall’altra la Baia di San Francisco. Il triangolo tra San Francisco, Oakland e Berkeley. A Berkeley tra l’altro, in questi giorni, una parte dell’università è occupata. Infatti temono molto che si possa creare una saldatura tra gli studenti di Berkeley e i giovani di Ferguson. Così come hanno temuto molto, faccio un altro esempio, il fatto che durante i 4 giorni di ottobre a Ferguson abbiano partecipato anche i lavoratori dei fast food, come segnalava preoccupato il New York times in un articolo. Quindi questa possibilità di connettere le lotte, i conflitti, è la cosa che naturalmente temono di più. Lo stesso grande sindacato Afl-Cio è intervenuto per smorzare il conflitto. In un modo che si è rivelato un boomerang: il segretario generale ha aperto una campagna dal titolo “un nostro fratello ha ucciso il figlio di una nostra sorella”, perchè Darren Wilson, il poliziotto che ha ucciso Micheal Brown, è iscritto allo stesso sindacato della madre del giovane. Quindi anche tutta questa operazione è fallita, per questo ancora oggi a Ferguson abbiamo a che fare con queste forme di conflitto anche molto determinato. Perchè a Ferguson lo spazio della mediazione oggi è chiuso. E a questo punto c’è la possibilità che si aprano degli scenari nuovi.

Come ultima questione, dal punto di vista dei movimenti, pur senza fare analogie ma giusto per tenere in mente alcune figure: viene facile pensare ai riot inglesi o alle banlieu. Dall’altro negli ultimi anni abbiamo avuto, dal 2011, quel ciclo che va dalle insurrezioni arabe alle acampadas fino ad Occupy ecc… I fatti di questi mesi a Ferguson parlano forse di un intreccio di figure differenti. Ingigantire la tendenza non è mai produttivo, ma forse potremmo guardare a questi fatti come l’embrione di un nuovo passaggio nei movimenti guardati su una scala ampia. Inoltre: da un lato la composizione “dell’esclusione radicale”, del nuovo proletariato urbano, e quella della classe media in corso di impovermento, hanno sempre avuto difficoltà a mischiarsi. C’è forse, a partire da ieri sera, un possibile spazio di convergenza tra queste due soggettività sociali? Tra questo proletariato black e il precariato più bianco, middle class? Quali spazi apre la “dinamica Ferguson”?

 

Penso che dal 2011 si sia aperto un nuovo ciclo di lotte, che ha un andamento molto contraddittorio, direi sussultorio, che però parla attraverso una nuova composizione di classe. Ed è questo credo il vero problema che abbiamo di fronte tutti, qua (in Italia) come negli Usa e da altre parti. All’interno di questi movimenti a livello internazionale ci sono molte analogie ed parecchie differenze. Difficilmente possiamo usare una categoria unica per definirli. Rimanendo al caso americano, questa alleanza tra il il nuovo proletariato black o come vogliamo chiamarlo, e la classe operaia “tradizionale”, in gran parte di lavoratori bianchi, la vedo abbastanza complicata. Per due motivi essenziali. Il primo riguarda le organizzazioni sindacali che rappresentano oggi negli Usa veramente un ostacolo per l’autorganizzazione e lo sviluppo del conflitto. E qui gli esempi sono innumerevoli, fino a quelli più recenti, col sindacato che tratta direttamente le assunzioni per la proprietà, la vicenda dei fondi pensione, il referendum tra i lavoratori della Bmw nel Tennesee ecc. Tutte queste cose messe insieme fanno vedere a tutto uno strato giovanile precario e proletario, questa istituzione come una controparte. Come quelli che stanno dall’altra parte, come quelli che sono il sistema, come quelli che sono il potere. E quindi è chiaro che le cose sono molto complicate anche tenendo conto del fatto che nelle punte più avanzate del movimento Occupy, e parlo della West Coast, di Oakland, Portland, Seattle, il movimento Occupy ha avuto grossissimi problemi con le organizzazioni sindacali nel momento in cui sono stati indetti lo sciopero generale a Oakland e quello dei porti della California. Quindi questo è un problema che si dovrà prima o poi affrontare. Arrivo alla seconda questione, altrettanto importante, e anche qui parlo degli Usa ma in parte è qualcosa che si può generalizzare. Il movimento Occupy, Ferguson, sia in agosto che in queste ore e giorni, hanno colto completamente spiazzata quella che veniva chiamata la sinistra radicale americana. E questo è un elemento su cui riflettere attentamente. Nel senso che gli approcci, le categorie, le forme organizzative di quella sinistra sono state assolutamente incapaci di interloquire con quel movimento e tanto meno lo fanno a Ferguson. Qui nasce il vero problema e la vera questione. Anche le discussioni avvenute a Ferguson in quei quattro giorni hanno fatto emergere questo tema sotto traccia. La differenza radicale e profonda di linguaggi, comportamenti, approcci, ma anche di relazione-scontro con il potere e gli apparati repressivi. Vivere nell’attesa, come fa gran parte della sinistra radicale americana,della grande mobilitazione risolutiva della classe operaia delle fabbriche del Wisconsin e del Michigan, i giovani di Ferguson, giustamente, non sanno cosa voglia dire. La loro vita è su un altro livello, in un’altra condizione, è da un’altra parte. Dopodiché possiamo discutere delle forme organizzative, delle modalità con cui si articolano le iniziative, le mobilitazioni e i conflitti. Però questo è il dato di partenza, io credo. E’ un’altra composizione di classe ,completamente diversa che si manifesta diverse forme organizzative e di espressione. Un possibile incontro tra coloro che lottano a Ferguson e i lavoratori dell’industria dell’auto, per fare un esempio, può avvenire se questi ultimi si danno pratiche di conflitto e di autorganizzazione radicalmente alternative alle attuali strutture sindacali.

 

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