Non c’è nessuna questione meridionale – Intervento introduttivo a Tracce
Di seguito riportiamo il testo dell’intervento relativo al tema del Meridione e dei processi politici che lo coinvolgono. Il contributo è stato presentato come una delle relazioni introduttive alla due giorni cosentina Tracce – Territori, Autonomie, Conflitti. Buona lettura.
Ci sono dei processi che evidentemente, in questa fase specifica, stanno attraversando univocamente tutto il Paese e che, però, forse, al Sud in alcune sue forme inciampano. Questi piccoli sgambetti è nostro compito approfondirli, analizzarli e comprenderli a pieno perchè possano essere non piccole nuove oasi nel deserto in cui trincerarsi, ma strumenti di tutte e tutti per rompere l’esistente e inceppare gli ingranaggi. Un processo che possa contemporaneamente trovare le invarianze tanto quanto le specificità. Non ci appartiene la definizione di “Questione Meridionale”: non c’è nessuna questione.
Ci sono degli spazi, dei tempi, dei modi di operare del capitale in un dato territorio. La retorica in cui spesso, erroneamente, cadiamo di “territori sottosviluppati” o di “zavorra dell’Italia” sono quello che il capitale ci impone di leggere. Non esiste un sottosviluppo per come vogliono farcelo credere. Esiste un ben chiaro quadro di espropriazione sempre più devastante e desertificante sui territori in tutte le sue forme, e che in questo momento al Sud sta vivendo come laboratorio di sperimentazione.
Nel dispiegarsi della crisi e nello spaziare del capitale i territori che quotidianamente viviamo sono sottomessi ad un continuo processo di scomposizione/frammentazione, riprogettazione e riorientamento: scomposizione e frammentazione nel territorio delle forme e dei rapporti di lavoro; riprogettazione degli spazi e dei tempi della vita urbana ed extraurbana, così come dei modi di consumo e di circolazione delle merci. E riorientamento del complesso delle relazioni sociali nel segno della produttività e della competitività.
Le nuove possibilità spazio temporali del capitale, hanno progressivamente eroso e trasformato il modello di sviluppo costruito sulla centralità della fabbrica e sulle aree industriali ad alta concentrazione operaia: ora lo spazio dell’impresa economica supera le vecchie aree industriali e si diffonde a rete sui territori del “nuovo modello di sviluppo” ridisegnando l’intreccio tra produzione e riproduzione sociale.
Nell’epoca della delocalizzazione e della frammentazione produttiva, il rapporto tra impresa e territorio si centra essenzialmente sullo scambio: acqua, terra e cielo, pace sociale, forza lavoro a basso costo, sicurezza e adatte infrastrutture contro occupazione/lavoro. La cosa non è certo nuova, accadde così ad esempio per la grande concentrazione industriale dei poli petrolchimici (Augusta-Melili-Priolo, Gela), ma fu l’irruzione di questi poli a trasformare i territori circostanti, negli anni, rendendoli da un lato desertici nel loro hinterland, vedi la recente chiusura di alcune scuole vicino all’ILVA o del futuro trasferimento delle famiglie che vivono in alcuni quartieri sempre limitrofi, e dall’altro sempre più funzionale per i processi produttivi: ampliamento delle risorse idriche necessarie, miglioramento della viabilità, espropriazione di terreni….
Mentre ora i territori vengono pre-trattati, pre-adattati secondo le attese e le pretese del capitale: non si tratta più soltanto di qualche territorio e dei grandi gruppi industriali col loro apparato di ricatto e potere, adesso sono tutti i territori ad essere oggetto, diretto o indiretto, di queste politiche.
Il territorio è qui pensato, piegato ed agito unicamente come spazio della nuova circolazione, distribuzione e produzione, diviene nel suo complesso fattore economico ed in quanto tale deve essere “liberato” da ogni residuo del passato modello di sviluppo, da ogni organizzazione delle relazioni sociali che lo irrigidisce non permettendone la necessaria flessibilità. Il territorio, il tessuto relazionale che lo produce, è trattato nel suo complesso come merce e come ogni altra merce ha valore in quanto valore di scambio.
Eppure ristrutturare una azienda o una fabbrica, reimpostare la sua collocazione nel mercato, imporre flessibilità, precarietà diffusa e bassi salari, è cosa ben diversa dal rimodellare un territorio la cui complessità è data dalla sedimentazione di una infinità di relazioni sociali che ne hanno determinato e ne determinano le diverse caratteristiche. Non ovunque però c’è la medesima permeabilità alle politiche del capitale.
Ma i nostri territori sono, anche, il risultato di rapporti di forza e l’efficacia dei processi di rimodellazione del territorio dipendono anche da questi. Lotta di classe, livelli e qualità del lavoro, storia delle rappresentanze politiche e dei loro rapporti con le strutture centrali del potere, presenza e qualità organizzativa di movimenti cittadini, culture e colture del territorio, rappresentano le variabili di processo da cui in definitiva dipende la possibilità e l’efficacia del processo stesso in termini di realizzazione degli obiettivi prefissati.
In questo senso le “zone marginali del sistema”, i territori periferici, quelli in genere meno esposti ai dispositivi di controllo, “dove l’adattamento alle logiche del capitale si fa necessariamente più debole e incerto”, ma che più ne risentono in termini di generale immiserimento e di rapina dei beni primari materiai, rappresentano “l’anello debole” del processo e certamente un campo importante dello scontro.
Questo ci deve fare uscire dalla retorica imposta di territori deboli, sottosviluppati, e subalterni, è vero, senza farci cadere nella trappola di pensare di trovarci in un luogo in cui i conflitti, le questioni e lo scontro si stiano già dando. Che ci siano delle forme di palese disinvestimento, di “dismissione” del Meridione è palese: è l’attacco metodico che viene strutturato dal capitale sui nostri territori.
Il Sud non è sottosviluppato, è sviluppato per essere luogo di espropriazione ed estrazione, i cui capitali vengono estratti ma messi in circolo in altri luoghi. Tutta la costruzione di aziende fabbriche di morte, della gestione vergognosa dei rifiuti, del piano infrastrutturale, che va dalle autostrade, alle scuole, all’inesistente edilizia popolare: i soldi degli appalti, i guadagni sui rifiuti e sulle produzioni delle industrie e dei petrolchimici esistono, ma vengono reinvestiti altrove. E allora lo sviluppo imposto è uno sviluppo a servizio della parte più “avanzata” e da valorizzare.
L’emigrazione giovanile ogni anno sposta due miliardi di euro, dati dalle tasse universitarie, gli affitti, al spesa, al Nord Italia, e lo svuotamento è direttamente conseguente a un palese disinvestimento sulla formazione: è questo uno tra i nodi che andremo ad affrontare, per capire come si pongono in dialettica tra loro il macrolivello della trasformazione in luogo del disciplinamento di scuole e università, con potenziali spazi di conflitto dati proprio dal totale svilimento che viene sistematicamente praticato su alcuni “luoghi della formazione”. Allo stesso modo, andremo a sviscerare la rigidità delle lotte territoriali, contro il capitalismo estrattivo e la produzione di nocività: queste lotte tracciano una nuova geografia del conflitto e aprono delle nuove prospettive e spazi, oggi probabilmente tra in più interessanti.
Come è risultato evidente dal Movimento No Tav, la capacità di queste lotte di connettere settori sociali normalmente assolutamente scomposti tra loro, riuscendo a costruire soggettività nuove, trasversali, conflittuali nella loro essenza, che rivendicando la difesa del proprio territorio, della propria salute, e la possibilità di decidere sui territori che si abitano e sulla propria vita e salute, è un dato che va approfondito: oggi al sud l’estrazione di valore legata alla nocività e alla distruzione del territorio è uno tra i dati più preoccupanti ma evidenti.
Proviamo ad approfondirlo, a mettere a confronto queste lotte, nella loro profondità e a scoprire come attraversarle, incrociarle e come esasperare la frustrazione che il meccanismo di “dare molto più di quello che si riceve”, valido in molti ambiti ma legato alla propria vita e salute specificamente in questo, per renderlo elemento di rottura.
Inquadrando poi le ultime due questioni quelle del Lavoro e quelle del Reddito, anche lì andiamo ad attraversare ambiti e spazi su cui a lungo ci si è interrogati e che, chiaramente, si intrecciano con l’attuale governo Giallo Verde. Se al giorno dopo delle elezioni del 4 maggio il quadro era abbastanza delineato, con un Nord che ha dato una preferenza alla Lega e un Sud che ha votato in quantità schiaccianti il Movimento 5 Stelle, ora gli equilibri sembrano essere sempre più precari.
La questione del reddito d cittadinanza, soprattutto nel cuore dei quartieri popolari dove la povertà regna sovrana e dove lo Stato è storicamente assente se non nelle forme di polizia e repressione, è una promessa fatta ma sulla quale non c’è alcuna aspettativa.
Nei luoghi in cui lo Stato storicamente, nelle sue forme welfaristiche è assente, una misura come il reddito di cittadinanza si pone come un miraggio, sul quale quasi subito si è scoperchiato l’imbroglio: il proletario chiede i soldi, e li chiede senza volere passare da mille scartoffie, da parametri spesso incomprensibili, infinite file ai CAF, da necessità di avere bisogno di un computer o di altri soldi da spendere per una promessa che nessuno si aspetta verrà mantenuta.
La Lega invece, nella figura di Salvini è palesemente in crescita, essendo l’unica che riesce a sembrare credibile: la questione della Diciotti, così come la Sea Watch, hanno avuto un effetto rinculo per cui il maldestro tentativo della sinistra di criminalizzare, sia politicamente che umanamente, la scelta del blocco degli sbarchi, ha in realtà aumentato esponenzialmente il piano del consenso nei confronti del Ministro degli Interni che, mirando alla famosa pancia, riesce ancora ad apparire come colui che, nell’immobilità governativa, va avanti con le proprie idee per trovare delle soluzioni.
Il gioco però ha vita breve: non esiste nessun programma che trovi delle soluzioni per la crisi del mondo del lavoro, per il lavoro nero sottopagato, fino addirittura a un euro e 80 l’ora, nessuna prospettiva di welfare per i cittadini ma anzi, essendo più della metà dei comuni attualmente in dissesto in Italia collocati tra Campania, Calabria e Sicilia, e essendo il Governo centrale assolutamente lontano da queste realtà, si prospetta un crollo definitivo dei servizi a 360°. Già da tempo, giusto per fare un esempio, la dimensione dell’abitare è un terreno di contesa in cui, nonostante la criminalizzazione che viene fatta, si riesce a dare battaglia. Questo non perchè esista il tentativo di sostituirsi allo stato ma perche è oggettivamente innegabile che l’investimento sull’edilizia popolare è praticamente nullo.
E’ quindi vero che il tentativo leghista della contrapposizione tra pezzi di proletariato sta superficialmente funzionando, è anche vero che il nostro compito deve essere quello di essere interni e legittimati dentro tutte quelle parti di tessuto sociale proletarie e iperproletarie che attraversano i quartieri popolari, le curve, le periferie, così che quando la bolla scoppierà, passi al noi il compito di direzionare verso l’alto, cogliendo le sopracitate tendenze antisistemiche legate all’assenza totale dello Stato, tutte le forme di delusione, frustrazione e rabbia che si daranno.
Ci sarebbero parecchi nodi da affrontare ancora: la composizione dentro i quartieri, le relazioni che si costruiscono con il fenomeni legati al mondo ultras, la gestione del territorio da parte della tanto citata criminalità organizzata, i fenomeni di autorganizzazione che si danno su piani di estrema povertà e che permettono alle famiglie proletarie di vivere comunque una vita bene o male dignitosa, per volerlo chiamare in qualche modo, che si sostituiscono a quello che dovrebbe essere il mercato, ormai pressoché inesistente, del lavoro.
Ma non c’è tempo per affrontare tutte le contraddizioni che chi opera in questi territori vive ogni giorno, adesso: speriamo che questi giorni producano uno scambio sincero su temi per tutte e tutti sicuramente ostici, ma che possono essere sicuramente un terreno di sfida.
Con l’obiettivo non di trovare una sintesi definitiva, ma con l’auspicio invece che un confronto serrato possa, sulla lunga distanza, dotarci di strumenti comuni per inceppare i meccanismi di sfruttamento con cui ogni giorno ci scontriamo.
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